Le non cose / Byung-Chul Han, come abbiamo smesso di vivere il reale
“Mentre tutto trema nel delirio del clima /e brama di uccidere maligna inventa // Rari sono i luoghi in cui resistere”, diceva Andrea Zanzotto non molto tempo fa (Conglomerati, Mondadori, 2009). Ancora una volta il poeta, poco prima di andarsene, ci avvertiva alla sua maniera ctonia, dicendoci che qui nel mondo che c’è dobbiamo resistere, almeno là dove si può. Certo le grandi crepe con cui il reale contemporaneo sta facendo i conti ne annunciano una qualche trasformazione, ma non è ancora così chiaro contro quali minacce dobbiamo resistere, in difesa di che cosa esattamente? Spesso la riappropriazione della Physis (la primigenia corporeità naturale), a fronte delle incapacità del Nomos (le leggi degli uomini), sembra essere una delle pulsioni dominanti, la forza dell’una sembra prevalere sull’altro.
È proprio analizzando il mondo che c’è che Byung-Chul Han indica nel recupero della naturalità (dopo vedremo meglio) la strada maestra. Il “Günther Anders del XXI secolo” (Davide Sisto, qui) lo fa da tempo e in modo sempre più convincente. La coerenza delle sue analisi è come se volesse cercare una coerenza nello stesso apparire sulla scena dei fenomeni. È un’analisi seria e come tale pone dei dubbi importanti e proficui. Con il suo nuovo pamphlet giunge a descrivere una sorta di limite a cui la vita odierna si sta esponendo: Come abbiamo smesso di vivere il reale recita l’inquietante sottotitolo di Le non cose appena uscito da Einaudi nella traduzione di Simone Aglan-Buttazzi.
Piccola divagazione: l’altro giorno ho visto in uno di quei filmatini sugli animali che girano in rete, che aiutano a capire meglio la questione. Questi giovani gatti guardavano sullo schermo del PC un cartone di Tom & Jerry che giocavano a biliardo. Seguivano, ma senza impulso a partecipare alla dinamica del cartone, neanche quando è comparso il topo. Erano lontani, senza nemmeno l’odore (il più arcaico dei sensi) le sole immagini artificiali di un gatto e di un topo non bastavano a stimolare un loro intervento, si accontentavano, come dire, di un freddo interesse “intellettuale”. Va da sé che la loro percezione dei cartoni animati non era realistica, i gatti veri non vedevano il gatto finto, né il topo, ma dei segni in movimento con un sottofondo sonoro. È una sintesi un po’ grossolana che però, mi pare, aiuta a spiegare la condizione umana del nostro tempo in cui la digitalizzazione ci spinge fuori dal mondo concreto, rendendoci dei segni in movimento senza nemmeno l’odore, appunto, astrazioni quantificate, profili calcolabili. Ego contro Io. Gatti finti contro gatti veri.
Dice Byung-Chul Han: “L’ordine terreno, l’ordine planetario, è costituito da cose che assumono una forma durevole e creano un ambiente stabile, abitabile. […] Oggi all’ordine terreno subentra l’ordine digitale. L’ordine digitale derealizza il mondo informatizzandolo” (p.6). Tutto diventa informazione, bruciando la stabilità delle cose. Siamo dediti alle informazioni e ai dati. La libido abbandona le cose e si rivolge alle non-cose (viene in mente il titolo di un libro di Valentino Zeichen Ogni cosa / a ogni cosa / ha detto addio). La conseguenza è l’“infomania”, un vero feticismo per informazioni e dati. Non solo, le cose stesse diventano infomi nel momento in cui sono presidiate dalla informatizzazione che le trasforma in “agenti che elaborano informazioni”. Così invece che manipolare le cose “comunichiamo e interagiamo con infomi che a loro volta agiscono e reagiscono”. La sintesi della nuova ontologia è lo smartphone, l’“entità fredda” che tutti ci accomuna. E la vita umana, che per Martin Heidegger (costante riferimento di Han) ha come tratto fondamentale il “superamento del cruccio”, viene sussunta in un’intelligenza artificiale che tutto omogeneizza e appiana. È così che si crea la sensazione (sensazione!) di aver risolto i problemi terreni. Come se la cosa, che per Heidegger è l’emblema dell’ordine terreno e incarna la vincolatezza, la fatticità dell’umana esistenza (p.10), nell’infosfera evaporasse in una sorta di frigidità esistenziale.
È il mondo del “phono sapiens”, più giocatore (homo ludens) che operaio (homo faber). Si capisce subito quanto tutto questo possa propiziare la solitudine sociale, la vita di ciascuno all’interno della propria bolla “ipersocial”, staccata dalla corporeità dei contatti sociali concreti con tutte le fatali ricadute psichiche. Lo smartphone “è più che altro un oggetto narcisistico e autistico grazie al quale si percepisce soprattutto sé stessi” (p.39). L’esatto contrario di ciò che per il bambino piccolo, dice l’autore richiamando Donald Winnicott, sono il suo ciuccio o la sua coperta, degli “oggetti transizionali” che gli danno un senso di sicurezza e con i quali si sente meno solo e più protetto, oggetti che in sé non sembrerebbero dare forti stimoli ma che, invece, aiutano il bambino a strutturare la sua attenzione verso la realtà.
Il punto di rottura sta nella natura puramente additiva della digitalizzazione che, al contrario di quella narrativa della memoria umana, si limita a mettere in fila i dati e a conservarli così come sono stati inseriti, senza alcuna elaborazione o trasformazione. Come nella FOTOGRAFIA di Barthes in La camera chiara a cui rinvia Han (pp.71-sgg.): la foto viva (della madre morta) che prosegue il suo lavoro sensibile nella mente di chi la vede anche dopo che l’occhio l’ha lasciata, un’immagine che non è semplice studium (percezione dei dati di realtà), ma un generatore di senso attraverso il punctum, cioè l’elemento emotivo “unico” che essa contiene e che produce un racconto, una narrazione, e da fotografia diventa FOTOGRAFIA. Ben al di là della pura sequenzialità di un selfie fatto di momenti freddi per un eterno presente.
Ma il mondo non sono i dati immagazzinati, che rimangono sempre uguali, morti, incapaci di costruire narrazioni come fa la memoria che è sempre viva e in dialettica con la realtà. D’altronde il pensiero stesso è in origine un sentire, dice Heidegger, uno stato d’animo; il pathos è l’inizio del pensiero, l’intelligenza artificiale è apatica, senza passione (pp.51-52). Le dita servono solo a contare, a digitalizzare, appunto. Il pensiero è la mano, ed è analogico, cioè collegato, analogo a.
“Ci stiamo dirigendo – dice Han – verso un’epoca trans- e post- umana in cui la vita altro non è che mero scambio di informazioni. […] Umano viene da humus, quindi dalla terra. La digitalizzazione è un passaggio coerente verso l’abolizione dell’humanum. Probabile che il futuro umano sia già segnato: l’essere umano si distrugge per assolutizzarsi” (p.90). E questo sta avvenendo in un contesto neoliberista in cui l’individuo stesso è il primo artefice del proprio sfruttamento economico. E allora? Allora, prosegue l’autore, bisogna riconquistare la dimensione dell’altro, bisogna tornare ad ascoltare l’altro, uscire dalla bolla egotica e aprirsi e capire che “si vede bene soltanto col cuore. L’essenziale non lo vedono, gli occhi”, come dice la volpe al Piccolo principe di Saint-Exupéry (p.93).
Dunque recuperare la naturalità del silenzio, della capacità di ascolto, della contemplazione, dell’ignoranza come spazio di crescita. Rifiutare la spazzatura informativa e comunicativa, acustica e visiva delle non-cose ed esercitare quella che Nietzsche chiamava la ‘potenza negativa’ di “non reagire subito a uno stimolo”, una forza che “rende lo spirito in grado di indugiare nel silenzio e nella contemplazione, cioè nella profonda attenzione (pp.102-103)”. Quante assonanze con il “rifiuto sul posto” di Bartleby lo scrivano che Jenny Odell mette al centro della sua riflessione in Come non fare niente (qui), libro assai consentaneo a quello di Byung-Chul Han.
La durezza della realtà odierna si sta facendo atrocemente sentire con la guerra in Ucraina. Il bagno di immagini e resoconti (personalmente mi rifiuto di entrare nella discussione “è vero, non è vero” su cui si sta frantumando irrimediabilmente il buonsenso di troppi, come se la guerra delle propagande non fosse già in sé un orrore) ci costringe rapidamente a rivedere il nostro status di mondo in (relativa) pace.
Con una pandemia ancora in corso. Scelga ognuno il termine che gli è più congeniale: shock, trauma, frattura, sisma… Forse tutto ciò effettivamente ci sta dicendo che abbiamo bisogno di riattivare la Physis, con il suo “potere autonomo” di discernere per poter riprovare con il Nomos. Il discorso, tuttavia, è lungo e complesso: che cosa è (diventata) la corporeità, la naturalità, anzi le naturalità con cui abbiamo a che fare? Pensiamo ad esempio alla profonda trasformazione della cosiddetta “funzione alfa”, cioè la capacità che la mente ha di elaborare gli elementi dell’esperienza mentale non ancora comprensibili e che diventano fonte di grande tensione (vedi Marco Nicastro, Le nuove tecnologie ci rubano la mente. Uno sguardo a partire da Wilfred Bion). La dematerializzazione può fornirci una rimaterializzazione? Se gli “odori” sono quelli che vediamo nella gastronomia televisiva, a quale Physis dovremmo rivolgerci per rivedere il Nomos?
“Rari sono i luoghi in cui resistere”…