Maurizio Pollini: «la musica è un diritto di tutti»

25 Marzo 2024

Maurizio Pollini le possedeva tutte, le virtù “americane” di Italo Calvino: Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità; e anche l’ultima, solo progettata, Consistency, ossia la Coerenza. Anzi, a conquistarci è proprio la coerenza con cui riuscì a tenerle legate insieme negli 82 anni di vita e ad offrirle all’umanità nei quasi 70 di attività musicale. «Un poeta del pianoforte», ha detto con finezza Sergio Mattarella: intendo queste parole nella dimensione in cui Paul Valéry poteva definire la poesia (e l’evento della sua creazione) una «hésitation prolongée entre le son et le sens». Per Pollini, come per Calvino, la leggerezza si è sempre associata «con la precisione e la determinazione, non con la vaghezza e l’abbandono al caso»; e anche per lui, secondo la frase di Valéry che sigilla questa idea nella prima delle Lezioni americane, «il faut être léger comme l’oiseau, non comme la plume».

Le mani di Pollini non mi hanno mai ricordato le piume nel vento: erano uccelli leggerissimi, di rapidità travolgente, di tocco esatto, trasparente, molteplice. Come per la fisica quantistica, o per Pirandello che la anticipa, «la fantasia dell’artista è un mondo di potenzialità che nessuna opera riuscirà a mettere in atto» (cito ancora Calvino, Visibilità). Ma la potenza, ha scritto Giorgio Agamben riflettendo sulla Metafisica di Aristotele, «è definita essenzialmente dalla possibilità del suo non-esercizio»; «e come possiamo pensare l’atto della potenza-di-non? Poiché l’atto della potenza di suonare il piano è certamente, per il pianista, l’esecuzione di un pezzo al pianoforte; ma quale sarà, per lui, l’atto della sua potenza di non suonare?».

disco

Ogni volta che ho ascoltato Pollini, cioè quasi ogni giorno, ho creduto di capire perché il grandissimo Artista offre della vita un’immagine che supera sempre i limiti del pensabile e del possibile, una potenza capace di eccedere qualsiasi forma e realizzabilità. Solo un pianista del livello di Pollini può contenere e rendere coerenti l’atto del suonare in una esecuzione tanto perfetta che sembra “essere” la musica pensata e scritta dal compositore, e «l’atto della sua potenza di non suonare». Questa sterminata potenza, enérgeia nel senso davvero più aristotelico del termine, è ciò che Pollini ha donato alla musica e al mondo. In una magnifica intervista-video realizzata dieci anni fa da Bruno Monsaingeon, violinista, pianista e musicologo, dal titolo De main de maître, Pollini ha spiegato la sua idea di rapporto con il pianoforte, che mi evoca queste riflessioni sulla potenza: «Il pianoforte», ha detto, «è uno strumento “neutrale”, ma ha delle possibilità pressoché illimitate di trasformarsi. Può diventare uno strumento “cantante”. E vedere che lo “strumento” reagisce al desiderio, alla ricerca che si fa attraverso di lui, è la ragione per cui sono entusiasta di essere pianista».

Il mio Fabbrini, diceva, cambia con me, con la sala, con il pubblico, con le emozioni ogni volta diverse. E infatti, suonando, lui cantava: basta ripensare a quello che a me pare un capolavoro, il suo Adagio del Concerto in la maggiore K 488 di Mozart, il numero 26, con la direzione di Riccardo Muti, eseguito alla Scala il 13 novembre del 2000: nel video online vediamo affiorare sulle labbra di Pollini delle sillabe-note, quasi in un balbettìo che emerge dalle radici della carne e vorrebbe farsi eco sonora del volo con cui le farfalle-dita sfiorano e travolgono i tasti. E non faceva lo stesso anche un altro genio del pianoforte, così incredibilmente lontano dallo stile, dalla tecnica, dal gesto di Pollini, Glenn Gould, che si vede e si sente, nelle registrazioni, entrare in risonanza con il suo alter-ego, il celebre Steinway CD 318, mentre canticchia le Variazioni Goldberg bachiane?

Entusiasmo, gioia, Freunde, vibrano nella musica di Pollini. Fuori, all’esterno, la sua elegante compostezza, il suo passo breve e rapido, la folgorante esattezza e rapidità esecutiva, testimoniano un’arte della concentrazione, addirittura della contemplazione, nel senso più intensamente e laicamente agostiniano della parola. Felicità mentale e razionalità sono i poli della sua armonia interiore e artistica. Grazie a quello che non esito a proporre come un ininterrotto esercizio spirituale riuscì a tenere in equilibrio un’assoluta capacità di astrazione e il controllo microscopico del gesto, misurando la potenza, anzi proprio il peso di ogni tocco sulla tastiera.

a Varsavia, 1960

In De main de maître Pollini racconta come, dopo il concerto con cui nel 1960, a 18 anni, vinse il concorso internazionale Fryderyk Chopin, a Varsavia, Arthur Rubinstein (a cui si attribuisce la celebre frase: «Questo ragazzino ha una tecnica migliore di quella di tutti noi») pose le mani sulle spalle a lui e all’altro ottimo concorrente Michel Block, premendo con il dito medio, e proclamando: «Io suono soltanto con il peso, per cui non mi stanco mai». Il peso infinitesimale di un dito trasformato per miracolo nella leggerezza esatta e rapida, molteplice e luminosa della musica. Per questo, ha sempre detto Pollini, «io ho compiuto una scelta rigorosa del mio repertorio, inserendovi solo opere che non mi avrebbero mai stancato». «Con ogni pezzo», diceva, «io ho sempre avuto un rapporto stretto e prolungato»: intimo, prolungato, come «l’esitazione prolungata fra il suono e il senso» che è per Valéry la poesia. Quel «rapporto stretto» significò per lui quasi scavare con le dita nelle note, per raggiungere la «sonorità più impalpabile»: così gli aveva insegnato, diceva, Arturo Benedetti Michelangeli, il quale «mi suggerì una diteggiatura per i trilli, che utilizzo ancora», ricorrendo a quello che la tecnica pianistica chiama “doppio scappamento”, disposizione meccanica grazie alla quale rimane aperta la possibilità di ribattere la nota senza rilasciare del tutto il tasto: questa potenzialità, perfetta potenza-di-non, consentiva a Pollini (sono ancora parole sue) di estrarre il suono «non tanto dal tasto, ma da sotto il tasto».

Rigorosa era la scelta del repertorio, rigorosa ogni esecuzione, nel rispetto filologico del testo che gli permise sempre di portarne alla luce la struttura con razionalità accesa di timbri e di colori. Pollini non si è mai stancato, né ha mai stancato il suo pubblico, perché questo rigore ha costituito sempre il polo dialettico dell’«entusiasmo di essere pianista». Suo padre Gino era un architetto razionalista; sua madre, Renata Melotti, una musicista; e anche il fratello di Renata, Fausto, aveva un diploma di pianoforte. Ma dire Fausto Melotti significa pensare anche a Adolfo Wildt, e a Lucio Fontana, e a Carlo Belli (suo cugino), autore di Kn, che Kandinskij definì «il Vangelo dell’arte astratta». Non è un caso, credo, se all’inizio del video di Monsaingeon, mentre la telecamera si avvicina allo studio in cui Pollini sta sfogliando lo spartito della Sonata Gli addii di Beethoven, su un tavolo a sinistra si vede poggiato, quasi come un totem simbolico, un catalogo di Paul Klee; e sulla libreria alle spalle del pianista, ben riconoscibile fra i molti libri, la raccolta completa de Il Politecnico di Elio Vittorini, che Einaudi pubblicò nel 1975. Astrattismo e fantasia, lievità e peso delle idee, cura dei valori culturali e concretezza di impegno civile, Klee e Vittorini: scelte intellettuali, di rigore e di politica, cioè, in una parola, di etica.

L’etica come scelta di saldare la cultura e la politica fu, per Pollini, soprattutto a partire dagli anni Sessanta, una forma di vita. L’amicizia con Luigi Nono, e la posizione assunta dal PCI dopo l’invasione sovietica di Praga, nel 1968, lo avvicinarono a un comunismo autentico, “critico”: «non avrei mai ammesso di avere simpatia per un partito che non fosse stato assolutamente democratico, in ogni senso». Comunismo per Pollini significò, in primo luogo, ribadire che «la musica è un diritto di tutti». È difficile, oggi, percepire il vulcano, il terremoto che dovette essere quel concerto del 9 gennaio 1972, nella fabbrica grafica Paragon di Genova occupata dagli operai (era il 72° giorno) dopo la minaccia di gravi licenziamenti. Bruno Martinotti dirigeva, e Maurizio Pollini scelse di eseguire il concerto L’Imperatore di Beethoven, insieme con La fabbrica illuminata di Luigi Nono. Come dire, il più classico dei classici, “la Musica” depositata nella memoria collettiva, e una composizione modernissima, con la voce di un soprano che cantava poesie di Cesare Pavese e testi di Giuliano Scabia intrecciati ai suoni emessi da un registratore a quattro piste: rumori industriali, voci di operai, lacerazioni sonore dello spazio.

 

Pollini promosse fino all’ultimo la coesistenza, in quel grande Teatro della Memoria che è la Musica, dei grandi classici con l’avanguardia: soprattutto Nono, Stockhausen, Boulez. La sua energia culturale e politica, il suo coraggio estetico e artistico, brillano visibili ed esatti in certi cartelloni che oggi sono un documento e un ricordo, e che allora furono esplosione, scossa elettrica. Il 9 maggio 1977, ad esempio, alla Scala di Milano, nel ciclo dei Concerti per Lavoratori e Studenti ideato da Paolo Grassi, a cui collaborò l’amico e compagno di grandi avventure Claudio Abbado, Pollini propose (ma in certo modo anche impose) un accostamento che a molti dovette sembrare “poco giudizioso”, e che oggi scintilla di genio esplorativo: la Sonata degli Addii e l’Appassionata di Beethoven, i cinque Klavierstücke op. 23 di Schönberg e Sofferte onde serene, che Luigi Nono aveva dedicato a Pollini stesso, e che insieme avevano eseguito per la prima volta nella Sala Verdi del Conservatorio di Milano pochi giorni prima, il 17 aprile. Cito ancora, come esempio di sublimità conquistata attraverso una battaglia sul campo contro le convenzioni e la pigrizia mentale, un altro di questi Concerti per Lavoratori e Studenti, a cui collaborava la Consulta Sindacale CGIL-CISL-UIL: l’8 maggio 1978, sempre alla Scala, giovani e operai ascoltarono i tre intermezzi op. 137, i tre pezzi op. 118 e i quattro pezzi op. 119 di Brahms, poi i tre pezzi op. 11 di Schönberg e la sonata n. 2 di Pierre Boulez. Quasi incredibile, a guardare lo stato attuale della nostra cultura, della nostra “classe operaia”, della nostra politica.

Mi batte ancora forte il cuore quando ripenso all’inaugurazione dell’Auditorium di Roma, nell’aprile 2002, quando Luciano Berio era direttore dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Ricordo di essere stato a parlare con lui per un’intervista su RadioTre della RAI. E mi spiegò il senso del Progetto Pollini, che aveva edificato insieme con il grande pianista come una possente, arditissima Torre di Babele della musica: non per confondere le lingue, ma per congiungerle, e per far dialogare gli antichi con i contemporanei. Così, a partire dal marzo 2003, Pollini e Berio offrirono ai romani, abituati al vecchio Auditorium di Via della Conciliazione e ai suoi programmi tradizionali, uno shock di cui per vent’anni si è sentita l’eco fortissima, nello splendido nuovo spazio disegnato da Renzo Piano. L’arte della seduzione e lo spirito rivoluzionario, come sempre armonizzati con rigore e leggerezza, convinsero il pubblico romano, un po’ indolente e un po’ cinico, che è possibile ascoltare Ligeti e Mozart, Bach e Sciarrino. Pollini li disponeva in una saldatura raffinata, distribuendo i contemporanei al centro e collocando all’inizio e alla fine i “classici”: e invitava così, con democratica fermezza, che si può imparare ad ascoltare le voci del nostro tempo senza pregiudizi: anzi, godendole.

Ci volle tempo, pazienza, fiducia. Come ricordava Arrigo Quattrocchi nel programma di sala dell’Auditorium per la sera del marzo 2003 in cui furono eseguite le Variationen op. 27 di Anton Webern, il musicista in una lettera del 1936 scriveva: «Vi ho già detto che sto scrivendo qualcosa per pianoforte. La parte che ho finito è un tempo in forma di variazioni: verrà una specie di Suite. Spero di aver realizzato con le variazioni qualcosa che già da anni avevo in mente. Goethe, una volta, a Eckermann che lo stava lodando per una nuova poesia, rispose: ma ci ho anche pensato sopra per quarant’anni!». Anche Pollini, con fatica e tenacia, ha seminato per decenni, e “ci ha pensato sopra” prima di “eseguire” la sua potenza. Concludendo la sua intervista-video, Bruno Monsaingeon, nel 2014, chiedeva al pianista: «Lei è una sorta di missionario?» E lui, stupito e spontaneo: «No, faccio tutto per il mio piacere!». «E basta?», chiese il musicologo. «Quasi basta!» sussurrò sorridendo Pollini.      

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Polloni alla Scala