Guerre di segni / Piccola semantica della sardina
Al mercato di via Drapperie, a Bologna, l’altro pomeriggio le sarde si vendevano tre euro al chilo. In più di una pescheria, il prezzo era uguale a sempre, nessuna variazione significativa. Eppure proprio là accanto, nell’immensa piazza Maggiore, soltanto due giorni prima sedicimila e passa sardine l’avevano fatta da protagonista, strette strette, non solo producendo un risultato insperato contro l’aggressività delle destre, della lega e del sovranismo populista, ma inventando una nuova forma d’espressione politica: un flash mob ironico in nome di una figura del mondo – la sarda, appunto – non particolarmente eroica né in alcun modo prestante. Una figura che – sulla base al noto meccanismo mediatico del contagio che, accadendo, non cessa di stupire in primo luogo chi lo ha provocato – in pochissimo tempo ha spopolato nelle piazze di mezza Italia e, sembra, non soltanto. Tutti le vogliono, tutti pretendono di esserlo: con grandi entusiasmi e tanta, tanta incertezza per l’immediato futuro.
Sulla valenza politica del fenomeno, perché di questo si tratta, s’è già detto abbastanza: in un’arena politica dominata da continue ondate di populismo che usano la rete, i social e gli smartphone come strumenti di lotta e di governo, un gesto che parte del basso, dai giovani, dalla strada, non può che essere considerato come azione innovatrice, foriera di chissà cosa ma già, comunque, interessante di per sé. In più, non è mancato chi, sbagliando animale, ha provato a cavalcare la tigre, con la solita illusoria speranza di acchiappare qualche voto in più alle prossime – preoccupantissime per tutti – elezioni regionali. Dovrebbe già far riflettere il fatto che le sardine, qualunque potrà essere il loro programma politico, sono una forza movimentista al quadrato: sono l’antipolitica dell’antipolitica – sia per quel che riguarda i contenuti dei loro primi discorsi (“innanzitutto, no a Salvini”) sia per quel che riguarda i loro modi di esprimersi (esibizioni di disegnini, cartelloni a forma di pesce, qualche slogan). La città si è opposta alla rete dei social: e in un Paese come l’Italia, dove le piazze hanno fatto gran parte della sua storia, non è poco.
Proviamo a considerare la cosa da un altro punto di vista, quello dei segni e della comunicazione, che non sono puro strumento di contenuti validi di per sé, né estetizzazione di azioni politiche comunque esistenti, poiché costituiscono, oggi più che mai, il motore stesso d’ogni discorso politico, il suo scheletro e la sua polpa. Non è la prima volta, difatti, che un qualche segno si sia fatto attrattore di forze politiche tanto confuse quanto potenti. I gilet gialli francesi ne sono un esempio recente. In Italia, poi, molta guerriglia politica è stata spesso condotta in nome dei simboli. Quando Occhetto propose la quercia, pianta secolare e possente, Prodi rispose con l’ulivo, albero altrettanto antico e forte, ma che, a differenza dell’altro, fa i frutti. Oppure, quando qualche anno fa l’arena politica si è infiammata in nome dei mezzi di trasporto – auto blu, camper, aerei da turismo, treni, biciclette, crawl nello Stretto… –, Bersani si propose come benzinaio, sottintendendo che l’energia per muoversi, a molte di quelle macchine, poteva dispensarla solo lui. Non gli è andata bene, ma l’idea era buona. Del resto, che la nostra vita politica sia ridotta a un bestiario (in tutti i sensi del termine, par di capire) è già stato ricordato proprio in occasione del sardinismo crescente. E non è mancato il parere dell’etologo, a spiegarci come mai questi animaletti così piccoli sanno agire all’unisono.
Ora, chi di segno ferisce, di segno può anche perire. Se non sta attento. Un po’ di semiotica potrebbe salvargli la vita (politica), ridando fiato agli elettori in attesa di capire cosa fare da qui a poco nell’urna, desiderosi di un segno, appunto, cui affidare, se non il futuro, quanto meno la speranza in esso. Bisognerebbe riflettere un po’, per esempio, sul fatto che quando una figura si fa segno, quando un qualsiasi elemento del nostro immaginario viene usato come simbolo d’altro da sé, scatta un meccanismo ricorrente. Da una parte, della figura si selezionano alcuni precisi tratti semantici: della sardina, dunque, il fatto di muoversi in branchi molto fitti (“siamo tantissimi!”) e di essere pescabile (“non abbocchiamo”). Tratti che diventano pertinenti nel discorso in cui quel simbolo sta circolando. Nello stesso tempo, però, altri tratti presenti nella figura, ossia nel nostro immaginario, vengono per così dire narcotizzati, messi tra parentesi; ma sono comunque sempre lì, virtualmente, pronti a essere utilizzati. Sia per confermare il simbolo, sia per contrastarlo. Evocando se necessario altre figure a supporto. Ne viene fuori una guerra di segni da combattere con le armi sottili della semantica. Ed è sulla riserva di significati della sardina che bisogna, nello specifico, lavorare.
Così, le testeduovo di Salvini ci hanno provato subito: le sardine vengono mangiate dai gatti, oppure dai pinguini. Peccato che la figura del gattino sia il meme più ricorrente in internet da svariati anni, ed assunto a furor di popolo come simbolo della dolcezza casalinga (“cariiiino”): mettergli una sardina in bocca lo inselvaggisce. Per non parlare dei pinguini, la cui proverbiale eleganza contrasta nettamente con chi ha a lungo usato le felpe e le signorine in tanga (ancor prima la canottiera) come strumento di lotta politica.
Restano aperte altre strade, e chi le vedrà resisterà. Qualcuno ha per esempio sussurrato (ma poteva dirlo più forte) che le sardine sono un cibo salutare, ricco di proteine e comunque economico. Saporitamente povero. Qualche timido cuoco s’è fatto avanti proponendo nuovi piatti con le sarde nel menu del suo ristorante. Ne aspettiamo di altri, magari stellati. Peccato che a Bologna, sembra, la sarda non faccia parte delle tradizioni gastronomiche locali. Si usa in Romagna (impanate e impilate), molto in Veneto (sarde in saor), moltissimo in Sicilia (pasta con le sarde, sardine a beccafico). Dalla gastronomia, insomma, può venire tanto di politicamente interessante; e, viceversa, dallo scontro politico potrà giovarsene la cucina, sempre in cerca di invenzioni che divengano tradizioni.
Come al solito, non è mancata l’anima bella che ha voluto porre la questione in termini di freschezza, di genuinità, di slancio giovanile, di immediatezza insomma, nel senso letterale di assenza di mediazioni. La sardina non conta, abbiamo sentito dire, è un’immagine come un’altra: quel che conta è chi c’era nelle piazze e come saprà usare il successo politico che ha avuto. Peccato che quel successo politico non è altro che un capitale simbolico, da articolare, strutturare, mediare. E utilizzare alla bisogna: capendo bene chi mandare a farsi friggere.