La Ruina: la violenza, la polvere

29 Gennaio 2015

Ci vuole un certo coraggio per affrontare di petto una delle questioni più commentate, citate, talvolta persino abusate nel dibattito giornalistico contemporaneo. Ci vuole audacia per recuperare e dare vita a parole – come ‘violenza’ o ‘femminicidio’ – ripetute così tante volte che paiono aver smarrito il loro significato. Ha rischiato molto, quindi, Saverio La Ruina con il suo Polvere, al debutto in prima nazionale all’Elfo Puccini dal 20 al 25 gennaio, all’interno di una personale a lui dedicata. Un’ottima occasione per conoscere una delle personalità più interessanti della nostra scena, o per approfondire un percorso attorale e autoriale di grande coerenza e spessore. In cartellone sono previsti Dissonorata e La Borto, due splendidi monologhi dedicati allo scandaglio di figure femminili del Sud, interpretati in un dialetto calabro denso, immaginifico, capace di improvvise vette poetiche.

 

Amato da pubblico e critica, efficace animatore culturale (il suo festival Primavera del Teatri ha reso la piccola Castrovillari una capitale del teatro italiano), La Ruina tenta qui uno scarto: abbandona i lidi sicuri del racconto popolare, rinuncia alla seducente delicatezza con cui dà vita ai suoi personaggi femminili, mette da parte la straordinaria capacità di raccontare il meridione. Polvere sembra abdicare, sorprendentemente, a ogni genere di effetto teatrale, di ornamento, di trasposizione poetica. Come un biologo, La Ruina mette sotto il microscopio le dinamiche umane senza alterazione alcuna. Non si tratta di una semplice fotografia delle realtà, quanto di una accurata operazione diagnostica: vengono messe a fuoco con precisione le radici di una patologia, quel terriccio umido e scivoloso dove questa attecchisce, la polvere che si deposita leggera sulla psiche fino a alternarne la capacità percettiva.

 

La Ruina, Polvere, ph. Angelo Maggio

 

Al centro del processo di analisi scenica un lui e una lei: li vediamo poco dopo il primo incontro, li seguiamo nei primi passi della loro relazione e poi osserviamo innescarsi, proprio sotto i nostri occhi, una dinamica di potere che sfugge di mano a entrambi. Chi ha avuto occasione di parlare con un operatore di un centro anti-violenza, chi ha vissuto esperienze borderline o le ha osservate da vicino, potrà facilmente riconoscere i sintomi che sono qui rappresentati con disarmante puntualità: la decostruzione programmatica della personalità dell’altro attraverso un continuo svalutare, sminuire, plasmare; la richiesta di un abbandono senza condizioni alla relazione, fino alla paradossale richiesta di annullamento del passato; la volontà di dominare ogni aspetto della vita dell’altro, l’ossessione di conoscerne ogni istante («Hai incontrato Paolo? E come l’hai salutato, fammi vedere»); la fobia della menzogna («sei inaffidabile»).

 

Per avviare l’ingranaggio La Ruina mette in campo tre strategie: il livellamento del linguaggio, la reiterazione, il coinvolgimento del pubblico. Al lessico vivo e magmatico dei precedenti lavori si sostituisce qui un italiano standard, anodino, di disarmante banalità: frasi fatte e luoghi comuni che tutti, prima o poi, ci siamo trovati a pronunciare. Jo Lattari (l’intensa e coinvolta interprete femminile) e La Ruina modulano la loro recitazione rendendola altrettanto monocorde, piatta, masticata a mezza voce. I due personaggi sono mediamente colti (lui è fotografo e lavora per l’Espresso, lei è insegnante), ma gli strumenti che hanno a disposizione non servono a colorare il loro linguaggio, esattamente come non servono a salvarli dall’atavica dinamica nella quale sono caduti.

 

Il senso di oppressione è accentuato dalla struttura drammaturgica, costruita per scene che si susseguono con poche variazioni, reiterando identiche sequenze: «siediti, parliamone», incalza continuamente il carnefice, sottoponendo la compagna a interminabili e vani interrogatori senza variazione (fulminante la scena dedicata per intero all’indagine delle ragioni dello spostamento di una sedia). Ed ecco che a sottoporsi alla violenza è anche il pubblico, costretto ad assistere al processo, a farsi raccontare ancora e ancora dettagli che già conosce, inchiodato sulla sedia proprio come Jo Lattari. Divenuti vittime, gli spettatori reagiscono: c’è chi sbuffa, chi si contorce sulla sedia, chi grida «sparagli!» proprio come le nostre nonne davanti alle prime televisioni. A dimostrazione del fatto che non c’è bisogno di aggressività fisica (quasi del tutto assente nello spettacolo) perché si possa parlare di sopruso. Diretto, efficace, di semplicità drammaturgica e attorale solo apparente, Polvere è una svolta significativa nel percorso di La Ruina, un insegnamento di come talvolta sia necessario farsi da parte e togliersi dal centro della scena. Da far girare nei teatri, nelle scuole, nelle università, ovunque ci siano ad ascoltare un uomo e una donna.

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