Rebecca Zlotowski, I figli degli altri

13 Ottobre 2022

Nell'affollato concorso di Venezia 79 composto da 23 titoli, anche il direttore artistico Alberto Barbera ha dovuto ammettere che forse qualche film era di troppo, pur difendendone la qualità. Ognuno degli spettatori presenti al Lido, in base ai propri gusti personali, ha giocato a trovare gli intrusi: in fin dei conti, nel famigerato “pagellone” dei critici, I Figli degli Altri di Rebecca Zlotowski si è posizionato in una anonima posizione di metà classifica, che però spesso evidenzia il livello dei film fuori posto, né abbastanza belli, né abbastanza divisivi e dibattuti. In quel concorso dove al suo posto avrebbero potuto legittimamente essere invitate altre registe, almeno per salvaguardare la parziale alternanza di genere (per citarne tre: Laura Citarella e Teona Strugar Mitevska relegate alla sezione Orizzonti; Benedetta Argentieri invitata fuori concorso col potente documentario The Matchmaker), il suo quinto lungometraggio aveva comunque molti punti di contatto con il resto della ricca selezione.

Era una delle ben cinque produzioni francesi, era una delle numerose opere a rappresentare le tante famiglie possibili, aveva persino la singolarità di avere nel cast due attori a loro volta selezionati in concorso come registi (Roschdy Zem con Les Miens e Frederick Wiseman con Un Couple). Infine, Zlotowski era in buona compagnia (Iñárritu, Crialese, Hogg, Panahi, lo stesso Zem...) tra coloro che hanno deciso di sviluppare uno spunto autobiografico: nella storia di una donna quarantenne senza figli che si innamora di un uomo e si affeziona alla figlia di lui, ha trasfigurato il suo passato rapporto sentimentale con il regista Jacques Audiard già padre di tre figli.

Virginie Efira, di pochi anni più grande di Zlotowski, è un'attrice della quale sarebbe impossibile indovinare l'età senza saperla: quando appare sul grande schermo dà l'impressione di possedere il dono dell'eterna giovinezza. Pur potendo interpretare con una certa credibilità personaggi che abbiano anche quindici anni meno della sua età, dà corpo a un personaggio che inizialmente pare quasi inconsapevole della generazione cui appartiene.

La sua Rachel è innamorata nella stessa maniera in cui lo sono gli studenti adolescenti ai quali insegna letteratura francese: distratta, con gli occhi sempre pronti a cercare lo schermo del telefono, impaziente di incontrare Ali (Roschdy Zem), l'uomo conosciuto a un corso di chitarra di cui è invaghita. Tuttavia, alla sua età il tempo ha un valore diverso rispetto a quando era anche lei adolescente: la storia d'amore tra Rachel e Ali inizia con euforica passione giovanile ma si trasforma molto presto in un impegno serio, come si conviene a due adulti che credono di amarsi. Il tempo infatti è una componente decisiva di questa storia: la protagonista rincorre affannosamente occasioni e opportunità alle quali ha paura di giungere in ritardo. 

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La differenza tra un'adolescente e una donna di quarant'anni o giù di lì non è solo nella precisa volontà di rafforzare quanto prima la nuova relazione: in lei c'è anche la maturità di sapersi adattare. Rachel entra in punta di piedi nella vita di Ali, nei suoi tempi e nei suoi spazi: osserva lui e la sua casa con devozione e correttezza, come per imparare silenziosamente qualcosa del suo compagno, senza l'invadenza di chiedergli troppo. Se ci fosse solo da gestire la relazione col suo cane, probabilmente se la caverebbe facilmente: la fotografia di una bambina e un disegno, in bella mostra nella mensola della libreria, aprono uno scenario ben più insidioso.

Di nuovo, il tempo gioca a sfavore di Rachel, all'inseguimento di una relazione finalmente stabile che richiede massima fiducia reciproca: è lei a insistere per conoscere quella bambina a malapena citata, che è sempre con la madre quando loro sono assieme. Perno del film diventa il tentativo di Rachel di costruire un rapporto con Leila, che Ali ha avuto assieme alla ex moglie Alice (Chiara Mastroianni): Zlotowski ha dichiarato di aver voluto dare spazio a un personaggio generalmente trascurato e secondario, l'altra donna che si introduce come terzo incomodo in una coppia con figli.

Le fa affrontare un percorso segnato da tappe fin troppo predefinite, con la particolarità che stavolta le osserviamo esclusivamente dal suo punto di vista: il primo incontro, la fase di studio reciproco, l'affinità iniziale, qualche successiva inevitabile diffidenza, la paura di non essere all'altezza della madre biologica, la gioia dell'accettazione, la rivelazione che la presenza fisica di una bambina possa riempire un vuoto. È quest'ultima tappa la più delicata, perché mette ingiustamente Rachel di fronte al dilemma che il suo slancio vitale l'abbia portata sulla strada sbagliata e al timore che non ci sia il tempo – sempre quel tempo che scappa via – per invertire la rotta.

Leila (Callie Ferreira Goncalves, impeccabile debuttante di cinque anni) è una bambina timida e incantevole; Rachel, pur con le esitazioni di chi si sente ancora estranea, ne rimane ammaliata vorrebbe essere amata come lei crede di poterla amare, di un sentimento complementare e non soltanto subordinato a quello che prova per Ali; eppure anche fragilissimo, perché totalmente dipendente dalle successive tappe della sua relazione sentimentale. Proprio nella sequenza che segue il primo incontro con Leila, la vediamo dialogare col suo ginecologo (eccolo qui, l'anziano e pacato Frederick Wiseman, che mantiene il proprio cognome anche nel film) a proposito delle probabilità che una donna della sua età, solo apparentemente giovane ma già arrivata al limite della fase di subfertilità, possa avere un figlio con la fecondazione naturale.

L'ordine delle due sequenze – prima l'incontro con la bambina di cui spera di diventare matrigna ma senza alcuna certezza, poi la confessione di desiderare un figlio certamente e completamente e suo – suggerisce che il desiderio di maternità di Rachel, dovuto a un insieme di più fattori tra cui l'aver incontrato un potenziale padre adatto e la paura pressante di non avere altre occasioni a disposizione, sia stato ingigantito dall'invidia: quella bambina già amata da due genitori non le potrà mai appartenere del tutto e inoltre le ricorda che i legami tra coppie si possono facilmente spezzare, quelli tra genitori e figli no.

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Se invece Ali non avesse avuto una figlia, possiamo immaginare che Rachel, donna indipendente e in apparenza realizzata, si sarebbe adattata a una pacifica convivenza con l'uomo e il suo cane, a passare le serate indifferentemente in casa da soli o fuori con gli amici, senza desiderare altro; come viceversa possiamo immaginare che anche una ipotetica certezza assoluta di restare per sempre nella vita di Ali e Leila, magari mantenendo quel rapporto corretto e quasi complice con la madre biologica della bambina, l'avrebbe fatta desistere dall'eterna rincorsa al momento perfetto di una gravidanza sempre mancata.

È un peccato che Zlotowski abbia girato varie scene in cui si chiariscono le origini ebraiche di Rachel (che sono anche le sue, infatti ha chiesto a suo padre Michel Zlotowski di interpretare il ruolo del padre della protagonista) senza approfondirne più dettagliatamente l'impatto culturale; ad esempio, quanto le figure di donne infeconde della Bibbia possano avere influenzato, anche inconsciamente, le convinzioni della protagonista sul concetto di maternità.

La regista ha preferito un approccio più diretto e universale alla materia, rendendo irrisolta e incompiuta la scelta simbolica del nome della protagonista: Rachel infatti è colei che in italiano chiamiamo Rachele, una delle figure femminili della Bibbia che Dio aveva reso sterili per poi dispensare loro solo in seguito l'agognato dono della fertilità; e anche lei, molto prima che le venisse concesso di partorire, aveva deciso di fare da madre al figlio che suo marito Giacobbe concepì con una serva. Allo stesso modo, la Rachel contemporanea forse spera che Dio le accordi infine una maternità tardiva, magari manifestandosi a lei con le sembianze del benevolo dottor Wiseman, ma la natura e il caso non hanno disegni esatti da compiere, a differenza delle divinità.

Rachel è un'insegnante e anche il suo lavoro assume una funzione simbolica molto esplicita. Innanzi tutto perché interagisce quotidianamente con ragazzi che non sono suoi figli ma per i quali può rappresentare, se non una vera figura materna, un punto di riferimento. Sono più grandi di Leila ma altrettanto difficili da capire: deve imparare a coglierne i segnali, interpretarne le azioni, allo scopo di indirizzarli correttamente verso percorsi futuri che esploreranno senza di lei. Si abitua, come ogni insegnante, a instaurare un legame continuativo pluriennale, talvolta molto forte e potenzialmente decisivo nella vita dei ragazzi, ma fatalmente a scadenza.

Per lei che non ha figli da educare, che neppure con Leila osa mai rimpiazzare l'autorità della madre biologica, la paura di non lasciare una traccia nel mondo, se non partorirà mai un figlio dal suo grembo, può essere alleviata soltanto dalla speranza di aver contribuito a educare alla vita tanti giovani, proprio nell'età in cui sono ancora fragili. È certamente una traslazione di significato scontata ma anche in essa si può tentare di leggere un'ispirazione autobiografica: una regista si può dare l'obiettivo di far germogliare idee e emozioni nei suoi spettatori attraverso il suo cinema, magari riversando in esso tutto ciò che non può trasmettere a un erede.

Rebecca Zlotowski ha appreso di essere incinta quando era nella fase di pre-produzione di I Figli degli Altri: ha girato il suo film durante la gravidanza (portata a termine a lavorazione già ultimata) perciò il destino le ha concesso che questo lavoro così personale diventasse un racconto del suo passato, ma non più del suo presente né del suo futuro. Per citare le sue stesse parole riportate nella cartella stampa: è stato un ironico scherzo del destino. Senza più far parte della categoria, ha voluto dedicare il film alle donne nullipare, termine medico che indica chi non ha mai partorito: più precisamente la dedica è alle donne che lo desideravano ma non hanno potuto, che hanno perso la loro gara contro il tempo.

Per assecondare il destino che le è capitato, avrebbe anche potuto cambiare completamente il personaggio di Rachel, attribuendosi, come sceneggiatrice e regista, quel ruolo di Dio della Bibbia che arbitrariamente decide se, quando e come le donne debbano partorire. È un'arroganza che si è risparmiata: le ha regalato moltissimo del suo vissuto, poi le ha donato il giudizioso Wiseman a ricordarle, con un sorriso premuroso, che la vita è lunga.

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