Quale Brecht per l'era Renzi?
“Ascoltavo morire / la parola di un poeta o mutarsi / in altra, non per noi più, voce”.
Annotava così Franco Fortini in Traducendo Brecht, lirica scritta a margine dell’intensa attività sui testi del drammaturgo tedesco tra il 1951 e il 1976. L’indagine della lezione brechtiana diviene, fin da subito, interrogazione sulla possibilità che quella parola politica detoni ancora, con uguale forza.
Per chi voglia oggi riproporre sulle scene nostrane il teatro di Brecht la questione si fa, se possibile, ancora più complessa. Perché si deve attraversare, interpretandola, una doppia cortina temporale: quella del contesto socio-politico originario, inestricabilmente connesso alla composizione delle pièce; ma anche quella della connotatissima ricezione italiana. E non è questione da poco: bisogna passare dagli anni caldi della traduzione (e dalla critica) di Fortini e di Cesare Cases, dall’imprinting strehleriano (l’Opera da tre soldi, primo Brecht in Italia, è del 1956), dalle scomode etichette di autore marxista e ideologico. Il fardello è pesante, e non è forse troppo sorprendente che la presenza del drammaturgo nei nostri cartelloni – se confrontata con l’indubbia rilevanza nella storia del teatro europeo – sia relativamente rara (fa eccezione la molto rappresentata Antigone, ma proposta non di rado in riscritture contaminate e pluriautoriali).
Opening Party Brecht, Teatro Franco Parenti
E allora, come mettere in scena Brecht oggi? “Adeguando il suo teatro alle forme comunicative di oggi”, suggeriva Edoardo Sanguineti in un’intervista a “Repubblica” nel 2006. “Rileggiamolo eliminando il residuo di aura che lo avvolge”. Tra quelli che nel nuovo millennio hanno lavorato in questa prospettiva, cercando di non cedere al rischio della museificazione e facendo i conti con quel “residuo di aura”, vale la pena citare almeno Mario Sciaccaluga con Madre Coraggio (2002, protagonista Mariangela Melato), Armando Punzo con I pescecani. Ovvero quello che resta di Bertolt Brecht (2003, Premio Ubu 2004), Claudio Longhi con una bella e fortunata versione de La resistibile ascesa di Arturo Ui (2011), Luca Ronconi con Santa Giovanna dei Macelli (2012), Fabrizio Arcuri con Fatzer (2012).
L'eccezione e la regola
In occasione del sessantesimo dalla morte – come spesso accade – i riflettori si sono riaccesi sul teatro di Brecht. L’Elfo propone in cartellone una regia di Bruni/Frongia (Pùntila e il suo servo Matti) e Damiano Michieletto osa misurarsi con l’Opera da tre soldi proprio al Piccolo Teatro, nella tana del lupo.
Il Teatro Franco Parenti apre invece la stagione con una rassegna di sei opere del drammaturgo tedesco, dal significativo titolo Brecht con altri occhi (dal 12 al 27 settembre): un laboratorio di sperimentazione e di confronto per i registi e, allo stesso tempo, un prezioso terreno di riflessione per gli spettatori su quanto di ancora urticante e quanto di datato possa emergere dal teatro brechtiano. “Non abbiamo creato questo progetto con l’idea di presentare grandi edizioni”, ha raccontato Andrée Ruth Shammah in un’intervista a Radio Popolare (“Cult”, 14 settembre). “L’idea è piuttosto quella di accostare diversi frammenti per comporre un multiforme universo Brecht e per renderlo più accessibile anche ai giovani registi”. Accanto a nomi già più collaudati come quelli di Andrea Baracco (che firma Vita di Edoardo II di Inghilterra), troviamo giovani registi come Fabio Cherstich, Luigi Guainieri o Tiziano Turci.
Vita di Edoardo II, regia di Andrea Baracco
I due spettacoli presentati nella serata di apertura offrono un ottimo esempio di strade antitetiche nell’accostarsi alla sfida. Giuseppe Isgrò – milanese, classe 1980 – ha scelto per il suo studio il primo dramma brechtiano: Baal (1918) è la parabola di un poeta smodato e irresistibile, che travolge e brucia le vite altrui, così come la propria. Scritta dal diciannovenne Brecht, la pièce mostra ancora oggi quello che l’autore stesso (nella nota Rileggendo i miei primi drammi) definisce un violento “spirito di contraddizione”; e aggiunge: “resisto alla tentazione di definirlo ‘giovanile’ giacché spero di averlo conservato intatto”. Nell’osservare questa cupa indagine dell’artista nella società del capitale, nel guardare questo “essere asociale” che si fa strada tra ambizione e umiliazione, tra desiderio di compiacere e la volontà di non lasciarsi sottomettere, è difficile non pensare all’archetipo ante litteram di una rock star.
Isgrò, nel rileggere l’opera, ha operato sul testo un coraggioso adattamento e ha optato per un linguaggio scenico violentemente contemporaneo (con l’aiuto dei cinque bravissimi attori): suoni e voci carichi fino alla saturazione, luci cupe da night club, volti stravolti, estetica espressionista. Il risultato (esplicitamente debitore al Baal di Bowie del 1982) è volutamente sovraccarico e tiene scomodo lo spettatore sulla sedia: tributo a una drammaturgia che tutto deve essere tranne qualcosa di piacevole e inoffensivo.
Baal, regia di Giuseppe Isgrò
Lo spettacolo firmato da Carlo Cerciello, colonna portante nel teatro Elicantropo di Napoli, è La madre, ispirato al romanzo culto di Gor’kij. Si tratta di un dramma della fase brechtiana più esplicitamente dimostrativa, che pone al regista l’annoso problema dello straniamento, eredità teatrale tra le più complesse e sfuggenti (interessanti, a questo proposito, le riflessioni di ampio respiro di Rocco Ronchi in Brecht. Introduzione alla filosofia, che mette in guardia da grossolane semplificazioni ideologiche, e ne propone invece una spiazzante lettura in senso platonico).
In scena, ne La madre, assistiamo al percorso di progressivo affrancamento degli operai russi: i personaggi approdano ad una sempre maggiore consapevolezza politica, che passa anche da un processo di alfabetizzazione (“Affamato, impugna il libro: è come un’arma. / Devi esser tu la guida”). Nella messinscena di Cerciello non manca nulla di quello che ci aspetteremmo: le schiene curve dei lavoratori, i volti lividi, le bandiere rosse, i quadri scenici alla Quarto Stato. L’effetto rischia di essere quello di una commovente fotografia in seppia, di cui percepiamo il valore ma anche la distanza. E così come Brecht apportò continue modifiche modellando i suoi testi all’occasione (per La madre si conservano varianti per la replica a Belino del 1932 e quella a New York nel 1935), non dovremmo oggi noi rendere quella parola poetica una voce in grado di scuotere gli spettatori dell’era Renzi? Non dovremmo sentire la parola brechtiana come un pungolo per guardare con con altri occhi il nostro zarismo 2.0? “Gli oppressi / sono oppressi e tranquilli”, osservava mesto Fortini, “gli oppressori tranquilli / parlano nei telefoni, l’odio è cortese, io stesso / credo di non sapere più di chi è la colpa”.