Santo Genet della Fortezza
Qualcuno, entrando nel carcere di Volterra durante il festival firmato da Armando Punzo, avrebbe potuto credere che la prigione fosse un luogo luminoso, di creatività, perfino di gioia, e non quella fossa della nostra società, quello specchio delle nostre paure e dei nostri fallimenti che è. Il festival Volterrateatro, che celebrava venticinque anni di quotidiano lavoro in carcere di Armando Punzo e della sua Compagnia della Fortezza, è stato ambientato quasi interamente tra le mura dell’antico castello-penitenziario mediceo.
I cortili separati da grosse sbarre sono stati trasformati in luoghi teatrali e ribattezzati spazio Dalì, spazio Brecht, spazio Artaud, spazio Kafka, spazio Leopardi, spazio Genet. Dalle 15 del 23 luglio alle 21.30 del 26 in essi si sono succeduti spettacoli teatrali, di poesia, di musica. Ogni giorno si iniziava con la nuova creazione di Punzo, quest’anno con più di cinquanta detenuti attori in scena, Santo Genet Commediante e Martire, e si proseguiva con alcuni dei più bei nomi della scena italiana.
Danio Manfredini con Incisioni alla Fortezza ha cantato l’amore, al suo modo di attore che sembra portare incisi nella pelle, nella voce, nelle deformazioni del corpo un dolore profondo, un senso di smarrimento di fronte alla brutalità della realtà e alla necessità di una impossibile felicità. Non a caso motivi italiani famosi e meno famosi, interpretati con incrinatura struggente, erano intercalati dai versi di terra e soffio di Mariangela Gualtieri. Mario Perrotta si è trasformato nel pittore Antonio Ligabue, col suo nuovo spettacolo Un bès, un’altra disperata richiesta di amore impossibile, un altro densissimo lavoro sull’esclusione interpretato dal bravo attore dipingendo in scena immagini a carboncino per evocare il mondo visivo del grande artista naif. Ma tutta una società Perrotta mette in discussione, in un’opera di notevole fascino, sulla quale meriterà tornare. Mariangela Gualtieri ha detto i suoi versi in un silenzio incantato, scatenando una vera propria ovazione nel pubblico di detenuti e spettatori, mescolati. Abbiamo visto poi il nuovo, durissimo spettacolo di Babilonia Teatri sull’infanzia brutalizzata, Lolita, interpretato da un’attrice undicenne, con la violenza continuamente straniata attraverso un racconto che si snoda per scritte proiettate, per brani registrati che contrastano con le dichiarazioni dirette, quotidiane, diaristiche della giovane protagonista, mostrando la ferocia della violazione di una dolce normalità. Abbiamo visto gli studi vincitori del premio Scenario e Il violino del Titanic, uno spettacolo che chiama in causa il pubblico per raccontare, con la metafora del piroscafo affondato da un iceberg, moderni viaggi, fughe, naufragi, abissi, a cura della Compagnia dei Rifugiati del Teatro dell’Argine di Bologna, ensemble interetnico basato su un nucleo di persone richiedenti asilo politico.
Ci sono state mostre, come quella di Stefano Vaja che ripercorreva la storia degli spettacoli della Fortezza, o come quella delle variazioni sull’immagine di Genet di Mario Francesconi, e concerti, come quello di un ensemble nato nell’orchestra del Maggio Fiorentino, o come quello di Ginevra Di Marco, con Andrea Salvadori (il musicista della Compagnia della Fortezza), che ha scatenato il pubblico in un vero e proprio contagio dionisiaco: tutti battevano le mani, saltavano, ballavano; il carcere non sembrava più tale, ma una scatola sonora, un luogo di incontro, una nave lanciata nella notte in cerca di un paese d’utopia.
Venticinque anni di autoreclusione
Tutto questo è stato possibile grazie al lavoro di Punzo, che venticinque anni fa entrò nel carcere coll’intento dichiarato di fare un teatro inaudito, diverso da tutti gli altri esistenti. Nell’epoca in cui i gruppi nati negli anni settanta si sfaldavano, lui cercò un luogo dove, in modo concentrato, si potesse ragionare a trasformare parole d’autore in trame corporee e spaziali dotate di irriducibile verità, con l’apporto di tanta gente. Entrò quasi per caso (così racconta l’aneddotica) in carcere, e vi rimase in una felice autoreclusione, che ha cambiato profondamente quell’istituto penale, e anche il teatro. Questi venticinque anni sono raccontati nel volume fotografico È ai vinti che va il suo amore (edizoni Clichy, euro 25), una raccolta delle presentazioni degli spettacoli intercalate da pensieri e graffi del regista, con un’appendice con alcuni suoi scritti d’intervento e di poetica. Leggiamo, aprendo un po’ a caso, un po’ no: “Ero estraneo in un mondo estraneo. Il teatro una terra straniera, e da straniero ne ho creato un mio idioma”. Oppure: “ A me non interessano quelli che si sentono prigionieri in carcere, mi preoccupano di più quelli che pensano di essere liberi fuori dal carcere. A me interessa solo chi si sente libero in un carcere”. Perché Punzo rifiuta ogni uso sociale, o “rieducativo” dello spettacolo. Il teatro deve inventare e, attraverso l’immaginazione, liberare, o almeno dare la coscienza, agli spettatori, che se il carcere è pieno degli emarginati della nostra società il vero grande carcere è la società esterna, e la vera condanna è la nostra. C’è in lui una lotta continua contro la realtà, come destino inesorabile e di classe, come fissazione in ruoli, in rendite di posizioni, in gerarchie, contro l’incapacità di guardare a fondo le cose e trasformarle. Una lotta che usa gli strumenti della provocazione attraverso l’immaginazione, l’invenzione di altre possibilità, impreviste. “Per una vita immaginaria”, scrive in un altro punto, significando non solo una vita ricreata attraverso l’arte, ma anche una vita che si può, che si deve immaginare diversa, come nella tragedia greca contro il fato.
Nelle torri d’avorio di Genet
Il Genet di Punzo non è quello di un suo testo teatrale o narrativo specifico. È fatto di spezzoni estratti da tutta l’opera dello scrittore francese, un caleidoscopio di citazioni che diventano mantra, fascino, sprofondamento in quell’altra realtà che Punzo vuole evocare.
In Santo Genet Commediante e Martire lo spettatore è accolto da una madame Irma che è pure Notre-Dame-des-Fleurs, lo stesso regista in abito lungo nero, trucco e espressione androgina, cilindro e cornice di rose intorno al volto. Ambiguamente, nel cortile del carcere, fa cenno di seguirlo, mentre una figura orientale con lacrime d’oro dipinte in viso versa tè in un rito zen di purificazione che apre la strada in direzione di un corridoio tra una fila di sbarre e il muro della prigione.
Invita a visitare il salotto di Irma, “un castello interiore di diamante purissimo”, con molte stanze, con al centro la principale dove avvengono le cose più segrete… Gli spettatori, per raggiungere questa torre d’avorio, passeranno sotto le forche caudine di due file di marinai sbalzati fuori da Querelle de Brest, statue umane su bassi basamenti che si esibiscono in lentissimi, ieratici, misteriosi gesti: indicano, pregano, invocano, sembrano scoccare una freccia da un arco…
Ed entriamo: in una lunga galleria di specchi - alle pareti, sui soffitti - con candelabri, fiori, altarini, teche, velari, tendaggi neri, rossi tappeti, sipari, colonne, capitelli, stucchi, un corridoio che si apre su varie stanze, zeppo di cose e di personaggi che si raccontano in prima persona (spesso adattando testi di romanzi scritti in terza), davanti agli specchi che ne moltiplicano, ne spezzano, ne rilanciano l’immagine. Gli ambienti alterali rivelano teatrini nei quali altre scene si susseguono, a creare un polittico delle finzioni, dei tradimenti, delle ostentazioni teatrali, dei rituali genettiani, che travestono il margine, l’infamia, la sofferenza, l’esclusione di splendore, mostrandoci l’altro lato delle cose, della realtà brutale.
Dopo aver incontrato un generale nero decoratissimo, un prete, la serva Solange, che spolvera vetri e cornici col viso decorato di fiori grigi come l’abito e guanti di plastica gialli, e qualche altra figura, mentre i marinai sciamano silenziosi tra gli spettatori, entriamo in una stanza dove un gruppo di borghesi fantastica di arredamenti con sempre maggiore ansia, quasi a voler penetrare, forare uno specchio. Sembriamo proiettati in un quadro di Toulouse-Lautrec e nell’impotenza di mutare una condizione banalmente realista che si crogiola nel suo ruolo di potenza. La scena, interpretata con intensa partecipazione dagli allievi della scuola Gian Maria Volontè di Roma, è quasi il contraltare delle altre. In una stanzetta attigua troviamo il gruppo degli Stillitano, dal Diario di un ladro, su trono dorato con abbigliamenti eccessivi, da nuovi ricchi, regali, leopardati, con patacche sberluccicanti, da macrò.
Troviamo Divine che parla del proprio suicidio, troviamo una sposa sdraiata in una teca di cristallo, Querelle che esalta la propria forza e natura di marinaio, Mignon il traditore, Dedè sprizzante forza in un corpo esibito in nudo e pelle nera strizzata come nel film Querelle di Fassbinder. E nel corridoio, ancora, un papa, la serva Solange che si alimenta di finzione e rancore, il generale che invoca l’Africa, terra di schiavi che devono sciogliere le catene, un prete che macera l’orgoglio della santità, sentiamo un violento brano di Viviani e uno in dialetto tarantino strettissimo. Aniello Arena, un altro della “Banda Scillitano”, racconta di furie selvagge più o meno contenute. E in uno stanzino - tra marinai trasformati in guardoni, in colonne, in portatori di specchi che permettono ai personaggi di moltiplicarsi ulteriormente in questa galleria barocca e neoclassica insieme, eccessiva e cartesiana, che vuole stupire e dimostrare (e aprire a corde segrete, insieme arcaiche, memoriali e dirompenti) - appaiono tre uomini-geishe con musiche dolci, lancinanti, cinesi, che roteano distanti siderali e seducenti i loro ombrellini di carta, interrompendo la melopea per una poesia e per poi muoversi, in fila tra la folla degli spettaori, a passettini. Tutti morti, morti viventi, che portano l’infamia come marchio estremo e prezioso di chi ha esplorato i confini; morti risplendenti nei costumi sontuosi, geniali, di Emanuela Dall’Aglio, nelle scene da cimitero rifulgente e rivelante di Alessandro Marzetti, Silvia Bertoni, Armando Punzo.
Nella stanza centrale di quest’ala del carcere, trasformata come in Hamlice nel contenitore di un’esplosione di immagini che sta allo spettatore ricomporre, troneggia Punzo-Irma, con Andrea Salvadori al pianoforte e al computer in una puntillistica, insinuante musica di arredamento alla Satie. Si susseguono marinai che navigano su acque di fuoco, madonnine del mare che chiedono alla fantasia di aprire il bozzolo della bellezza, un’infermiera in tenuta pudicamente sadomaso che inizierà, a cantare, riprendendo il motivo accennato dal piano e poi interrotto senza risoluzione, “Each man kills the things he loves”, ognuno uccide ciò che ama, il verso di Oscar Wilde nella prigione di Reading reso famoso dalla canzone interpretata da Jeanne Moreau in Querelle di Fassbinder.
Ognuno uccide ciò che ama. I marinai e tutti i personaggi iniziano a schioccare le dita, come in un antico rituale di applausi che serviva a scacciare i fantasmi. Qui, i fantasmi, si vogliono piuttosto richiamare: quelli che hanno parlato di morte, di delitto, come di una trasformazione, il salto in un altro stato della vita, oltre le croste di quella che appare come realtà, per rinascere in un’altra pelle.
La musica dalla stanza dilaga, tramite altoparlanti, a tutto lo spazio, e il coro di “each man” diventa un “ta-ta-ta/ta-ra-ta-ta” che corre sulle bocche di tutti. Sarà Punzo, Notre-Dame-des-Fleurs, a chiudere, fornendo la chiave di questo viaggio oltre le apparenze, nella forza trasfigurante dell’arte: “Esiste uno stretto rapporto tra i fiori e gli ergastolani… La bruttezza è bellezza in riposo… La loro anima cerca di lasciare il corpo troppo pesante, di trascinarlo verso il proprio cielo… Spero che i miei occhi non si aprano mai a una visione usuale del mondo, come una gabbia che fa rabbia… Forza una porta che dà sul meraviglioso, su una santità che conduce al cielo attraverso la via del peccato… Credetemi se vi dico che questo poema mi ha liberato…”. E scrosciano gli applausi, ormai nel cortile, con tutti i personaggi schierati in lunga, infinita fila, aldilà delle sbarre.
Abbiamo assistito a uno degli spettacoli più belli, più intensi degli ultimi anni. Sarà ricordato alla pari di quelli di grandi maestri, questo lavacro della mente, degli occhi, del cuore a partire dal luogo oscuro della prigione.
Punzo chiede da anni un teatro stabile in carcere, per poter dare certezza al lavoro, che pure riesce adesso - nell’assoluta precarietà, resa sciagurata dal disinteresse di alcune istituzioni, in controtendenza con la miseria o la precarietà creativa del teatro italiano - a darci stupefacenti folgorazioni.
Fotografie di Stefano Vaja