Antonio Calabrò, Palermo, la guerra di mafia nei primi anni Ottanta / Digerire i morti

30 Marzo 2016

“Fatica, Palermo, a digerire i suoi morti”. Ecco, a pagina 62, il senso di questo nuovo libro di Antonio Calabrò (I mille morti di Palermo, Mondadori, pp. 256, € 18,50) dedicato alla spietata guerra di mafia che insanguinò le strade della città e le menti dei cittadini nei primi anni Ottanta. Periodo in cui, con strategia tanto lucida quanto spietata, i cosiddetti Corleonesi guidati da Totò Riina e Bernardo Provenzano presero il potere a Palermo e dintorni, sterminando i principali esponenti delle cosche rivali e chiunque, con loro, li ostacolasse nel cammino di acquisizione della leadership criminale sul territorio. Un periodo denso, allucinante, cupo, che ha radici antiche e strascichi lunghi, su cui Calabrò – cronista del quotidiano “L’Ora” all’epoca – si sofferma con dovizia di particolari, ricostruendo strategie globali e piccole tattiche individuali, storie di vita vissuta, retrofondali politici e spettri economici.

 

Antonio Calabrò, I mille morti di Palermo

 

A un certo punto, nel libro, ci si perde, tanto complesso è il groviglio di assassinii e vendette, tradimenti e delazioni, astuti pentimenti e patetiche levate d’orgoglio, spie e controspie. I protagonisti sono pochi, i soliti noti; ma le comparse moltissime, e non sempre dalla stessa parte. L’autore tiene botta, lucido e preciso, ma la narrazione fa fatica a metter ordine, delineando un gioco delle parti che, se non ci fosse dietro tanto sangue e tanto dolore, potrebbe far pensare a un Pirandello minore. Dicendo di spietati boss di quartiere che fanno i playboy fra auto di lusso e belle donne, padrini spiantati, cadaveri dati in pasto ai maiali, sventagliate in kalashnikov in pubblica piazza, bambini sciolti nell’acido e altre piacevolezze, il rischio era quello di cadere nel folklore, in quell’esotismo di risulta con cui i media troppo spesso liquidano la questione della mafia e – ahimè – dell’antimafia. Non accade qui, per fortuna, se pure la ciccia non mancasse: si tratta di un libro che fa il punto, e bene. Resterà.

 

Sì, ma che cosa significa, più precisamente, “digerire”? cosa vuol dire che Palermo fa fatica a digerire i suoi morti? La digestione, si sa, è fenomeno ambivalente: da un lato produce la merda, tanto per capirsi; dall’altro dà materia ed energia, ovvero la vita. È forse in entrambi i sensi, fuor di retorica, che va inteso qui questo verbo: Palermo fa fatica a ripensare come residuo fecale (diciamola così) la sua ancestrale, schifosa passione per la criminalità organizzata: rabbiosa, violenta, bestiale; e al tempo stesso non riesce a uscirne fuori, non sa trasformare i suoi traumi profondi in cicatrici fattive.

 

Quel che manca a Palermo, in altri termini, è la memoria, o meglio il suo teatro funzionale, quell’ars memorativa che fa del ricordo una prospettiva non banalmente orientata al passato ma, probabilmente, a un futuro tutto da costruire. Ricordare, se ben fatto, è progetto d’azione, elaborazione di strategie di risposta, intervento. Per questo ha bisogno di strumenti adeguati, quelli che uno storico come Krzysztof Pomian chiamava semiofori, e cioè documenti e monumenti, segni nel territorio, sfregi ben in vista.

 

Il libro di Antonio Calabrò si chiude con un omaggio a Leonardo Sciascia, che al culto della memoria aveva dedicato gran parte della sua vita e della sua opera (“se la memoria ha un futuro”, recitava però, derelitto, il sottotitolo del suo ultimo libro) e che di mafia aveva magistralmente narrato non senza vagoni di illuministica perplessità. E si apre con una mappa della città e dei suoi dintorni, dove vengono indicati i luoghi di alcuni fra i più eclatanti eccidi mafiosi: là dove hanno perso la vita, fra i moltissimi altri, Ninni Cassarà, Cesare Terranova, Boris Giuliano, Piersanti Mattarella o Carlo Alberto Dalla Chiesa. In ognuno di quei luoghi c’è una lapide funeraria, così come in parecchi altri anfratti della città. Al punto che, per macabro paradosso, alle lapidi nessuno fa più caso. Nate per segnalare l’eccezionale gravità d’un evento, spariscono nel mucchio di consimili, in quella specie di cimitero diffuso che è lo spazio urbano locale. Troppi ricordi, nessun ricordo.

Ben venga allora una cosa come NoMa, che non è il noto, chicchissimo ristorante danese per gastronomi impenitenti, ma un’operazione ipermeritoria portata avanti dall’associazione “sulle nostre gambe”, che ha realizzato una app per smartphone dove sta schedando tutti gli eccidi mafiosi avvenuti a Palermo e dintorni negli ultimi decenni: indicando luoghi, personaggi, storie, ragioni e passioni di questa città dell’altro mondo anche troppo agonizzante di mafia. Coinvolgendo testimonial d’eccezione come Pif, Ficarra e Picone, Pippo Baudo, Paolo Briguglia, Donatella Finocchiaro, Giuseppe Fiorello, Nino Frassica, Leo Gullotta, Luigi Lo Cascio, Teresa Mannino, Isabella Ragonese, Giuseppe Tornatore, l’obiettivo è quello di costruire una mappa parlante, con annessa geolocalizzazione, e cioè una specie di teatro della memoria 2.0. Scaricatela e tenetela attiva, se passate da Palermo. Trillerà spesso.

 

Si dirà: una trovata pubblicitaria da star televisive. Sì, certo, e allora? L’alternativa, ripetiamolo, è il folklore mediatico, l’antimafia da piagnisteo un tot al chilo, a tutto vantaggio di telecamere porno per un marketing giornalistico che, sconfinando nel trash, attira folle di curiosi e turisti a luci rosso sangue. È cioè, per capirsi, quel che fa da anni il signor Angelo Provenzano, corleonese doc, che ha ripudiato – e ci mancherebbe – quel simpaticone del padre Bernardo, in qualche modo perpetuandone, però, la fama. Per conto di un’agenzia di Boston fa infatti la guida turistica al suo paese, accompagnando i voyeur del Midwest statunitense per le viuzze di una borgata che Mario Puzo e Francis Ford Coppola hanno reso famosa nel mondo intero, e che i mille morti di Palermo ha generato, pur indugiando, sonnacchiosa, nel buco del culo del mondo.

 

Le tragedie, si sa, quando ritornano diventano farsa.

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