Giosuè Calaciura / Io sono Gesù
L’espressione usata nella catechesi è «vita nascosta»: si riferisce ai primi trent’anni della vita di Gesù di Nazaret, su cui i Vangeli canonici dicono poco o nulla. In sostanza, l’unico episodio ricordato è quello della Pasqua in cui il dodicenne Gesù, terminate le festività, rimane a Gerusalemme senza che i genitori se ne accorgano; lo trovano dopo tre giorni, mentre nel tempio discute con i dottori (Lc 2, 41-50). Certo, alcuni Vangeli apocrifi – i cosiddetti Vangeli dell’infanzia, come quello di Tommaso o dello pseudo-Matteo – narrano di alcuni miracoli compiuti da Gesù fra i 5 e 12 anni. Ma a parte il fatto che si tratta di testi poco attendibili, rimane un vuoto: l’adolescenza, la giovinezza, la prima maturità. Finché non inizia la sua vita pubblica, insomma, Gesù è un personaggio misterioso. Con Io sono Gesù (Sellerio, pp. 284, € 16) Giosuè Calaciura propone un’interpretazione di questo personaggio: una sorta di memoriale, scritto in prima persona, che arriva alla vigilia del battesimo nel Giordano ad opera di Giovanni.
Il dato più rilevante è la piena umanizzazione del protagonista, che nel libro di Calaciura non solo non ha alcunché di divino, ma a un certo punto dichiara di non credere più in Dio («Dio deve essere un bambino ricco e capriccioso. Gioca a farci soffrire»). La travagliata formazione di Gesù è segnata dall’improvvisa e apparentemente immotivata sparizione di Giuseppe: donde l’interrogativo, più volte ripetuto, «Padre, perché mi hai abbandonato?», clamorosa anticipazione del passo più drammatico dei Vangeli di Marco (15, 34) e Matteo (27, 46). Un’altra serie di presagi riguarda il tema, pregnante quant’altri mai, del tradimento. Varie sono le persone dalle quali Gesù si sente tradito: il padre innanzi tutto, la prima fanciulla di cui si innamora, Delia, che sotto i veli cela un doloroso segreto, il capo di una compagnia di artisti girovaghi cui a un certo punto si aggrega, un ingegnoso e spregiudicato impresario di nome Barabba. Per parte sua, Gesù a quattordici anni lascia la madre, senza dirle nulla, per andare a cercare Giuseppe; trova un padre vicario in un altro Giuseppe, falegname a Gerusalemme, salvo lasciare anche lui per seguire il circo di Barabba. In compenso, dopo il suo ritorno a Nazaret riprende con dedizione l’attività di falegname, si dimostra attento alle esigenze del prossimo, e affronta molti rischi per nascondere un forestiero ricercato dai soldati romani, un seguace del cugino Giovanni, ora a capo di un gruppo di giovani accomunati dalla volontà di recuperare il senso mistico e spirituale della religione («non avrei mai potuto tradire Giuda»).
Tutti i fatti narrati appaiono sostanzialmente compatibili con i resoconti evangelici. Numerose le corrispondenze: ci sono i genitori, Maria (mai chiamata per nome) e Giuseppe, la nascita a Betlemme nella leggendaria notte della cometa, il già citato cugino Giovanni, futuro Battista, con i genitori Elisabetta e Zaccaria, la fuga in Egitto e il ritorno in Galilea, le festività pasquali a Gerusalemme, la figura di Erode Antipa, l’amicizia con Lazzaro e le sorelle Marta e Maria. Il tutto, però, ricondotto a una dimensione fortemente realistica: particolarmente efficace, ad esempio, la rievocazione degli antefatti, la precoce gravidanza di Maria, il dramma familiare che ne era conseguito, le nozze combinate con l’anziano Giuseppe (Gesù ne viene al corrente ascoltando di nascosto chiacchiere e sussurri dei parenti di Gerusalemme). Fra le invenzioni più evidenti, oltre a quanto già detto, il progetto di matrimonio con un’orfana cresciuta nella famiglia di Lazzaro, Anna.
Per la verità, un paio di passaggi del racconto di Calaciura lasciano trapelare una possibile apertura al sovrannaturale. La strana apparizione di un bosco di cedri nelle vicinanze di Nazaret, in un momento in cui il legname scarseggia (è in corso la ricostruzione della cittadina, messa a ferro e fuoco da un gruppo di misteriosi armati); l’abbondanza di vino a un matrimonio celebrato poco dopo, in condizioni di inevitabili ristrettezze («Mi sorpresi a pensare come fosse possibile che le coppe non soffrissero penuria di vino»), dove Gesù suona il flauto e si ubriaca. Ma per il resto, quello che esce dal libro è innanzi tutto l’umanissima storia della formazione di un giovane cresciuto in una famiglia povera, in una terra sottomessa a una potenza straniera, in un’epoca di turbolenze, violenze e carestie.
La personalità di Gesù appare contraddistinta dall’inquietudine, dall’acuta sensibilità, da un’intelligenza pronta e creativa, da una propensione istintiva all’operosità e alla generosità, dalla disponibilità al sacrificio, cui fa riscontro l’avvertimento di un destino di solitudine. Insomma, di nuovo: un ritratto che si potrebbe tranquillamente conciliare con l’immagine del Nazareno – o se si preferisce, con la componente umana dell’immagine del Nazareno – consegnata ai Vangeli canonici. Nulla di scandaloso, dunque, anche considerando l’ipotesi che Maria fosse stata violentata da un soldato romano, e che i suoi genitori – Anna e Gioacchino, per parte loro menzionati soltanto nel cosiddetto Protovangelo di Giacomo – avessero pensato di farla abortire.
L’operazione compiuta da Calaciura appare di grande interesse, tuttavia, soprattutto da un punto di vista laico. Se infatti per i credenti Gesù è insieme uomo e Dio, il Salvatore, la seconda persona della Trinità (mi sia consentito sorvolare su alcuni secoli di accanite dispute teologiche), che cosa si può dire di Gesù in termini strettamente storici? Su questo tema, le ipotesi più plausibili mi pare siano state proposte dal biblista americano Bart Ehrman, docente presso l’Università della North Carolina a Chapel Hill, di cui sono stati tradotti molti libri anche in italiano (Gesù non l’ha mai detto, Mondadori 2008; Gesù è davvero esistito? Un’inchiesta storica, Mondadori, 2010; Prima dei vangeli. Come i primi cristiani hanno ricordato, manipolato e inventato le storie su Gesù, Carocci, 2017; E Gesù diventò Dio. L’esaltazione di un predicatore ebreo della Galilea, Nessun Dogma, 2017).
Per inciso, Ehrman, evangelico e già «cristiano rinato» (born again Christian), a forza di studi filologici è diventato agnostico, ma ha sempre difeso la storicità di Gesù di Nazaret. E questo è il punto a mio avviso più affascinante. Nella mia personalissima storia di lettore, un riferimento cruciale – si parvum licet – è padre Pio, quale risulta dalla nota monografia di Sergio Luzzatto (Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento, Einaudi, 2007). Verosimilmente, Francesco Forgione da Pietrelcina era una figura assai fragile, sia dal punto di vista fisico, sia dal punto di vista morale; a farlo diventare «padre Pio» (e San Pio, dal 2002), arcinota e iper-riprodotta icona della devozione popolare contemporanea, è stato l’investimento compiuto su di lui da una collettività, formata da fedeli, confratelli, cittadini, autorità politiche e religiose. La definizione di uno status è sempre questione di riconoscimento pubblico. Santi e profeti, e perfino divinità, ci si può anche proclamare; ma solo un adeguato consenso sociale può sancire tale qualifica (sia promozione o trasfigurazione), rendendola effettiva: spesso – e starei per dire: di preferenza – a beneficio di chi, pretese simili, non ne aveva avanzate affatto.
Non so se Calaciura, scrivendo Io sono Gesù, nutrisse l’intenzione di dimostrare che anche Dio si diventa (mentre darei per certo che ha tenuto presente alcuni modelli letterari, fra i quali spiccano le Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar). Ma in fondo poco importa. La sua «vita nascosta» è una narrazione sobria ed elegante, plausibile sul piano storico e persuasiva sul piano psicologico, a suo modo perfino avvincente. Il suo Gesù è un giovane alla ricerca di sé stesso in un mondo ostile, incerto sulle proprie origini e sul proprio destino, con un conto aperto con la figura paterna («Stavo diventando un adulto diverso da mio padre. Lo trovavo disconoscendolo»), vittima di plurime disillusioni, potenzialmente combattivo ma spesso tentato dalla rinuncia; un personaggio, infine, molto contemporaneo. Ma rilievo non minore ha la madre, tenace e silenziosa, premurosa e enigmatica, che a un certo punto viene paragonata a un idolo («Il suo volto è quello di una divinità pagana, dei primordi. Una sfinge egiziana, come quella che incontrammo durante la nostra prima fuga»). Gesù è geloso della sua affettuosa complicità con il cugino Giovanni, tant’è che gli balena perfino alla mente il pensiero che il suo vero figlio sia lui. La battuta finale del libro però lo smentisce. Quando il protagonista si accinge a raggiungere Giovanni sulle rive del Giordano, la madre lo saluta con una raccomandazione: «Racconta a tutti che sei mio figlio, frutto del mio ventre». E il lettore, credente o miscredente che sia, potrà immaginarsi che, dopo tutto, a spingere il Nazareno sulla via della predicazione e dell’impegno pubblico, fino al martirio della croce, sarà il desiderio di essere all’altezza delle tacite, misteriose attese di sua madre.