Food e Fotografia al Mast / A Bologna il cibo dà da pensare

3 Novembre 2021

A Bologna, la V Biennale di fotografia dell’industria e del lavoro è dedicata quest’anno al cibo o, per essere più precisi, all’industria e alla cultura alimentare. Anziché mostrarci piatti fotogenici che sollecitano illusoriamente il palato e lustrano gli occhi, ha scelto infatti di concentrarsi su come il nutrimento di più di 7 miliardi di persone che vivono sulla terra sia divenuto un problema e una sfida scientifico-tecnologica che tocca questioni complesse, ma anche imprescindibili aspetti culturali e politici. «Il cibo è un fondamentale indicatore per analizzare e comprendere intere civiltà. Le modalità attraverso cui gli alimenti vengono prodotti, distribuiti (venduti e acquistati) e consumati, ovvero i meccanismi alle spalle di questi tre passaggi cruciali, sono in costante cambiamento e racchiudono pertanto alcuni caratteri distintivi di un’epoca, un periodo storico o un ambito culturale e sociale» – sottolinea il curatore Francesco Zanot nel catalogo, arricchito con tanto di ricette in stile futurista (a cura dello chef e scrittore Tommaso Melilli), che accompagna le ben undici grandi mostre promosse e organizzate dalla Fondazione Mast, importante centro di ricerca e promozione sulla fotografia industriale, unico al mondo. Mostre che dallo stesso Mast – situato in uno splendido edificio progettato nel 2005 dallo studio Labics di Roma – si prolungano in pregevoli e antichi palazzi di Bologna che già da soli meriterebbero una visita di almeno una giornata. 


Gli obbiettivi che si è dato il curatore per creare questa biennale sono stati giustamente ambiziosi e, verrebbe da dire, quasi titanici: mantenere la barra dritta sul tema complesso della “questione alimentare” con le sue problematiche annesse e connesse,  e contemporaneamente dare conto dei cambiamenti del linguaggio fotografico dagli anni Venti a oggi, puntando su autori di alto livello con lavori possibilmente non già visti e stravisti, nonché scegliere spazi e creare allestimenti capaci di tessere un dialogo con le opere esposte. Un lavoro non da poco che Francesco Zanot (coadiuvato da Francesco Librizzi per gli allestimenti) ha saputo gestire in modo egregio, seppur con qualche lavoro – sempre comunque di alta qualità – a volte un po’ laterale rispetto alla complessità storica e scientifica, politica ed economica del tema. Le imprese titaniche possono infatti riuscire bene ai titani, ma agli umani solo in parte (a merito di Zanot, va però detto che ci è quasi riuscito). Faccio qualche esempio per riflettere assieme. Per la Collezione di Zoologia del Sistema Museale di Ateneo – Università di Bologna, è stato realizzato da Maurizio Montagna, appositamente per questa Biennale, il lavoro Fisheye, dedicato alla pesca con la mosca nel fiume Sesia.

 

Henk Wildschut, Wakker dier, Amsterdam march, 2012.


Giocando su tre registri visivi Montagna propone una serie di immagini, in una delle quali, piazzato nel centro del fiume, assume il punto di vista di un pesce in volo a pelo d’acqua; mentre in un’altra espone, in piccoli lightbox, una serie di esche con piumette tipiche della tradizionale pesca della Valsesia; e in un’altra ancora, con approccio documentario, indaga come sia cambiato il territorio attorno al fiume, con strade, chiuse, centrali elettriche… Certo, il suo lavoro si inserisce perfettamente nel contesto di questo importante museo con i suoi numerosi animali impagliati. E certamente tale ricerca evidenzia che il fiume Sesia, così come molti altri in Italia, ha perso parte della sua salubrità e soprattutto della sua portata d’acqua (tra scioglimento dei ghiacciai, dighe e usi irrigui). Ma ci sembra un esempio un po’ debole da un punto di vista naturalistico ed etnografico, soprattutto rispetto a una crisi climatica e a un bisogno d’acqua che sta minacciando l’ambiente e le capacità dei sistemi agricoli a livello mondiale. Insomma in questo caso, alla scelta di un tema “forte”, ci pare prevalere il bisogno di esporre una ricerca in sintonia con lo spazio che lo ospita. Abbastanza simile è il caso della mostra al MAMbo – Museo d’Arte Moderna di Bologna, ex panificio comunale sorto nel 1915 per assolvere alle difficoltà di approvvigionamento durante la Prima guerra mondiale.


Lì, dove sono ospitate molte opere del pittore bolognese Giorgio Morandi, si è scelto di proporre un’ampia e ragionata retrospettiva dell’artista americana Jan Groover (1943-2012), celebre per le sue straordinarie nature morte sia a colori sia con preziose e complesse stampe al platino palladio. Una mostra antologica meritatissima per un’autrice ancora poco conosciuta, forse perché lontana dal main stream delle autrici femministe anni ’70, la cui rivalutazione sta andando per la maggiore in questi anni. Ex pittrice, “nutrita” dalle opere di Cézanne e Morandi, nonché vicina al minimalismo, l’autrice ha incentrato la sua ricerca su varie tecniche fotografiche artigianali per creare le sue immagini e soprattutto s’è impegnata a indagare e rinnovare, con composizioni accuratissime e molteplici, l’universo della natura morta. Qui, centrale appare la serie Kitchen Still Lives (1977-1980), titolo un po’ ironico per immagini, tutte realizzate nella sua cucina, dove al posto dei nobili e classici oggetti delle nature morte, i protagonisti indiscussi sono coltelli, forchette, fruste, piatti e bicchieri che sbucano tra grovigli di verzure o s’intrecciano su tavoli o lavelli in un disordine visivo ben studiato. 

 

 

Ando Gilardi, Mondine al lavoro sulla pulitura dal mallo.

 

Per trovare opere che centrano perfettamente il tema in modo stimolante ci si può spingere fino al MAST, dove tiene banco una grande mostra di Ando Gilardi, autore dell’imprescindibile Storia sociale della fotografia (Bruno Mondadori, 2000), poi divenuto una sorta di guru capace di riflettere in modo spiazzante e divertito sugli usi e abusi della fotografia contemporanea. Negli anni ’50 è stato infatti un fotografo di forte impegno sociale e politico per la rivista della Cgil “Il Lavoro”. Con un piglio decisamente post-neorealista e documentario racconta la fatica nei campi di un esercito di donne che raccoglievano noci, olive, zucche e uva (circa 15.000 solo per raccogliere l’uva da tavola Regina) nonché le misere condizioni di vita di molti lavoratori, il tutto accompagnato non da semplici didascalie, ma da ragionate e puntigliose descrizioni. Un esempio relativo a un’immagine: «Le lavoratrici olearie calabresi provenienti da lontano, durante i tre o quattro mesi del raccolto, vengono ospitate in baracche di legno nell’oliveto, senza servizi igienici, fornelli, acqua; qui si lavano presso i bidoni posti vicino alla strada, l’acqua è rinnovata ogni settimana. Italia. Gioia Tauro (Reggio Calabria), novembre 1957». Come non pensare che ora gli “ultimi” non sono più solo le donne (per quanto ad alcune tocchi ancora tale faticoso lavoro stagionale), ma soprattutto gli immigrati, molti dei quali, magari proprio nei luoghi fotografati da Gilardi, vivono e lavorano in condizioni analoghe se non peggiori? 


Che la produzione del cibo sia oggi soprattutto basata su inquietanti allevamenti intensivi e sperimentazioni ipertecnologiche ce lo raccontano i lavori di Mishka Henner e di Henk Wildschut. Il primo, con la serie Feedlots, da casa, senza muovere un passo, grazie alle riprese satellitari di Google Earth e a un programma capace di assemblare centinaia di immagini ad alta risoluzione, propone nitide, inquietanti e affascinanti immagini zenitali, simili a rigorose composizioni astratte alla Mondrian. Ma ciò che mostrano in realtà tali seducenti raffigurazioni è qualcosa di decisamente meno accattivante: tali geometrie, accostate ad aree dai colori quasi psichedelici, mostrano infatti allevamenti intensivi americani dai recinti composti in modo rigoroso e punteggiati da bovini destinati alle nostre tavole, nonché informi aree invase da liquami neutralizzati da composti chimici con assurdi colori. La sua è una investigazione quasi scientifica sulle nuove città-mangiatoia (in una di queste – racconta lo stesso autore – sono “ospitati” più di 60.000 capi di bestiame!) con animali costretti a crescere a ritmo record: 12-18 mesi al posto dei tradizionali 4-5 anni. Certo, ormai come si mangia è divenuto un atto di responsabilità politica. Tutti gli attivisti ambientali ci ricordano che dovremmo evitare la carne e mangiare stagionali frutti della terra, possibilmente cresciuti vicino a dove viviamo.

 

Mishka Henner, Feedlots coronado feeders dalhart, Texas.


Già, ma se la gente continua a mangiare carne nonostante ogni raccomandazione, è meglio dargliene una ottenuta in fretta e che quindi inquina meno l’aria e la terra, oppure una che rispetta gli animali e i ritmi della natura ma inquina di più? Che le soluzioni non siano semplici e che quel che appare non corrisponda sempre a quel che è nella realtà lo dimostra anche il puntuale e documentato lavoro Food, del fotografo olandese Henk Wildschut: un’esplorazione a 360 gradi sull’avanzato sistema dell’industria alimentare del suo paese dal punto di vista dell’innovazione e della ricerca tecnologica (suggeriamo caldamente di consultare il pieghevole gratuito che, con testi molto chiari, spiega ogni immagine). Un universo dove tutto ha un aspetto decisamente più scientifico che organico. Gli allevamenti paiono degli ospedali chiusi all’esterno perché non ci si spaventi di fronte al loro aspetto innaturale e i lavoratori si muovono come infermieri intabarrati in tute sterili.

 

Come spiega l’autore stesso (che aveva iniziato questo lavoro pieno di preconcetti da lui poi progressivamente dismessi): «Normative come quelle contenute nelle nuove leggi sull’uso degli antibiotici obbligano gli allevatori di polli e maiali a fare tutto il possibile per prevenire l’insorgere di infezioni, cosicché questi animali risultano buoni quanto più vengono ermeticamente isolati dal mondo esterno. Ciò non serve a nascondersi dai consumatori, ma a soddisfare il loro bisogno di un cibo che sia allo stesso tempo poco costoso e sano» (in quanto con carni prive di antibiotici, dannose per la salute dei consumatori). Ma che dire di fronte all’immagine di un mostruosetto “pulcinone” grande come un pollo? Sono stati definiti polli “plof”, ovvero “sul punto di scoppiare”. E un’associazione animalista ha iniziato una campagna contro questa pratica di gonfiaggio rapido. Il guaio, se così si può dire, è che tale pulcino-pollo cresce in 6 settimane e consuma solo 3,7 chili di cibo, mentre quello biologico impiega 10 settimane e si fa fuori ben 6,5 chili di mangime. In sintesi il “mostriciattolo” consuma e inquina meno. Sulla triste qualità della sua breve esistenza all’ingrasso non si possono avere dubbi, ma che dire del gusto della sua carne? Incuriosito, lo stesso autore racconta di aver condotto un esperimento casalingo: ha dato in pasto ai suoi famigliari una bella fettina di pollo biologico e una dell’animale “mutante”, chiedendo loro quale trovavano migliore. Sorpresa! Hanno tutti preferito il “pulcinone”, convintissimi di aver scelto il vero pollo biologico. In sintesi la produzione del cibo sta divenendo sempre più un argomento molto complesso e contraddittorio, che non può essere affrontato in termini di bianco e nero, giusto e sbagliato, ma bilanciando con attenzione i pro e i contro, dato che sono in gioco aspetti nutrizionali, ambientali, economici e pure morali. 

 

Takashi Homma, Hawaii.


Senz’altro più rassicurante – si fa per dire – è il lavoro del giapponese Takashi Homma che, girando per il mondo, ha fotografato gli edifici, simili ma non del tutto uguali, del colosso americano Mc Donald’s, simbolo imprescindibile di una globalizzazione anche alimentare. «Non-luoghi per eccellenza, questi spazi offrono una duplice esperienza, che passa inevitabilmente anche attraverso la standardizzazione del cibo offerto: c’è il conforto della riconoscibilità, ma anche il disagio che viene dalla sensazione di spostarsi per restare fermi nello stesso posto» – scrive con chiarezza Zanot nel catalogo. Un lavoro, questo di Homma, accostato anche a una sua ricerca sulle tracce di sangue, simili a pennellate di uno stravagante calligrafo giapponese, lasciate nella neve dai cacciatori di cervi nell’isola di Hokkaido. Lavori entrambi che si coniugano alla perfezione con l’edificio che li ospita, ovvero il bellissimo Padiglione dell’Esprit Nouveau, replica perfetta di quello progettato da Le Courbusier e Pierre Jeanneret.

 

Per avere un tocco di ottimismo vale la pena puntare sulla mostra multidisciplinare della artista-attivista palestinese Vivien Sansour che, con coraggio e tenacia, raccoglie e promuove antiche varietà di semi locali attraverso il coinvolgimento attivo dei cittadini e delle istituzioni; oppure entrare nel mondo ipercolorato del giovane “superemergente” Lorenzo Vitturi. Con il progetto Money Must Be Made, l’autore ci immerge nell’affollato e gigantesco mercato di Balogun (Lagos) che ha per così dire inghiottito con il suo vigore dirompente l’enorme edificio, ormai abbandonato alla sabbia del Sahara, di quello che avrebbe dovuto essere la Financial Trust House della capitale nigeriana. Con un approccio innovativo e in perfetta sintonia con l’esuberanza di questo mercato, Vitturi accosta ritratti di uomini e donne carichi di una gran quantità di oggetti sulla testa, intricati e coloratissimi still life di oggetti e zucche che compone a partire da quel che aveva trovato a Balagun, più tipici tessuti Aso-oke su cui ha fatto scrivere, da un calligrafo locale, brevi frasi raccolte e ascoltate dalla gente del posto; più, ancora, immagini di oggetti semisepolti nella polvere grigiastra che soffia dal deserto dentro gli uffici abbandonati e sventrati di quelle che dovevano essere banche e aziende internazionali. Nel suo caso la fotografia è un melting pot, una sorta di organismo vivente in evoluzione dove si miscelano stoffe, fotografie scattate sul posto e oggetti trovati e poi ricomposti in modo folle e bizzarro, sempre graficamente perfetto.  

 

Bernard Plossu, Parigi, Francia.


Per non dimenticare nessun autore, facciamo qualche passo indietro nel tempo con le fotografie potenti scattate da Herbert List, nel 1951, nella tonnara trapanese di Favignana. Abbandonati gli estetismi quasi apollinei che hanno contraddistinto le sue elegantissime immagini, spesso dedicate o ispirate al mondo classico, qui, forse anche perché stava iniziando a collaborare con l’agenzia Magnum, ci regala un reportage forte, con un bianco e nero pastoso e denso come il sangue che ribolle nella cosiddetta “camera della morte”. Più lirico è invece il lavoro di Bernard Plossu, poeta della quotidianità e fotografo viaggiatore capace di unire documentazione ed emozione. Frutto di una selezione nel suo sterminato archivio di scatti spontanei fatti un po’ ovunque, la sua mostra è una sorta di giro del mondo tra ristoranti, silos, tome di formaggio, riarsi campetti di mais degli indiani Hopi, bambini che addentano panini con foga… E, per finire in bellezza e dolcezza, eccoci alla mostra con le fotografie che lo svizzero Hans Finsler ha scattato negli anni Venti presso la fabbrica di cioccolato e marzapane Most, ospitata nell’ex chiesa di San Giorgio in Poggiale (una meraviglia con un’abside dove si staglia un’opera di Claudio Parmiggiani e pareti con quadri di Piero Pizzi Cannella). Pur se trasformati in nanetti o pennelli, in conigli o maialini, pure in re magi e pupazzi di neve, pere o pulcini, Finsler non si scompone: in perfetto stile modernista, vicino alla Nuova Oggettività, fotografa questi dolcetti trasformisti tutti nello stesso modo catalogico, ovvero sempre appoggiati su una base bianca, secondo un ordine geometrico e ripresi per lo più dall’alto.

 

Le sue immagini, capaci di suggerire un dialogo silenzioso e rispettoso con questi buffi cioccolatini, paiono voler riportare serenità e certezze nell’universo ormai caotico e complesso del nostro rapporto con il cibo e con l’industria alimentare. A volte inquietanti, a volte esuberanti o pacate, le immagini di questa Biennale, più che far venire l’acquolina in bocca, sanno sollevare interrogativi ed evidenziano la pluralità dei linguaggi della fotografia. Un medium capace di rinnovarsi, reinventarsi, senza perdere la capacità di indagare o di spingersi nei territori dell’utopia e della cura, come fa, ad esempio, la palestinese Vivien Sansour. 

 

Biennale FOTO/INDUSTRIA 2021, FOOD, fino al 28 novembre 2021, a Bologna. 

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