Addio Luca Ronconi, maestro di utopia

22 Febbraio 2015

Se ne è andato poco prima di compiere ottantadue anni Luca Ronconi, il maggiore regista italiano. I suoi ultimi spettacoli parlavano anche di morte. Di quella morte che probabilmente sentiva, con il suo stato di salute malfermo, con le numerose dialisi settimanali, le ore intere immobile, lui che era in ebollizione continua, forse a guardare i fantasmi della sua mente, quelli che poi avrebbero popolato il palcoscenico. Morti sospese, come in Celestina, che inizia sul cadavere di Melibea, e poi diventa uno sprofondamento ctonio, tra porte che aprono in sottomondi pullulanti di sesso e intrighi, cornici di porte che conducono al vuoto, prima di tornare, alla fine, di nuovo al corpo senza vita della giovane protagonista. Ma soprattutto in Panico di Spregelburd e in Lehman Trilogy di Stefano Massini, in scena al Piccolo Teatro di Milano fino al 14 maggio, suo ultimo lascito, il mondo dei vivi, grazie alla scena di altre porte, diverse, più eteree e minimaliste, sempre disegnate da Marco Rossi, si popolava di ritorni di personaggi trapassati, che non volevano lasciare la vita, i parenti, i discendenti nel caso della saga della trilogia Lehman che vedeva anche un funambolo in equilibrio precario sul filo attraversare le volatilità dell’economia.

 

Inventore di spazi. Spazi per la parola. Spazi per dare dimensione di vita ai testi, da smontare, da comprendere e far capire, da rovesciare, con quella famosa recitazione che dilatava, sottolineava, accentuava certi passaggi della frase, in cerca continuamente del sottotesto, della parte di vita, di intenzione nascosta sotto il linguaggio, delle possibili moltiplicazioni o opacità del senso.

Dispositivi meccanici, carrelli da teatro barocco come nell’indimenticabile Orlando Furioso labirinto, adattamenti di spazi, ricostruzione di stazioni ferroviarie come negli Ultimi giorni dell’umanità al Lingotto di Torino, specchi nei quali si moltiplicava addirittura una strada storica di Ferrara come nell’Amore nello specchio, velivoli in scena, percorsi nelle vertigini della fisica contemporanea come per Infinities a Milano, viaggi nelle origini arcaiche come per Orestea del 1972 e nella contemporaneità dei subprime come in Lehman Trilogy, viaggi in romanzi come Quer pasticciaccio brutto de via Merulana o I fratelli Karamazov e come Lolita, un lontano spettacolo sul lago di Zurigo (era la Kätchen von Heillbronn di Kleist, progettata come un basculante meccanismo che seguiva gli spostamenti emotivi dei romantici personaggi), il dispositivo fotografico dell’Anatra selvatica di Ibsen, il viaggio in tutti gli spazi di un ex orfanatrofio con le Baccanti per un’attrice sola (l’indimenticabile Marisa Fabbri, al mitico Laboratorio di Prato anni settanta), il teatro con la platea svuotata e poi visto dal palcoscenico, rovesciato, (ancora Ferrara) in Itaca di Botho Strauss e L’antro delle ninfe di Emanuele Trevi. Ma si potrebbe continuare all’infinito, per una carriera che vanta decine di titoli, in un’attività mai esausta di scavo, di approfondimento, di un regista che considerava i testi teatrali una sfida culturale e umana.

 

Calisto (Paolo Pietrobon) e Melibea (Lucrezia Guidone) in Celestina, di Michel Garneau, regia Luca Ronconi

 

Aveva iniziato come attore, nel 1953, ed è famosa un’immagine di Tre quarti di luna di Squarzina in cui pugnala Gassman. Figura simbolica di un artista-intellettuale che presto sarebbe passato dall’altra parte, a dirigerli gli attori, a piegarne le spinte mattatoriali a un suo disegno, secondo una vulgata, in realtà a dialogare con loro, in un’opera maieutica che aveva per fine la penetrazione e la restituzione originale, sempre sorprendente del testo. Sempre quello. Quanti meravigliosi interpreti ha forgiato, in un continuo rapporto dialettico; quante sfide importanti ha posto a giovani attori, come in quel Silenzio dei comunisti realizzato, tra altri lavori, per l’imponente  progetto Domani realizzato in occasione delle Olimpiadi invernali di Torino, la traduzione teatrale di dialoghi epistolari tra Vittorio Foa, Miriam Mafai e Alfredo Reichlin sulla crisi e l’identità della sinistra, un viaggio anche doloroso che portava a maturità definitiva promesse come Maria Paiato (sarebbe stata poi un’interprete fedele delle ultime regie), Luigi Lo Cascio, Fausto Russo Alesi. E la didattica lo vedeva impegnato tutte le estati nel suo centro Santacristina, nel buon ritiro umbro, a dialogare anche con una generazione di nuovi registi, lui che rifiutava in un’intervista l’appellativo di maestro, schermendosi in questo modo: “Spesso vengo chiamato così, anche perché ho lavorato parecchio nell’opera, e là sono tutti ‘maestri’. È una denominazione che sopporto con un certo imbarazzo: sono il primo a farci su dell’ironia».

 

Già, il melodramma. Aveva firmato anche regie liriche, che indagavano, con ricchi apparati visivi, l’opera nel tempo in cui era stata scritta, come una memorabile Tetralogia di Wagner in abiti ottocenteschi, biedermeier, o come il Nabucco  di Firenze come “manifestazione di una cultura dozzinale, pretenziosa, provinciale”, come ricorda Gerado Guccini.

Franco Quadri, il critico che più lo ha seguito, lo ha difeso dai numerosi detrattori, ne ha chiarito le ragioni artistiche e intellettuali, in un lontano libro del 1973, Il rito perduto, lo caratterizzava come autore poco propenso ad affrontare testi contemporanei. Probabilmente perché gli inizi come regista, negli anni sessanta, si sviluppano in un contesto principalmente di repertorio interpretato secondo cliché vieti. Allora, prima di tutto, bisogna ripulire la mente in quello stesso campo, la tradizione. E l’esplosione avviene con quell’Orlando furioso, riscritto da Edoardo Sanguineti (gli ha dedicato un bel libro uno degli allievi più affezionati di Ronconi, Claudio Longhi), che invade le piazze, che intreccia gli episodi in movimenti di carrelli con su macchine sceniche e attori, costringendo lo spettatore a muoversi, a crearsi il proprio spettacolo in un rito molto vicino anche al gioco. È uno degli inizi del teatro contemporaneo italiano, nel 1969, due anni dopo il famoso convegno di Ivrea che chiedeva alla scrittura di farsi scenica. E Ronconi inventerà macchine per rivivere i testi, costruirà gruppi di attori fedeli, conscio che l’arte del teatro sia ensemble, lavoro comune, utopia di cellule di persone sodali che mostrino le possibilità di analizzare rigorosamente e forse trasformare la realtà.

 

Aristofane, Eschilo, O’ Neill, Calderon, Shakespeare, Goldoni, Ibsen, Pirandello, Brecht, e poi Kraus, Dostoevskij, Gadda, Nabokov, e poi arrivano sempre di più gli autori contemporanei, il fisico John Barrow, l’economista Giorgio Ruffolo, Edward Bond, e poi Lagarce, Jeaggy, Spregelburd, Massini, con una curiosità infinita, in un’infinita sperimentazione sui confini sfrangiati del presente. Ronconi dimostra anche una capacità unica di sperimentare situazioni produttive, dalla compagnia cooperativa alla direzione di grandi stabili, Torino, Roma, Milano, alla consonanza con attori e attrici indimenticabili come Massimo Foschi, Mariangela Melato, Marisa Fabbri, fino agli interpreti dell’ultimo lavoro. Il mito e l’economia. La parola come spazio dilatato di sfida interpretativa e lo spazio come realtà a molte dimensioni, con i mondi compresenti di Infinities, con quei vertiginosi piani inclinati di Panico e Celestina, con quei morti che tornano nella vita di Panico, Celestina e Lehman Trilogy, in una realtà fatta di atti interiori, di memorie, come in Pornografia da Gombrowicz, di cancellazioni inevitabili, di dolore, di ritorni, di desideri e di assenze, di equilibri instabili sul germinare della vita e di sguardi oltre quelle cornici di porte, nel silenzio del vuoto, da riempire sempre di qualche altra parola, frase, smontata, analizzata, rivelata.

 

Addio, maestro (lo dico, magari solo con la minuscola per non urtare la sua discrezione). Il teatro perde un inventore curioso e indomabile, un provocatore di visioni. La cultura un grande, profondo, sensibile, complesso intellettuale, di quelli di un tempo passato.

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