Nuova spettacolarità

21 Febbraio 2012

Diverse definizioni possiamo rievocare per figurare la scena degli anni ottanta, una realtà in esaurimento e in movimento, in trasformazione. Giuseppe Bartolucci, critico-guru di varie generazioni della sperimentazione teatrale, parla di “nuova spettacolarità”; Oliviero Ponte Di Pino, in un libro che raccoglie le esperienze più significative del periodo, sottolinea la ricerca di “una grammatica del presente”.

 

Magazzini Criminali, Sulla strada (1982)

 

O forse dobbiamo piuttosto scattare varie istantanee. Una coreografia ossessiva e barbara, sotto cieli tropicali e ardori desertici, con luci coloratissime, musiche iterative a avvolgenti, in Sulla strada dei Magazzini Criminali di Sandro Lombardi, Federico Tiezzi e Marion D’Amburgo, il nomadismo elettronico innestato sul tronco del vecchio Kerouac (1982). Un correre dei personaggi attraverso ambienti disegnati con tratto da fumetto in Tango glaciale di Falso Movimento con la regia di Mario Martone (1982). Il balletto antigravitazionale, nella metropoli incombente, in vari spettacoli della Gaia Scienza e di Giorgio Barberio Corsetti. Il teatro si fa danza. La danza si fa teatro. I laser disegnano la scena negli spettacoli di Krypton. Leo de Berardinis recita tra lame di colore o avvolto in spirali disegnate dal mago delle luci Maurizo Viani. La voce di Carmelo (Bene, naturalmente), diventa phoné, per apparire più dentro più a fondo nel corpo, nell’immaginazione, in virtù di microfoni.

 

Magazzini Criminali, Sulla strada (1982)

 

Prosegue il cammino, iniziato negli anni sessanta, di un teatro che non accetta il quietismo del repertorio, che prova a reinventare grammatica e sintassi della scena in relazione con la contemporaneità. La creazione diventa meno politica, meno ideologica e più aperta alla soggettività, “analitica”, “patologica”, “esistenziale”, come suggeriscono Bartolucci e Franco Quadri, altro mentore del nuovo. Citazione, montaggio di materiali, gioco con l’immaginario mediatico diventano i procedimenti. Si rifiuta la tirannia del testo drammatico per dare spazio al corpo, alla musica, alla danza, alla luce, all’immagine, al frammento poetico.

 

Nel 1990 Pier Vittorio Tondelli sintetizza il percorso del decennio appena passato centrando l’attenzione sul famoso affaire del cavallo dei Magazzini Criminali al festival di Santarcangelo del 1985. La compagnia fiorentina rappresenta Genet a Tangeri nel mattatoio di Riccione, mentre questo continua il suo quotidiano lavoro. Una scena, poco prima dell’evocazione genettiana del massacro dei palestinesi nei campi di Sabra e Chatila, si svolge mentre gli addetti alla macellazione ammazzano un cavallo. La stampa scriverà che “i Magazzini hanno ammazzato in scena un cavallo”, mentre semplicemente la compagnia squarciava il velo sulla violenza necessaria per l’alimentazione umana, come una metafora.

 

La polemica infuria. Nota Tondelli:

 

In seguito al gioco al massacro esercitato dalla quasi totalità della critica italiana (…) i Magazzini si trovarono completamente isolati, privati del loro stesso teatro, senza finanziamenti, e terra bruciata intorno (…). A ricordare quegli avvenimenti, cinque anni dopo, ho la netta sensazione che i Magazzini abbiamo rivestito, quasi paradigmaticamente, il ruolo di capri espiatori. Come fu chiaro dai molti, e deliranti, interventi che si susseguirono nell’estate del 1985, colpendo loro, ostracizzandoli, insultandoli senza cercare minimamente di capire, in realtà si tagliavano le gambe a tutto il nuovo teatro italiano, alle formazioni della cosiddetta “postavanguardia” o “nuova spettacolarità”, che proprio in quegli anni cercava di reintegrare il testo letterario nel tessuto spettacolare, risolvendo in modo nuovo la complessa sperimentazione visiva e musicale da cui era nato. (Un weekend postmoderno, Milano, Bompiani, 1990, p. 236)

 

Spettacolarizzazione al di là delle intenzioni e criminalizzazione, che accelera, probabilmente, un processo di revisione parzialmente già in atto.

 

Magazzini Criminali, Sulla strada (1982)

 

Ritorno all’ordine

 

Faccio un passo indietro, prima di parlare di questo punto di svolta, tra spettacolarità postmoderna e ritorno al testo. Il teatro, come la società di quegli anni, vive spinte contrapposte, tra la restaurazione e gli ultimi bagliori della sperimentazione degli anni sessanta-settanta.

 

Dopo due decenni caratterizzati dall’esplosione del nuovo teatro, dalla critica del testo drammatico a favore della scrittura scenica, della scena del corpo, dell’immagine, della ricerca antropologica, gli osservatori parlano di “ritorno all’ordine”. Anche sul palcoscenico sembrano affacciarsi il culto del leader e l’edonismo dell’effetto drammatico contrapposti al disegno collettivo, intellettuale o ideologico; si leva stentorea la voce dell’attore contro il regista, dell’interprete carismatico e del capocomico contro le sperimentazioni. All’ansia analitica del Laboratorio di Luca Ronconi a Prato, che aveva suggellato gli anni settanta, alle prove di lettura freudiana e di riscrittura sottotraccia che Massimo Castri fa di pilastri del teatro borghese come Pirandello e Ibsen si contrappongono le esibizioni di stagionati “mattatori” come Vittorio Gassman e Giorgio Albertazzi, o di più giovani leoni come Gigi Proietti, Gabriele Lavia, Luca Barbareschi, Maddalena Crippa, Elisabetta Pozzi. Tra letture dantesche e recital virtuosistici ci si indirizza, spesso, verso il one man’s show, con l’emersione di artisti (allora) sorprendenti come Roberto Benigni.

 

Magazzini Criminali, Genet a Tangeri (1982)

 

Prendono rinnovato impulso il teatro privato e quello leggero, quest’ultimo, presto, supportato dalla televisione. Emerge una “nuova comicità” come necessità di demistificazione, che nasce dai ranghi del teatro alternativo e conquista poi spazi nelle sale più frequentate e sul piccolo schermo, proponendo un divertimento “intelligente”, spesso basato sulla satira, che viene presto riassorbito nell’ansia generalizzata di svago, di risata d’evasione (è il caso del bolognese Gran Pavese Varietà). Si affermano nomi nuovi, da quelli prodotti dalle scuderie dell’intrattenimento berlusconiano ad attori provenienti dal teatro politico o da quello alternativo come Paolo Rossi, Lella Costa, Paolo Hendel.

 

Un sistema in trasformazione

 

I teatri stabili, intanto, si sono trasformati sempre di più in organismi burocratici: hanno perso definitivamente la vocazione originaria di servizio culturale per la comunità; amministrano secondo regole di spartizione politica la torta dei finanziamenti e secondo logiche di scambio la produzione e la circuitazione.

 

Nuove speranze ha destato, dal decennio precedente, l’organizzazione cooperativa, vista come assunzione collettiva di responsabilità creativa, produttiva, culturale, come possibilità di invenzione di differenti possibilità di distribuzione, come sfida per la formazione di un pubblico consapevole. Nel corso degli anni ottanta le cooperative crescono, si trasformano, in alcuni casi si inseriscono nei circuiti del potere teatrale; nella decade successiva molte di esse entreranno in crisi di identità: si estingueranno o si ricicleranno definitivamente in aziende con posizione dominante (ai due estremi ritroviamo i casi della Compagnia della Rocca e del Teatro Due di Parma).

 

Magazzini Criminali, Crollo nervoso (1980)

 

Continuano a nascere gruppi indipendenti, che rifiutano la trasmissione pedagogica tradizionale e le forme di organizzazione consuete, cercando di affinare i propri mezzi espressivi e le proprie chiavi di lettura della realtà nell’esperienza comunitaria, nella ricerca radicale e nell’incontro con un pubblico inquieto, molte volte in fuga dalle delusioni di un impegno politico che appare svuotato o impotente.

 

Parallelamente al ritorno del “mattatore” sui grandi palcoscenici, assistiamo sul fronte del teatro alternativo allo sfaldarsi di molti gruppi e al moltiplicarsi degli attori singoli alle prese con soliloqui, spesso virtuosistici, dove si percorrono diversi personaggi e situazioni. Il monologo verrà frequentato anche in alternanza con spettacoli più corali di compagnia, come nel caso di Carmelo Bene e Leo de Berardinis, che affiancano al confronto con testi drammatici viaggi solistici nell’universo della parola poetica.

 

Tra la metà e la fine degli anni ottanta, dall’esperienza di Fiat - Laboratorio Teatro Settimo e da quella di Marco Baliani, nasce il teatro “di narrazione”, che moltiplicherà negli anni successivi i solisti della scena, indicando anche, in molti casi, una via economica e praticabile da molti per fare un teatro impegnato a scavare nella memoria e a interpretare il presente.

 

Incubatrici di gruppi e artisti che diventeranno famosi (Teatro Valdoca, Socìetas Raffaello Sanzio, Teatro delle Albe, Lenz Rifrazioni, Thierry Salmon ecc.) sono rassegne e festival come Santarcangelo, Volterra, Polverigi, dove si offrono a talenti nascenti nuove modalità di produzione e rappresentazione, con progetti speciali costruiti su luoghi determinati, studi, laboratori, residenze in tempi lunghi, prove aperte, lavori in divenire ecc. In quest’opera si impegnano direttamente organizzatori e registi, nonché critici come Giuseppe Bartolucci, Franco Quadri (che arriva a dirigere la Biennale Teatro di Venezia), Antonio Attisani (Santarcangelo). Da alcune esperienze di gruppo nascono i “centri di ricerca”, almeno inizialmente situazioni di approfondimento, di trasmissione pedagogica diretta attraverso il confronto con maestri di diverse tradizioni teatrali, luoghi di sperimentazione e creazione meno assillati dai ritmi e dagli standard del mercato.

 

Krypton, Angeli di luce (1985)

 

L’effimero e il postmoderno

 

Tra la fine degli anni settanta e il primo scorcio del decennio successivo si consuma l’utopia del teatro e dello spettacolo come catalizzatori di un nuovo spazio festivo. L’Estate romana, inventata a Roma da Renato Nicolini, e manifestazioni simili promosse da festival e assessori di città e cittadine d’Italia sperimentano nuovi modi di pensare e vivere gli spazi urbani con rassegne che incrociano strati sociali, linguaggi, discipline, tradizioni e modernità. Si prova a trasformare città impaurite, diffidenti (siamo negli anni “di piombo” e in quelli dell’individualismo montante), in luoghi di incontro e di scambio sociale, di confronto e “contaminazione”, iniettando virus capaci di destrutturate apparenze e compassatezze neoborghesi, provando a strappare gli individui dal particolarismo e da un isolamento che diventa sempre più devastante. La festa, però, presto si esaurisce; l’“effimero” rivela molte ambiguità e, piuttosto che restaurare un mitico passato o aprire la porta a scenari sociali inediti, trasforma la cultura, l’arte, lo spettacolo in generi di facile consumo e di consenso sociale.

 

In questo quadro, il decennio si apre con l’affermazione della “nuova spettacolarità”. Scrive Oliviero Ponte Di Pino:

 

Con il passare degli anni il processo di appropriazione del presente si sviluppa nel tentativo sempre più consapevole di costruire e esprimere una propria cultura. E questo implica innanzitutto il confronto con la cultura effettivamente consumata, e quindi l’abbattimento della barriera tra cultura ‘alta’ e ‘bassa’; ecco quindi l’utilizzo di citazioni e di tecniche narrative riprese, per esempio, dal fumetto e dal cinema, le infatuazioni per la moda ecc. E la necessità di confrontarsi con esperienze significative nell’ambito della quotidianità, che spesso identificano o evidenziano le dinamiche del presente, e permettono si entrare in contatto con un pubblico che vive esperienze simili: tematiche che si concretizzano nella postavanguardia prima, e poi nella “nuova spettacolarità”, riflettendo poetiche “metropolitane”. (Il nuovo teatro italiano 1975-1988, Firenze,la casa Usher, 1988, p. 17).

 

E continua notando come la novità stia “nella capacità di articolare segni e oggetti, di costruire e raccontare per immagini e sensibilità”.

 

Giorgio Barberio Corsetti, Mario Martone e i Magazzini Criminali, oltre a gruppi di danza come Padiglione Italia e Sosta Palmizi, contaminano i linguaggi secondo modalità postmoderne: danza, fumetto, musica, moda, videoclip, pubblicità, fantascienza si incrociano in spettacoli veloci, pulsanti, ironici, a piani multipli. I corpi degli attori sono resi leggeri, smaterializzati fino a confonderli con scenari video; vengono rivisitati radicalismi artaudiani, spesso immergendo gli spettatori in altrove esotici, alla ricerca di via di fughe “barbariche” da una civiltà di convenzioni e simulacri.

 

I percorsi sono variegati, ma con esiti paralleli: la velocità, il forte segno fisico, visivo, ludico o mitologico, musica, azione, partiture fisiche, immagine convivono, con diversa gradazione, in spettacoli come Crollo nervoso (1980) o Sulla strada (1982) dei Magazzini Criminali, Cuori strappati (1983) della Gaia Scienza, Tango glaciale (1982) e quelli immediatamente successivi di Falso Movimento.

 

Falso Movimento, Tango glaciale (1982)

 

Questi esiti, vengono così prefigurati, nel 1979, da Giuseppe Bartolucci:

 

Diciamo allora che uno potrebbe anche rileggersi le note della Società dello spettacolo di Guy Debord, oppure più vicino scorrersi con le analisi sulla morte e sul simbolico di Baudrillard, senza lasciarsi cogliere da miti vecchi e nuovi, e però bilanciandosi assai bene tra un senso sovvertitore politico della presa di coscienza di questa spettacolarità, e un senso di vuoto traversato da pornografia e da violenza che altrettanto bene viene esplicandosi all’interno di tali nuove spettacolarità. Per il momento tale vuoto è predominante, e pertinente nel senso che si agisce per perdita di valori, per orizzontalità antiespressiva, come insediamento di una maniera di far teatro (o non teatro) che si allontani da mediazioni traditrici (lo sperimentalismo del gusto) e che nemmeno si lascia riafferrare da illusioni di cambiamento della realtà in nome di una politica di revisione o peggio ancora di solidarietà. (Dalla postavanguardia alla nuova spettacolarità, in Testi critici 1964-1987, Roma, Bulzoni, 2007, p. 294)

 

Il critico chiama in soccorso, a questo punto, la nozione di “catastrofe”, dove la sovversione sta nel creare il vuoto, in “una guerriglia metropolitana, ove il nomadismo conta come attacco e fuga, come accerchiamento e imprevedibilità; e ciò che conta è il non farsi sorprendere da giudizi e il non farsi riconoscere sul fatto”. Purtroppo i tempi non sono dei migliori: molti si faranno sorprendere e si lasceranno riconoscere sul fatto.

 

 

Falso Movimento, Ritorno ad Alphaville (1986)

 

Revisioni/drammaturgie

 

Dopo lo “scandalo” del cavallo, i Magazzini si spogliano dell’aggettivo “criminali”. Con la trilogia Perdita di memoria (pubblicata dalla solita Ubulibri nel 1986), di cui fa parte l’incriminato Genet a Tangeri, iniziano un processo di revisione in direzione di una diversa attenzione per la scrittura. Partendo da testi di Genet, Artaud, Fassbinder, Pasolini,approdano a una drammaturgia originale per frammenti poetici ed esplosioni corporee, che abbandonano, in seguito, per arrivare alla regia (pur sempre visiva e visionaria) di pièce di Beckett e Heiner Müller. A partire dal 1989 rivisiteranno le cantiche della Divina Commedia, affidandone l’adattamento ai poeti Edoardo Sanguineti, Mario Luzi e Giovanni Giudici. Ispirandosi al pasoliniano “cinema di poesia”, chiameranno questa fase “teatro di poesia”, aprendo la strada che li porterà, negli anni novanta, al confronto con la parola-corpo del Giovanni Testori degli Scarrozzanti e poi, sempre di più, a una rivisitazione del repertorio.

 

Mario Martone, con i nuovi Teatri Uniti, che uniscono Falso Movimento a due formazioni dell’area napoletana e casertana dirette rispettivamente da Antonio Neiwiller e Toni Servillo, dopo il remake teatrale e futuribile di Alphaville di Godard (Ritorno ad Alphaville, 1986), sintomo del forte interesse del regista napoletano per la settima arte, percorre i tragici greci e poi, con Rasoi, la scrittura di Enzo Moscato. Barberio Corsetti continua a sperimentare sui confini tra immagine reale e virtuale, tra attore e video, in collaborazione con Studio Azzurro, fino all’approdo, alla fine del decennio, a Kafka e subito dopo ad altri autori della grande letteratura.

 

 

Giorgio Barberio Corsetti | Studio Azzurro, La camera astratta (1987)

 

Da questi e da altri fronti emerge un nuovo interesse per la drammaturgia, per una drammaturgia differente, che metabolizza in vari modi i cammini fisici, visivi sonori fin qui percorsi. Verso la fine della decade si registra un’accelerazione verso il testo e verso il teatro di regia che potrebbe suonare come riflusso e che apre una delle molte piste della scena “anni novanta”.

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