Una lettera inedita a Giovanni Falaschi / Calvino e la nuova sinistra
Parigi, 4 novembre 72
Caro Falaschi,
già da una decina di giorni ho letto con grande interesse il “ritratto”. Se ancora non le ho scritto è perché volevo dedicargli l’esame approfondito che il carattere filosofico del saggio richiede e finora sono stato sempre senza fiato, per mettere a punto il nuovo libro che uscirà nelle prossime settimane, altri impegni minori con le loro scadenze e il va e vieni tra l’Italia e Parigi.
Mi pare che il Suo sia un saggio metodologico, al di là del tema Calvino, e come tale va letta tutta la prima parte con il rapporto tra opere e situazioni e con la teoria dei “due libri” che mi pare molto fruttuosa e degna d’essere sviluppata e generalizzata.
E non minore impegno metodologico ha tutta l’ultima parte col confronto con la fenomenologia e l’esame in chiave fenomenologica delle Cosmicomiche e T0. Questo discorso mi interessa molto perché è un approccio nuovo che fa risaltare cose che nessun altro aveva visto. Trovo esatto che nelle Cosmicomiche il mondo “altro” non è mai fuori dalla coscienza dell’io: compiendo quella che posso chiamare “l’operazione Qfwfq” questo corrispondeva a un’intenzione precisa in questo senso. Che il prezzo pagato dalla conoscenza sia quello dell’oggettivazione mi pare un’osservazione giusta: cioè in pratica se il risultato è quello non c’è che da prenderne atto, e così delle implicazioni irrazionalistiche che Lei vede come mio rischio. Ma dato che al Montecristo Lei dà l’ultima parola, come faccio anch’io, che considero ancora quel testo il mio “testamento gnoseologico”, non posso che essere contento.
Quanto alla data del Montecristo, che assume nel Suo discorso una particolare importanza, è 1967, estate 1967, cioè è l’ultimo racconto che ho scritto prima di dare il libro alle stampe. Ma che il “sistema” avesse dato già segni di crisi, conta forse meno del fatto che io ho sempre avuto forti riserve sulla teorizzazione (francofortese-americana) del neocapitalismo come sistema totalitario. Con tutto l’interesse che anch’io ho avuto per questo capovolgimento delle parti nell’ideologia rivoluzionaria degli ultimi anni, credo d’essere rimasto con l’impronta della vecchia vulgata marxista delle “contraddizioni insanabili del capitalismo” e dell’“anarchia capitalista”. A una vocazione razionalistica del capitalismo (che porta come corollario la vocazione capitalistica del razionalismo) non ho mai voluto credere, cioè non ho mai voluto rinunciare alla posizione di forza che ci faceva dire una volta (forse a torto): i soli razionalisti siamo noi. È questo il nodo ideologico fondamentale che mi ha tenuto lontano dalla teorizzazione di quella che sarebbe diventata la “nuova sinistra”, fin dalle origini, agli inizi degli Anni Sessanta (origini che seguivo si può dire giorno per giorno lavorando in casa editrice con Raniero Panzieri, con Renato Solmi, Fortini, Cases). Dal non poter contrapporre al loro discorso un mio discorso altrettanto rigoroso e mordente nasce in fondo il mio silenzio sul piano delle affermazioni teoriche, che dura ormai da una decina d’anni e forse resterà definitivo (dopo un ultimo tentativo di sistemazione col saggio L’antitesi operaia che fu tanto sfottuto dai miei amici). Oggi che il fallimento della “nuova sinistra” è scontato, meno che mai ho voglia di venire a dire: avevo ragione io, dato che sono sconfitto come tutti gli altri.
Ma mi è chiaro più di prima che immaginare il mondo come “sistema”, sistema negativo, ostile (sintomo caratteristico della schizofrenia) impedisce ogni opposizione ad esso se non nel raptus irrazionale autodistruttivo; mentre è giusto principio di metodo negare che ciò che si combatte possa essere sistema, per distinguerne le componenti, le contraddizioni, le brecce, e batterlo pezzo a pezzo. Mi rendo conto che il discorso che sto facendo ora sembra tutto il contrario di quello del Montecristo. E invece no: il Montecristo nasce in questo contesto, vuole indicare il modo giusto in cui il sistema assoluto, la prigione perfetta va ipotizzata proprio per dimostrare che la prigione reale non è perfetta: cioè il modello di sistema totalitario, astratto e l’empiria delle verifiche dell’Abate Faria devono operare contemporaneamente, il sistema deduttivo ha continuamente bisogno dell’esperimento induttivo che lo confermi o lo smentisca. Tenendo presente che i modelli del mondo d’un rigoroso determinismo (Darwin, Marx, Freud, Lévi-Strauss) hanno sempre operato in senso liberatore, allora ecco che accetto e adopero il modello del mondo neocapitalistico come “sistema” per poterlo smontare e comporre. È anche il problema dell’utopia (Fourier)3 dell’utopia negativa, cui accenno una risposta nel mio nuovo libro. È un nodo di problemi ancora aperti e in sviluppo, che non riesco a esprimere se non in forma molto indiretta e figurata (con lo svantaggio che le letture che mi servono come la Sua sono più uniche che rare, ma anche col vantaggio di evitare d’essere letto in chiave di semplificazioni banalizzanti).
Per tutte queste ragioni sono contento che Lei privilegi la fase cosmicomica del mio lavoro. E in fondo il saggio avrebbe avuto il suo taglio perfetto se fosse stato centrato su quei due libri, anziché dover rispondere alla commissione del “ritratto”. Vero è che lei bene si rifà ponendo l’esigenza del ritratto in termini problematici. Ma certo sugli scritti Fine-Anni-Quaranta già lei aveva detto più di quanto si potesse dire, e quanto agli Anni Cinquanta, restano necessariamente un po’ sacrificati, e si vale in misura minore delle esplorazioni nel materiale giornalistico (che però forse non riserva molto di più di quel che Lei ha già trovato), cioè di questa che è finora la Sua riserva di caccia esclusiva.
Comunque mi pare che le linee generali del suo disegno siano giuste anche per gli Anni Cinquanta. E sono d’accordo che I nostri antenati non sono un libro: sono tre libri molto diversi tra loro, nati ognuno per suo conto, e che richiedono ognuno un discorso diverso. E se a posteriori ho affiancato ai volumi singoli la trilogia in un volume, è perché la mia opera è tanto sparpagliata che appena trovo qualche affinità che mi dia il pretesto d’unificare testi diversi non mi lascio scappare l’occasione. E mi piace anche l’osservazione che le Fiabe italiane aprono il mio “periodo scientifico”.
Osservazioni particolari: la monaca cronista del Cavaliere mentre scrivevo era solo come Lei dice bene un’oggettivazione della mia azione di scrivere (e fatica) e non pensavo ancora di identificare il mio io scrivente con Bradamante. Questa trovata mi è venuta solo alla fine, al momento di risolvere il finale, e ora con un argomento convincente Guido Almansi ha dimostrato nel suo saggio su Paragone che è una sovrapposizione appiccicata e arbitraria. (Bradamante non poteva descrivere le proprie nudità come nel cap. V: è vero; non c’è niente da dire; il rapporto che per tutto il libro ho verso quel personaggio – un rapporto d’innamoramento reale, oltretutto – esclude un’identificazione con l’io scrivente; devo ammettere che una trovata momentanea m’ha preso la mano.)
A p. 535 del Suo saggio trovo citati come scrittori del dopoguerra “F. Calamandrei e Bertoli”. Calamandrei non ha mai scritto narrativa, che io sappia: devo averLe fatto il suo nome come autore d’un articolo del Politecnico settimanale “Narrativa vince cronaca” che Le citavo come una specie di compendio della poetica di Politecnico. Bertoli invece non l’ho mai sentito nominare.
Ho molto apprezzato il suo programma di verifica scolastica di Conversazione in Sicilia. Ho copiato quel brano della Sua lettera e l’ho distribuito ai colleghi dell’Einaudi come esempio d’un metodo di lavoro serio.
Napoli a occhio nudo di Fucini: già Romagnoli (proprio quella sera che si andò insieme da lui) me l’aveva consigliato (e prestato il testo). L’ho trovato molto impressionante, certo degno d’essere ripubblicato, ma subito in casa editrice ho appreso dell’ostacolo Trevisini.
Avrò da fare qualche scappata a Firenze ogni tanto per parlare con l’architetto che mi costruisce la casa a Castiglione della Pescaia. Se tra un treno e l’altro avrò un po’ di respiro Le telefonerò.
A Lei e Sua moglie, con amicizia
Suo Italo Calvino
Calvino intellettuale politico
di Marco Belpoliti
L’interesse della lettera di Italo Calvino, tra le molte cose che racconta e spiega, è data dalle affermazioni che lo scrittore fa in quell’anno, il 1972, circa la politica vista dal punto di vista teorico. Esordisce spiegando le sue riserve verso la visione della Scuola di Francoforte sul neocapitalismo come sistema totalitario; confessa di essere rimasto alla lettura maxiana delle “contraddizioni insanabili del capitalismo” e dell’“anarchia capitalista”, così come non ha mai creduto alla vocazione razionalistica del capitalismo stesso; la convinzione da cui muove è che “i razionalisti siamo noi”. Sono tutti temi che ritroveremo pochi anni dopo, tra il 1973-75, nella polemica con Pasolini e le sue lucciole. Quello del razionalismo, o illuminismo, per dirla in altro modo, è la questione che l’ha poi tenuto lontano dalle posizioni della “nuova sinistra” che ha visto nascere a Torino nelle stanze della stessa casa Einaudi con Raniero Panzieri, Renato Solmi, Franco Fortini e Cesare Cases; da questo gruppo di intellettuali nascerà l’esperienza di “Quaderni piacentini” e prima ancora quella dei “Quaderni rossi”, da cui, a loro volta, figlierà una parte dell’estrema sinistra, che darà vita ai movimenti politici della fine degli anni Settanta e Ottanta, tra cui l’Autonomia operaia di Toni Negri.
In quel 1972 Calvino sottolinea con decisione il fallimento della “nuova sinistra”. Coglie anche un nodo psicologico, oltre che teorico, quando scrive che immaginare il mondo come “sistema negativo” significa impedire ogni altra opposizione, “se non come raptus irrazionale autodistruttivo”. Un elemento che sembra anticipare quello che sarà poi l’istanza da cui nasce la lotta armata dei NAP e delle Brigate Rosse. Per Calvino è giusto principio di metodo negare che ciò che si combatte possa essere “sistema, per distinguerne le componenti, le contraddizioni, le brecce e per batterlo pezzo a pezzo”. La linea di pensiero politico a cui lo scrittore s’ispira è quella che connette Darwin a Marx, a Freud e anche a un antropologo come Lévi-Strauss, per cui il determinismo per Calvino ha per sempre operato in modo liberatorio. Temi che qui si riferiscono al racconto sul Conte di Montecristo contenuto in Ti con zero, ma che si ritrovano anche nelle pagine di Palomar di oltre un decennio dopo, dove mette in mora lo stesso “marxismo” nella visione francofortese di questa lettera. Si tratta del segno di convinzioni di base che connettono letteratura e politica in modo profondo. Nella generazione a cui Calvino appartiene, quella di Pasolini, Parise, Sciascia, Manganelli, si tratta di un modo di pensare fondamentale, seppur declinato in modo diverso secondo le individualità di ciascuno di loro. Questa lettera è senza dubbio una delle più belle e interessanti di Calvino intellettuale dalla forte ispirazione politica.
Un ritratto di Calvino
Questa è la settima lettera che Giovanni Falaschi riceve da Calvino e fa parte di un epistolario in parte inedito composto di sedici missive, che coprono un arco di tempo che va dal 1971 al 1983 pubblicato integralmente e annotato nel libro di Falaschi Una lunga fedeltà a Italo Calvino (Aguaplano). Si tratta della storia dell’amicizia e della collaborazione, tra l’allora giovane studioso di letteratura e il quarantenne scrittore ligure incominciata nel 1964 nel mese di giugno, quando Falaschi si reca a Torino per studiare all’Istituto Storico della Resistenza. Ancora studente universitario, egli già insegna nelle scuole medie vista la cronica assenza di docenti in quel periodo. Intanto durante le vacanze porta avanti i suoi studi negli archivi di mezza Italia.
A Torino scopre anche l’esistenza delle fotocopie, strumento a lui ignoto, che gli servirà per accorciare il lavoro di ricopiatura dei testi che trova nelle emeroteche e nei centri studi. In uno dei suoi soggiorni torinese decide perciò di telefonare all’Einaudi per cercare Italo Calvino, visto che è uno degli oggetti della sua ricerca. Glielo passano e lui gli spiega chi è e che lavoro sta facendo. Ottiene un appuntamento per il giorno dopo, seppure la conversazione telefonica gli sembri piuttosto freddina. Calvino, aggiunge, era assillato da persone che volevano fare tesi di laurea sulle sue opere.
Arrivato in Einaudi Falaschi resta colpito dall’abbigliamento con cui lo scrittore si presenta a lui: sfoggia una camicia rosa, qualcosa che a Firenze dove abita si vede indosso solo ai turisti e agli stranieri, per lo più inglesi; indossa calzoni bianchi e la camicia ha le maniche arrotolate; e poi è palesemente abbronzato. La conversazione verte immediatamente sulla collaborazione dello scrittore alle pagine del quotidiano comunista “L’Unità”. Calvino gli indica vari racconti apparsi in quel giornale e anche suoi pezzi di costume.
All’epoca gli studi sulla letteratura contemporanea si conducevano per lo più sui libri editi, romanzi e raccolte di racconti. Non era consueto che qualcuno riesumasse le prime pubblicazioni di scritti apparsi su riviste e giornali. Falaschi ha invece intrapreso questa via: sfoglia le vecchie raccolte e cerca nelle biblioteche articoli e recensioni, cosa che a Calvino interessa molto, come si capisce anche dall’epistolario con il giovane studioso.
Passano quasi sette anni e nel 1971 Falaschi pubblica sulla rivista “Belfagor” un saggio-ritratto dello scrittore ligure: Calvino tra “realismo” e “razionalismo”. Lo spedisce a Torino al suo interlocutore. Il 16 settembre questi gli scrive una lettera che ora figura con le altre in questo volume in parte critico e in parte autobiografico, che racconta la storia della loro amicizia e anche della nascita del libro di Falaschi edito da Einaudi nel 1976: La Resistenza armata nella letteratura italiana.
Dopo qualche telefonata l’appuntamento è di nuovo a Torino nel dicembre del 1971. Calvino si è già trasferito da tempo a Parigi, ma mantiene un appartamento nella città piemontese, dove torna stabilmente per il suo lavoro in Einaudi. Apre la casa a Falaschi, una residenza sobria, racconta l’ex giovane ricercatore, in cui lo scrittore conserva anche il proprio archivio. Parlano una intera giornata del dopoguerra, dell’attività letteraria di Calvino, che gli racconta dei suoi testi, poi della successione a Raf Vallone come redattore capo della terza pagina, dopo che Raf è diventato attore, di Silvana Mangano conosciuta sul set di Riso amaro, e ancora di un altro redattore di “L’Unità”, il giovane Paolo Spriano, futuro storico del Partito comunista italiano.
In precedenza lo scrittore ha inviato per posta al giovane studioso dei doppioni in suo possesso di suoi articoli e racconti apparsi su “Il Politecnico” e “L’Unità”. Pranzano e cenano insieme, sempre parlando della ricerca che Falaschi sta preparando. Vanno in uno di quei ristoranti di cui il giovane studioso ha letto in La nuvola di smog gestito da toscani di Altopascio.
Nella conversazione entrano la recente polemica con Cassola, il lavoro del filosofo Giulio Prete, e poi le imprese partigiane che Falaschi ha letto nei libri di memorie partigiane, di cui riferisce a Calvino, con treni che saltano in aria, fughe dalle prigioni e ricongiungimenti con altri partigiani, tutte storie che fanno ridere lo scrittore per le esagerazioni contenute. Parlano anche del loro essere, in modo diverso, dei provinciali. Alla fine Calvino gli dichiara che lui nella guerra partigiana non ha ammazzato nessuno.
Passeggiando per Torino Calvino gli racconta il libro che sta scrivendo e la sua strana struttura, cosa che lascia un po’ perplesso, e persino contrariato, Falaschi in uno stato di diffidenza e curiosità. Dopo qualche tempo il giovane studioso identificherà questo libro con Le città invisibili, di cui riceverà anche copia l’anno seguente con dedica, e a cui nel 1974 riserverà una recensione raccolta in questo stesso volume. Alla fine della passeggiata Calvino accompagna Falaschi nell’albergo dove di solito vengono ospitati i collaboratori Einaudi, confabula alla reception e miracolosamente danno al giovane ricercatore, abituato a modeste stanze in affitto o alberghi malfamati nel corso delle sue ricerche, una splendida suite. Il giorno dopo si congeda da Calvino e torna a Firenze a lavorare sulle sue carte.
Hanno stabilito di editare il volume di Falaschi presso Einaudi con il titolo fissato da Calvino in una lettera del 10 aprile 1972, subito dopo aver ricevuto il plico con il testo: La Resistenza armata nella narrativa italiana. C’è anche il proposito di un invito a Calvino al Magistero di Firenze dove Falaschi lavora con Baldacci. Dall’ottobre del 1972 entra però in ruolo in un Istituto tecnico dove insegna Italiano e Storia. Dopo di che Calvino si reca a Firenze accettando l’invito per tenere una conferenza nel maggio del 1972. L’occasione è propiziata anche dall’incontro che lo scrittore deve avere con l’architetto che seguire i lavori della sua casa a Roccamare, vicino a Grosseto. L’aula magna è piena di studenti nonostante la notizia sia stata data solo nel pomeriggio del giorno precedente. Calvino ha raggiunto i cinquant’anni e, per quanto in forma, dichiara a Falaschi di aver deciso di invecchiare e poi da un po’ di tempo, dice, ha cominciato a balbettare. Il ritratto su “Belfagor” piace molto a Calvino che gli scrive una bella lettera nel novembre. Seguono altri incontri tra cui uno in margine a un dibattito a un premio letterario. Poi nel 1974 Falaschi gli spedisce il dattiloscritto del libro appena terminato.
La reazione di Calvino, diventato il suo editor in Einaudi, è critica verso l’introduzione. Un editor molto esigente, come s’intravede dagli appunti che muove al giovane studioso. Ricevuta la lettera Falaschi gli telefona a Roccamare e riceve l’invito ad andare a trovarlo e a fare il bagno insieme. Lì conosce Chichita, il figlio di lei, Marcelo, e poi Giovanna la giovane figlia di Italo e Chichita. Il libro continua la sua strada; viene riletto da Emilio Faccioli, che insegna a Firenze e lavora per Einaudi, e anche riceve il plauso di Paolo Fossati cui Calvino l’aveva dato in lettura, dal momento che era della medesima generazione del giovane studioso: non voleva che a giudicarlo fosse solo uno che aveva fatto la Resistenza.
Falaschi riscrive la prefazione e il libro prende la strada della pubblicazione. Previsto per il 1975, trentennale della Liberazione dal nazifascismo, esce l’anno dopo nel 1976 nella collana della PBE einaudiana. La frequentazione al mare continua. Le telefonate sostituiscono in parte le missive su carta. Falaschi si ricorda di episodi legati alla scrittura di vari articoli, di cui ha modo di parlare con Calvino a Roccamare, e poi del convegno sui Livelli di realtà nel 1978 a Firenze in cui Ulisse è al centro della riflessione dello scrittore, testo che ora figura in Una pietra sopra.
Il giovane studioso non cessa mai di interrogare Calvino circa quello che sta scrivendo e leggendo finché un giorno, alla fine degli anni Settanta, questi gli racconta la trama di un racconto che gli è venuto in mente riguardo a un giovane scrittore americano. Un aspirante scrittore – gli dice – riceve una borsa da una Fondazione per scrivere un romanzo e si ritira in un’isola e comincia a scrivere di uno scrittore che ha ricevuto una borsa di studio e ora sta in un’isola, ma a questo punto si blocca. Per sua fortuna va a trovarlo una vecchia zia che comincia a raccontagli i fatti privati di certa gente che lei conosce. Il giovane scrittore prende appunti fino a che il suo materiale narrativo s’accumula e quando la zia parte, il romanzo è praticamente finito. Una sorta di anticipazione delle storie che si annidano in un libro che esce da lì a poco, Se una notte d’inverno uno scrittore.
Nelle conversazioni nella casa al mare Calvino racconta di aver anche cominciato a trascrivere i suoi sogni, ma che per farlo gli ci vuole una gran pazienza e tanto tempo, così ha smesso. Parlano anche di un famoso intellettuale che aveva convinto i sessantottini di essere un rivoluzionario, come se avesse fatto la Resistenza, cosa che non era vera; dotato di una scrittura piuttosto oscura questi aveva polemizzato con Pasolini e Calvino stesso e non amava Montale convinto che gli dava ombra. Probabilmente si tratta di Franco Fortini. Un’altra cosa curiosa nella loro conversazione: Calvino nota come tutti cantino ora “Bella ciao”, ma lui durante la Resistenza non l’aveva mai sentita cantare, nessuno la conosceva. Tra aneddoti gustosi, storie raccontate, resoconti di incontri e discussioni, Falaschi traccia un ritratto molto gustoso di Calvino: una persona taciturna e concentrata, che si è poi definito un saturnino, ovvero uno incline alla malinconia; nel lavoro era molto paziente e tollerante, curioso delle persone diverse da lui, e non solo intellettualmente. Pensava molto prima di parlare e anche durante. I suoi occhi apparivano puntuti e attenti. Ma si metteva anche a ridere di gusto.
Falaschi cita nel finale una cosa scritta da Silvio Dian, compagno di Liceo di Calvino: “Italo se ne stava spesso seduto ad un tavolino assorto e assente, per poi scoppiare in una sonora risata e in una battuta ironica, approdo di un suo lontano pensiero a noi non comunicato”. Il libro, che si apre con una ampia prefazione-racconto, è una testimonianza umana e intellettuale importante. Come lo sono le lettere e i testi che Falaschi ha scritto sul suo autore e che ristampa forte della sua lunga fedeltà: 1972-2017. Sono pagine da rileggere, come sarebbe anche ora si ristampasse quel libro che l’aveva messo in contatto con Calvino, un libro quanto mai attuale in tempi come i nostri, il cui esito politico e culturale è ancora molto incerto. Rileggere pagine dedicate alla letteratura sulla Resistenza, cui parteciparono diversi dei nostri scrittori migliori, fa riflettere ed è oggi sicuramente utile.