L’ultimo figlio / Figli: 1+1=11!
Cosa porterà la sorte A coloro che verranno, si chiede a una tavolata che discute di Figli un trentenne che il film non l’ha ancora visto, però alla sua generazione riprodursi appare tanto inverosimile quanto a quella dei baby boomer lo sbarco di un uomo sulla luna. Per chi aveva poco più di dieci anni nel duemila la scarsità di lavoro, la miseria dei guadagni, le condizioni del clima atmosferico e spirituale, la linea dell’orizzonte che pare curvarsi all’ingiù non lasciano dubbi: domani non sarà migliore di oggi.
Nell’Italia a crescita zero l’andamento demografico ha avuto una forma a piramide fino agli anni '60. Adesso, che per età media siamo terzi al mondo dopo il Principato di Monaco e il Giappone, la priamide si è quasi rovesciata. E i giovani adulti dell’epoca attuale sono tra i primi, dall’inizio del Novecento, a non essere in grado di migliorare le proprie prospettive rispetto a quelli da cui discendono. Se, come ci dicono i sociologi, il “progresso” è una credenza, avanzare nel futuro può dare l’impressione di arretrare.
E il successo nelle sale di un film come Figli rivela il bisogno delle generazioni X Y Z di rispecchiarsi in tonalità melanconiche e tragicomiche capaci di raccontare la solitudine di chi sopravvive nell’emergenza, mentre le ragioni dell’odio paiono un collante più efficace di quelle della comunità.
I quarantenni Sara (Paola Cortellesi) e Nicola (Valerio Mastandrea) sono colti al bivio del bis, che in molti desiderano, in pochi però osano varcare. Quello di raddoppiare, avere un secondo figlio, provare a farcela nonostante il mondo circostante lo sconsigli. Chi lo ha già fatto, come un amico giornalista, non riesce a nascondere la sua disapprovazione, i suoi non sono auguri ma condoglianze. Sara e Nicola lavorano entrambi nel campo della ristorazione, lui in un locale che prepara cibi pronti, lei è un’addetta al controllo delle condizioni igieniche delle cucine. A ogni nuova ispezione ripete, “questo mestiere ti fa capire il disamore di cui è capace questo paese”. Hanno una figlia di sei anni, Anna, bambina saggia già ben adattata ai ritmi dei grandi; faticano ma, negli interstizi, riescono a divertirsi e fare l’amore. A partecipare ai rumorosi apericena dei coetanei, da cui loro devono spesso sgusciare prima che i festeggiamenti tocchino il climax. Quando chi brinda annuncia, euforico, di aver raggiunto l’obiettivo della sua lotta: non ha abbattuto il capitalismo, ma ha saldato il debito con l’agenzia delle entrate.
I primi mesi il trantran regge, il neonato dorme e Sara non è ancora ritornata al lavoro, anche se la primogenita insinua, “C’era proprio bisogno del fratellino?”. Al terzo mese il patatrac, il pianto ininterrotto e le urla di Pietro, coperte dalle note della “Patetica” di Beethoven, scuotono le notti e gli equilibri della famiglia, spezzano i nervi della quotidianità. Perché la madre non può lavorare, il padre deve lavorare, a fine mese come si arriva, Anna è triste e gelosa. E ripara con disegni coloratissimi il suo senso di catastrofe. Zacchete: il rivale non è mai nato, il Titanic non è mai affondato, le Torri Gemelle non sono mai cadute.
La pediatra guru, olistica e carissima, suggerisce ai genitori di assecondare il pianto del bambino, di non avere fretta di farlo addormentare, cambiare ritmo, insomma cambiare vita. Loro due ogni tanto lo fanno, fantasticando di buttarsi giù dalla finestra da soli o insieme.
La famiglia non riesce a diventare né un 4 numerico, né un 5 simbolico. A proposito, la numerologia psicoanalitica è diversa da quella matematica. In Il mondo dell’oggetto evocativo Christopher Bollas scrive: “possiamo dire che 1+1=3. Nella vita psichica c’è un evento che la psicoanalisi deve contare in questo modo: madre più padre producono un bambino, il che crea una triade”. Ma le cose sono molto più complicate di così, continua Bollas, perché bisogna tenere conto dei rispettivi genitori di entrambi i partner, dunque eccoci già a 7, soprattutto bisogna pensare che, per funzionare, bisogna avere sempre in mente che 1+1+1 fanno 4, perché formare una famiglia significa questo. Ma non tutte le famiglie, conclude, sanno contare fino a 4. Bollas si ferma qui, in Figli gli amici avevano messo in guardia Sara e Nicola: 1+1=11! Una profezia che si autoavvera.
Il confronto con i diversi modelli di famiglia non serve, ognuno crede nel proprio single-issue. Ci sono i naturisti, nessun tablet e per regalo una scarpa a Natale e una a Pasqua, così forse si ritorna al sapore del desiderio; i para-inglesi, che considerano l’italiano una seconda lingua; i miliardari, i cui figli vivono con la nanny e hanno in testa solo la mappa delle Isole filippine; i separati, che si sentono in colpa di default. Sara e Nicola sognano la tata ideale, mentre sfilano baby-sitter eccentriche di ogni età e paese. Quando, esausti, approdano al ristorante, non vedono l’ora di ritornare al soffoco della casa.
Sono dei revenant che corrono sempre, in Italia madri e padri giovani non li abbiamo – I figli invecchiano è il monologo di Mattia Torre (1972-2019) a cui si ispira il film –, quindici anni fa si era dei privilegiati, nevrotici ma non così smarriti e sgomenti, con la sensazione di essere abbandonati dai coetanei e dai genitori. Perché la lotta di classe si è trasformata in lotta tra le generazioni, le stagioni non si ricompongono in uno stato di quiete come nel quadro Le età dell’uomo di Caspar David Friedrich, dove cinque figure umane, due bambini e tre grandi, padre, madre e nonno, rappresentano il ciclo biologico.
La madre di Sara spende le sue energie in piscina e non vuole impegnarsi con il nipote, lo scambio di accuse tra le due donne è uno dei momenti più drammatici del film. “Perché la vostra generazione si è mangiata tutto. Siete nati nell’immediato dopoguerra, avete vissuto l’infanzia in una rete famigliare ampia e generosa, vi siete goduti il boom economico, (…). Non avete pensato alle generazioni successive. E continuate a non farlo. Oggi, con i soldi della pensione, di cui sarete gli ultimi a beneficiare, vi godete la vita, (…), e soprattutto credete nel futuro, il futuro che sarete gli ultimi ad avere. Perché non morite neanche più”. La risposta della nonna è un comizio: “Ma noi siamo tantissimi. Ogni 100 giovani ci sono 165 anziani. E questo significa maggioranza assoluta, e cioè, virtualmente, Camera, Senato e Governo della Repubblica. Abbiamo le tv, perché condizioniamo palinsesti e linee editoriali: Sanremo è fatto per noi, e così anche la grande fiction nazional-popolare. (…) Le case di proprietà e i libretti di risparmio su cui si regge l’intera economia di questo paese – e senza i quali chiudevamo come la Grecia – sono in mano nostra. (…) Ci manca solo un po’ più di consapevolezza e coesione, e saremo pronti, finalmente, a fare il culo a tutti”. Anche il padre di Stefano non può dare una mano, è lui a mettere su famiglia e chiede sostegno: vuole un nuovo erede.
Le ragioni dei singoli si riflettono nello scontro tra città e campagna, tra giovani e vecchi, Figli è un lungometraggio dal taglio più sociologico che psicologico. Certo, fanno ridere alcune battute dei litigi uomo-donna, lei che arriva sempre prima, lui sempre dopo, e per giustificarsi dice: “Mi hanno visto tutti che ho caricato la lavastoviglie”. La loro organizzazione è comunque ferrea, la giornata è una negoziazione di tempo e denaro continua: la coppia è il catalizzatore delle follie del sistema.
C’è chi si separa, chi si prende una boccata d’aria con un amante, Sara e Nicola lo sanno e ci pensano. Eppure, quando possono, loro stanno bene insieme. E così continuano a dirsi: ce la faremo. Resistono e restano, si ripetono il loro mantra, accettazione, comunicazione, comunità. Ogni tanto funziona: in un fast food a norma le polpette sono squisite.
In Troppi paradisi, uscito nel 2006, Walter Siti affermava: “Sono l’Occidente perché
detesto i bambini e il futuro non mi interessa”. Anche questa una profezia che si autoavvera?