La serie di Phoebe Waller-Bridge / “Fleabag”: un sacco di pulci agli Emmy Awards

3 Ottobre 2019

Fleabag, in inglese, significa “sacco di pulci”. La drammaturga, sceneggiatrice, attrice inglese Phoebe Waller-Bridge ha intitolato così la sua formidabile serie tv prodotta da Amazon, di cui si sono potute vedere già due stagioni sulla piattaforma Prime Video. Dello storytelling di molte serie tv forse è opportuno riparlare, perché resta tignoso il pregiudizio che una narrazione non scritta non sia letteratura. Se io cedo alcune ore del mio tempo per leggere un saggio o un romanzo sono un intellettuale. Se vado a un festival di cinema per vedere un film d’autore che in sala non ci andrà mai perché nelle sale ci vanno soprattutto i blockbuster sono un intellettuale. Se leggo e guardo graphic novel sono un intellettuale. Ma se sullo stesso divano spendo 12, 20, 30 ore per una serie tv scritta, diretta e prodotta magistralmente, se seguo i miei personaggi per ore e ore sprofondando in uno stato modificato di coscienza durevole quanto la lettura di Guerra e pace sono un perdigiorno. 

 

 

It’s an old story. Decenni di battaglia per i popular studies hanno portato nelle università inglesi e poi scandinave e poi americane le sottoculture, e di lì sono figliati gli studi di popular music, che hanno dimostrato come la musica non-classica o non-contemporanea sia una forma di creazione musicale specifica, non inferiore affatto a quelle “colte” (Frank Zappa o John Lennon non erano colti?!?!?!) solo perché veicolate dai mass media o consumate da un largo pubblico anche non colto. Qui mi fermo. Nell’alveo dei popular studies sono ormai stati scritti saggi eccellenti, e anche qui ne abbiamo parlato, segnalando Jason Mittell e la sua interessante nuova definizione di complex tv.

Phoebe Waller-Bridge, in linea con la complex tv britannica, taglia la nostra visione con una coraggiosissima e cruda interpretazione del nostro essere nel nostro tempo: se l’altra serie british Black Mirror prova a immaginarci di qui a poco, spappolati da un ulteriore piccolo passo nell’interazione digitale dei nostri sentimenti ed emozioni, e ci racconta con un mood plumbeo e angosciante quello che potrebbe attenderci se perdessimo il contatto dei corpi e dell’empatia, Fleabag si origina dal teatro, e dalla riapertura della quarta parete pirandelliana. Nelle scorse settimane, al National Theatre Live di Londra, Waller-Bridge ha messo in coda centinaia di spettatori in paziente attesa del loro biglietto per la sua versione teatrale della serie tv vista in Gran Bretagna su BBC. Fleabag effettivamente potrebbe essere una stand-up comedy, perché l’autrice-attrice ha una carica di intelligenza comica e autoironica fresca e geniale, un carisma scenico e un sex-appeal irresistibili. La raffica delle sue parole richiede una attenzione febbrile al sottotitolo, e per godersi la sua mimica facciale, il suo continuo ammiccare a noi che ascoltiamo la sua narrazione in terza persona del suo sé protagonista, ognuna delle 12 puntate complessive delle 2 stagioni va vista almeno due volte.

 

La protagonista della storia, interpretata dall’autrice, non ha neanche un vero nome anagrafico: è “me”, è Fleabag, è «sacco di pulci». Waller-Bridge attinge alla radice dei nostri proverbi e al nostro lessico di coccole infantili: non chiamiamo “pulce” il nostro piccolo bambino? La nostra metà in un suo momento di tenera fragilità? “Me” ha una vita che è un disastro, nella Londra contemporanea: ha un padre che non riesce mai a terminare una frase, un prototipo di titubanza, svuotato di vita da quando è morta di tumore la madre delle due sorelle, “Me” e la tremenda perfettina Claire (interpretata da Sian Clifford); il padre si è messo in casa una manipolatrice  insopportabile narcisista stronzissima artista figurativa “Godmother” (una tremenda Olivia Colman, da La Favorita di Lanthimos), spirale di reciproche perfidie. La coppia delle due sorelle è altrettanto isterica e affettuosissima di fondo, e la conflittualità iniziale (la sgarrupata vs la perfettina) dopo l’inevitabile sgretolamento dell’una e dell’altra si ricompone in due nuove identità finalmente autentiche, facendole così simili alla loro amata perduta madre.

 

 

 

Un proverbio che non citiamo più recitava: “Tenere due morosi è come tenere un sacco di pulci”. È proprio così. La materia dell’amore è vulnerabile, gassosa, impalpabile: se “Me” scopa come una pazza non si sa perché, Claire continua a raccontarsi che suo marito, uno stronzo epocale, è un buon marito perché “la fa ridere”. Alla fine della seconda stagione, dopo innumerevoli ceffoni, scenate, frecciate, litigate e tentativi delle due sisters di reggere la algida finzione di una grottesca “famiglia ricostituita”, capiamo perché “Me” scopa e si lascia scopare da una bella lista di coglioni anaffettivi: come tanti di noi hanno fatto o fanno per anni, lei cerca un amore non attendendolo in astinenza, ma buttandosi nell’intimità del sesso (che in Fleabag è raccontato visivamente con cruda trasparenza, senza autocensure od oleosi erotismi glamour), accettando sodomie e cilecche, sino al più fatale e improponibile degli amori, quello ricambiato al 100% da un davvero contemporaneissimo sacerdote cattolico, sexy e incasinato quanto lei. Claire invece, lanciata nel top management finanziario continentale, si trova amata con passione da un biondino finlandese un poco femmineo, che se la rapisce al Nord dileguandola dal marito adultero e dal figlio di lui, un morboso, disperato, sensibile giovanottino che suona pallosamente uno scomodo fagotto e supplica la “matrigna” di piantare il padre.

 

Quando Waller-Bridge si gira di novanta gradi e ci fissa in camera con la sua intelligente e impietosa sincerità con se stessa, ci convoca alla complicità, ci porta per mano dentro i suoi casini, e ci illumina sulla più ovvia delle verità: tutti cerchiamo amore, tutti speriamo che un amore duri, tutti piangiamo se un amore finisce per cause non dipendenti dalla nostra volontà e dal nostro attaccamento. 

Germogliata nella colta e indipendente Londra dei nostri anni, Fleabag ha già avuto, oltre allo spin-off teatrale, anche il suo spin-off libro, che potrà sedare i detrattori della narrazione seriale televisiva, e ha sbancato gli americani Emmy Awards, premiata dalla Television Academy nelle categorie Casting (Olivia Scott-Webb), Regia di una serie comedy (Harry Bradbeer), Single camera-picture editing in una serie comedy (Gary Dollner), Attrice protagonista in una serie comedy (Phoebe Waller-Bridge), Migliore serie comedy, Migliore sceneggiatura di un episodio una serie comedy (stagione 1, episodio 1). Alla cerimonia della consegna delle statuette Waller-Bridge era proprio uguale alla sua Fleabag, e dopo 12 ore con lei non saprei tuttora quale delle due sia più adorabile.

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