Lou Dematteis, lo sguardo del ritrovamento 

24 Gennaio 2024

Ritornare: non facciamo altro. Rientriamo a casa alla fine del viaggio, ripercorriamo i luoghi delle passate felicità, dei nostri eterni esili. Facciamo ancora e ancora lo stesso sogno; ricordiamo. Solo gli eroi sanno andare senza idea di ritorno; noi diciamo arrivederci al tabellone delle partenze. Si vuole ritrovare la città di Combray che non è mai esistita. Si ritorna nel paesaggio dei racconti di famiglia; da lì veniamo, anche se nati altrove. Il desiderio di riscoprire le proprie radici familiari, di “tornare alle origini”, spinge Lou Dematteis, fotoreporter italoamericano, a visitare quattro volte l’Italia negli anni Settanta del Novecento. Il diario visivo di questo viaggio fisico e interiore è raccolto nella mostra A Journey Back/Un viaggio di ritorno (Fotografie in Italia 1972-1980) a cura di Claudio Domini e Paolo Pisanelli, visitabile al Museo di Roma in Trastevere fino al 24 marzo 2024 (l’esposizione è accompagnata da un breve film documentario realizzato da Paolo Pisanelli e Matteo Gherardini e da un libro fotografico nel quale, oltre alle foto, si può leggere un bel saggio introduttivo a firma dello stesso Claudio Domini).

Scrive Maddalena Tirabassi su “Altreitalie” (luglio-dicembre 2021, qui) che “sin dall’inizio del Novecento, sull’onda delle grandi migrazioni europee e transoceaniche, lo studio delle modalità̀ di inserimento degli immigrati, sviluppatosi in particolare negli Stati Uniti, aveva portato ad adottare il concetto di generazione per comprendere le dinamiche dell’inserimento, a partire dalla teoria delle tre generazioni formulata da Marcus Lee Hansen, poi ripresa da Oscar Handlin nel 1952, e nel 2005 da Werner Sollors che aveva esortato a leggerla come costruzione culturale”. E in questo quadro teorico, aggiunge Tirabassi, le modalità̀ della trasmissione culturale tra generazioni immigrate erano state condensate in una formula icastica: “ciò che i figli desiderano dimenticare i nipoti desiderano ricordare.”

Se dunque i nonni Dematteis sentono nostalgia della patria lontana, il nipote Dematteis prova un senso di perdita indefinibile, lo stesso di quando non ci si ricorda il volto della propria madre. La vita di una volta, di laggiù. Il sapore del pane, i colori che ciascuno deriva dalla propria terra. Ricette, canzoni, proverbi: i racconti di famiglia alimentano l’immaginario di un ragazzo creativo e sensibile. Nato nel 1948, da bambino la madre gli mette in mano una vecchia Kodak Brownie e Louis, “Lou”, diventa il cronista di riunioni familiari, cene con amici, gite e vacanze. Questo ingresso genuino nella pratica del fotografare è significativo perché immortalando la risata della domenica, il gesto del padre, l’estro nell’addentare una mela, Lou sta già tracciando la mappa della sua geografia personale. Non solo. L’album di famiglia condensa simbolicamente i motivi del suo approccio fotografico, almeno in una prima fase. Secondo questa declinazione, la fotografia è una prova storica che facilita il riconoscimento e il senso di appartenenza. Agisce come un mezzo di validazione. Consente di appropriarci visivamente del passato e collocarci come individui sulla linea del tempo, stabilendo la tacca che separa il “prima di noi” e il “da quando ci siamo noi”. Sia a livello privato che collettivo, in altre parole, contribuisce a creare una base identitaria, la sicurezza di avere un luogo cui tornare. 

Il primo incontro di Lou Dematteis con l’Italia avviene a ventitré anni, nel 1971, e senza fotocamera. A “sguardo nudo” esplora paesaggio, arte, città: tutto è nuovo e insieme già visto, uno stupore e una conferma. Il mondo mitizzato dei racconti d’infanzia si incarna. È il momento dell’incanto; un nodo finalmente si è sbrogliato e clic: avviene in lui la rivelazione di poter cominciare a scattare. 

Prende avvio una ricerca fotografica su due piani paralleli – uno identitario e uno stilistico – che interesserà i successivi quattro viaggi nel nostro Paese (1972, 1977, 1979 e 1980). A ognuno di essi corrisponde una sezione della mostra, così da comporre – e sta qui forse l’elemento più interessante – un corpus in quattro movimenti: variazioni dello sguardo sull’Italia di un fotografo italoamericano in relazione all’evolversi del suo rapporto con le origini. Potremmo intitolare così i capitoli: il ritrovamento; dalle retrovie del corteo; il turista esperto; il fotoreporter.

Nel 1972 Lou Dematteis è un ragazzo appena uscito dal college, biglietto del treno e Nikon F, lungo le tappe classiche da Grand Tour, Roma Firenze Venezia.

Gli appunti visivi comprendono scorci di città, gente per strada e nelle piazze nel loro modo di stare insieme e di concepire il tempo. Le foto che si fanno perché ciò che vedo è bello, e le foto scattate perché ciò che vedo è strano, come la fila di uomini in abito buono che pescano in Arno e sorvegliano la lenza commentando il campionato di calcio. 

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Firenze, 1972.

Per la scelta dei soggetti e l’atmosfera, l’approccio appare a specchio: più che indagare la realtà, il fotografo cerca corrispondenza con un’idea a lungo immaginata. L’attenzione rivolta ai bambini – giochi tuffi piroette – alla loro espressione intensa, talvolta fragile, talvolta spavalda, sembra sottintendere una domanda su sé stesso, sul bambino che avrebbe potuto essere se i nonni non fossero emigrati. Quasi stesse aggiungendo pagine al suo album di famiglia, il fotografo posa sulle persone uno sguardo tenero, quasi commosso, parteggia per loro, ne coglie la spirito. Le campagne, la Messa, le Cinquecento: è un’Italia autentica ma non contemporanea, un neorealismo romantico senza dialettica. Manca totalmente la riflessione sugli effetti delle trasformazioni sociali e sui cambiamenti del paesaggio, che invece si trova in fotografi italiani contemporanei come Lucas, Cerati, Nicolini. Il valore di queste foto, in altre parole, non si esaurisce nell'aspetto documentaristico ma va collegato a una riflessione sul “dispatrio” dell’emigrante di ritorno: il “ritardo nello sguardo” di un fotografo italoamericano di terza generazione ci consente di capire cose fosse rimasto nei primi anni ’70 di quell’Italia che gli emigranti avevano lasciato mezzo secolo prima. 

Durante il secondo viaggio Lou Dematteis si trova inevitabilmente di fronte alla politica. Il 1977 è un anno terribile, sono gli anni di piombo, la contestazione è diffusa e radicalizzata, duri scontri nelle manifestazioni e numerosi episodi di violenza negli ambienti di lavoro, nelle scuole, nei luoghi di ritrovo. 

Questa serie ha una natura più impegnata, ritrae le lotte sindacali, lo sfruttamento del lavoro, la vita nelle fabbriche. Le immagini dicono “questa cosa mi riguarda” e di fatto assumono una valenza politica; ma non si tratta di fotografia militante alla Tano D’amico, creata “da dentro” la causa e utilizzata come strumento di contro-informazione. Dematteis resta nelle retrovie per scelta, consapevole anche di una distanza culturale che non autorizza la piena immedesimazione. L’Italia è e non è la sua patria, quella nelle piazze è e non è la sua gente. Sono le foto scattate da un ipotetico ultimo manifestante del corteo, attardatosi a osservare cos’è rimasto a terra mentre il tumulto si è spostato più avanti; in tal senso, un punto di vista originale.

Una foto, in particolare, risulta emblematica: su un muro lungo la strada una scritta prende tutta la larghezza dell’inquadratura. “Giorgiana [Masi] lottava anche per voi”; e sotto: “L’astensione non è degli operai”. Due grida slegate, è l’accozzaglia di ragioni e temi della contestazione, un disordine politico ripreso simbolicamente nella mancanza di nesso linguistico. Pare di vedere il ragazzo con la bomboletta spray aggiungere il suo risentimento nel rigo sopra a quello preesistente e poi scappare. Una suora fiancheggia il muro, cammina a passo sicuro, certa è la sua vocazione e la destinazione che deve raggiungere; non si cura della scritta, né dell’ideologia. 

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Roma, Ricordo di Giorgiana Masi, 1977.

Nel ’79 l’impostazione di Lou Dematteis è ancora diversa, più spensierata, più vicina al modello della street photography, più attenta insomma al “momento decisivo” in cui la vita si riallinea e un lampo strappa un sorriso. Il materiale raccolto nel suo terzo viaggio coglie l’atmosfera delle stazioni, i rituali della festa, le storie negli scompartimenti del treno. È lo sguardo di un turista esperto affezionato alla cultura del posto. Percorre le riviere adriatica e tirrenica, l’italiano medio ora va in vacanza al mare e la spiaggia diventa il campionario aggiornato delle categorie sociali. Lou Dematteis è in mezzo ai bagnanti a documentare il rituale collettivo, con indulgenza e velata ironia. L’esemplare di homo italicus che grazie a un gioco prospettico si erge dietro un muretto e sorveglia come un guardiano della morale, non può vedere le due biciclette (una da uomo e una da donna) che flirtano al di là della parete, allusione a una definitiva trasformazione nei costumi, anche in Italia. 

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Rimini, 1979.

L’anno successivo Lou Dematteis rivolge la sua attenzione alla Sicilia, soprattutto a Palermo e alla località di Marinella. Qui documenta l’attività dei pescatori locali come se dovesse trarne un vero e proprio reportage. Ancora una volta la visuale cambia: il fotografo italoamericano, conclusa la propria ricerca identitaria, può assumersi l’onere della narrazione e interpretare in modo personale il mestiere di fotoreporter. 

Di fatto, un ritorno può condurre molto avanti. Il percorso della mostra è scandito dalle parole del poeta beat Lawrence Ferlinghetti (1919-2021), estratti di diari e poesie che allargano l’inquadratura e risuonano come appunti di viaggio. 

Molto più di un “come eravamo”, dunque. Piuttosto, è il diario di una telemachia.

Attraverso l’immagine l’uomo-fotografo elabora il senso del lontano, e affronta la domanda che spesso il migrante tiene nella testa per tutta la vita: come sarebbe stato se non fossi partito? 

«Vai in America! Vai in America! Gridavano tutti. Ci sono andato. Eccomi. E ora?». Amedeo si rispose da solo. «E ora mi bevo un altro litro di vino e mi ascolto una canzoncina…». Fece un cenno con la mano a Ostula: «Cantami C’è la luna ‘mmenzu ‘o mari!» (Cristo fra i muratori, Pietro di Donato, Readerforblind).

In copertina, Marinella, pescatori, 1980.

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