Il cinema alchemico di Marco Martinelli / Fedeli d’Amore. Il film
Un altro Dante ancora. Marco Martinelli e Ermanna Montanari da anni scavano la Divina Commedia e il suo autore. Ci hanno regalato opere di grande fascino, realizzate coinvolgendo nei cori decine di cittadini, Inferno del 2017 e Purgatorio del 2019. Nel frattempo e in attesa del Paradiso, bloccato dalla pandemia, hanno raccontato “di traverso” il poeta, la ricchezza della sua riflessione, la luce della sua poesia, l’aura che riverbera da lui verso di noi. Lo hanno fatto in uno spettacolo concerto buio e intenso, fedeli d’Amore, sette episodi unificati dalla voce narrante di Ermanna Montanari, dalla musica di Luigi Ceccarelli, da un viaggio immaginale tra bui, controluce, apparizione di strutture metalliche, emersione di affreschi, perpetrato da Martinelli come graffi fin sotto la pelle del Dante più conosciuto (su doppiozero lo ha raccontato Anna Stefi, qui).
Ora quel testo e il suono di quello spettacolo, ossia “le voci” di Ermanna Montanari e della strumentazione musicale di Luigi Ceccarelli, diventano due delle molteplici piste di un film che allarga la visione, dall’interno dell’anima del poeta al suo intero mondo (e al nostro). Il racconto diventa sogno o addirittura incubo; il sogno torna epica e si trasforma in allegoria e visione sapienziale. È la nebbia che narra, all’inizio, con vocina da vecchia infante, mentre invade Ravenna nei primi giorni del settembre 1321 e penetra fino alla stanza dove sta morendo Dante. La visione, un buio profondo appena scalfito da tremolanti candele, si allarga alla nostra Italia e ai suoi inferni, in un viaggio senza sponde, in avanti e indietro nel tempo, all’esterno, nelle paludi dove il Sommo contrasse la malaria, fino a Firenze matrigna e assassina, ma anche fino a dolci squassanti visioni d’infanzia, l’innamoramento di Dante, un fulmine, fino alla bellezza di quella esaltata bruciante gioventù di stile nuovo dolce che si definì “fedeli d’Amore”.
Il cinema Martinelli lo ha fiutato per molti anni, senza mai voler abbandonare la sua propria camera-stylo, il teatro. Abbastanza di recente, sempre con la partecipazione all’ideazione di Ermanna Montanari, ha trovato una sua cifra, a partire da Vita agli arresti di Aung San Suu Ki, del 2017. Poi sono venuti The Sky over Kibera nel 2019, la Divina Commedia rivissuta da bambini e adolescenti di uno slum di Nairobi, e Er del 2020, montaggio di brani di repertorio di Ermanna Montanari, omaggio alla sua arte. I tre film li racconta bene Il teatro nel cinema, libro di Laura Mariani (Luca Sossella editore), parlando a proposito di queste prove di affondo negli spettacoli teatrali, di teatro a cielo aperto, di valorizzazione dell’arte teatrale di Ermanna, di scavo nei dettagli. Sostanzialmente di cinema che si nutre, si fa forza del teatro e lo moltiplica.
Fedeli d’Amore conferma quelle idee col suo inizio in un buio denso, tra suoni che strisciano e a poco a poco prendono forma, incastrandosi e slanciandosi nel dialetto gutturale di Montanari, tra immagini che si lasciano intravedere, esterni di materia nebbiosa e figure che baluginano a lume di candela. Sono sette episodi, sette quadri di un polittico, come esplicitava il sottotitolo dello spettacolo. Sette affondi, sette variazioni, sette moltiplicazioni per apertura o concentrazione, cristallizzazione e riformulazione.
Sette movimenti che richiamano le fasi del processo alchemico, della trasformazione delle materie e dell’anima, dalla nigredo, la depressione, l’umor nero, qui la morte che sta attanagliando il poeta, lo sprofondamento nell’inferno, nel fuoco di Flegetonte, con il passaggio al bianco di una promessa di resurrezione nell’asino paziente e nella croce, figura universale di concentrazione e apertura, di supplizio, resa e rinnovamento, fino a un’apertura coloristica di rampogna all’Italia, in una scena di action painting con Ermanna che imbratta una cartina della “serva Italia”, rendendola smagliante di espressionistiche torve combinazioni di colori, a piedi scalzi, a pennellate dolci o furiose, aprendo a una primavera di giovani corpi e corone di pampini dopo una nuova caduta nel nero, con la figlia Antonia che visita il padre morente (ma il Paradiso appena terminato è là, alle sue spalle, nascosto da qualche parte) e rievoca il bruciare d’amore di gioventù, l’apparizione a nove anni di Beatrice, in rosso abito, la rubedo, l’opus promesso e poi compiuto come cammino dalla selva oscura verso il sole, fino a quel momento di verità, forse di vanitas vanitatum, di nero e bianco assoluto – rumor bianco – che è la morte.
Martinelli con mano sicura affida il racconto alla poesia del poemetto da lui composto, resa da Montanari, sempre voce fuori campo, vapori nebbiosi, rampogne, umori terragni, patimenti e speranze, fioriture, nuovi sperdimenti e illuminazioni. Dall’interno asfittico, mortifero, appare un paradisiaco pavone e si sprofonda nel Flegetonte; ci si apre ai paesaggi delle valli adriatiche, con l’asino che porta Dante e sopporta i mali del mondo, le angherie, ed evoca la figura del Cristo e della croce; ribaldeggia accattivante il diavoletto del “rabbuffo”, della smania di denaro, giungendo dopo i demoni della guerra, della violenza, dell’odio, del sopruso. Si torna a coagularsi, a cristallizzarsi per formularsi e disciogliersi e di nuovo legarsi negli ultimi quadri prima della visione di due bellissimi bambini sulla battigia di una spiaggia, con un mare che li guarda, li culla, scorre loro vicino indifferente all’intensità dei loro occhi.
La voce di Montanari si fa fonda o violenta, raschiata. I suoni di Ceccarelli diventano ora clangori, ora derisioni, ora lirici abbandoni, mai concedendosi all’oleografia, sempre pronti alla minuta dissonanza, al pensiero traverso, all’apertura di imprevedibili densità e orizzonti. Voce e musica sono scavo coordinato, che si riconnette e contrasta con le immagini, illustrazioni ma anche salti intellettuali ed emotivi.
Fedeli d’Amore film è stato presentato al Filmmaker Festival di Milano in novembre, e aspettiamo di conoscere la sua vita. Sarebbe bello andasse nelle sale, a far vedere un cinema diverso da quello piattamente narrativo che troppo spesso incontriamo, un cinema concerto, polifonia, visione.
Scrive Martinelli nelle note di regia:
Il mio cinema parte dal teatro. Senza il teatro non esisterebbe. È. un cinema che divora il teatro, lo reinventa, lo trans-forma, lo trans-figura, lo scavalca e lo ribalta, lo insegue e lo precede, lo fa a pezzi e pazientemente lo ri-incolla, lo racchiude nell’architettura della finestra-schermo e al tempo stesso lo espande, lo porta all’aria aperta, nel sole, nella notte, nella luce dell’alba, sulla riva del mare, sui sentieri di alta montagna, lo fa respirare in un altro modo, lo assedia, sulla scena cerca ispirazione, ne ingrandisce la minuzzarìa, il particolare non visto, il dettaglio nascosto, inventa la malìa del primo piano, il volto come un territorio da percorrere, un pozzo in cui sprofondare. Sono arti sorelle, teatro e cinema, avvinghiate. Si parlano solo allontanandosi e abbracciandosi nello stesso movimento di macchina.
È un cinema “di simboli e allegorie”, che “procede a salti, come nelle chiese gotiche, come in certi procedimenti delle avanguardie di inizio Novecento”. È stato girato in vari ambienti di un antico mulino esistente già al tempo di Dante. Ha respirato dei paesaggi desolati ma vivissimi delle valli ravennati, dove l’acqua si mischia con una terra povera, che si fa largo nel grigio dei canali come arterie e vene di un corpo esausto.
Usa un’attrice sublime come Montanari, un attore come Sergio Scarlatella, quasi un’icona di Romeo Castellucci, in figura di poeta incoronato di lumini, di poeta patiens, e molti ragazzi, giovani e giovanissimi, non attori: con un richiamo al neo-realismo ma anche alle scene di massa dei registi della Rivoluzione russa e alle esperienze con gli adolescenti della non-scuola delle Albe.
Scrive ancora, al proposito, il regista: “Nel secolo scorso Zavattini e De Sica, e prima Dziga Vertov e Ėjzenštejn, hanno raccolto, con il loro ‘pedinamento’, il testimone di un teatro antico, il teatro dei molti. Ai molti il cinema ha offerto, tra gli altri trucchi, il prodigio del primo piano”. Il primo piano che scava, che evidenzia, ma anche che dissolve la figura in alcuni suoi dettagli nascosti.
Concludo, con Martinelli:
Mi affascina vedere l’anima incarnata. Su questo hanno scritto, su questo si sono arrovellati filosofi e teologi come Dante in primis, e poi Blaise Pascal e Pavel Florenski. L’anima che è carne, ferita, pancia, ginocchio. Le immagini sono contenitori di storie, e insieme testimoniano una fiducia, la mia, che quelle immagini possano trasmettere qualcosa che le trascende.
Speleologia, cinema e psicanalisi sono nate nello stesso periodo: ma non è già tutto questo, la Commedia?
fedeli d’Amore
un film di Marco Martinelli
voce Ermanna Montanari
musica Luigi Ceccarelli
con Sergio Scarlatella, Ermanna Montanari, Luigi Dadinae con cittadini e adolescenti di Ravenna
soggetto Marco Martinelli e Ermanna Montanari
fotografia Alessandro Tedde
montaggio Marco Martinelli e Francesco Tedde
post produzione Antropotopia
coproduzione Ravenna Teatro/Teatro delle Albe e Antropotopia con il contributo di Istituto Italiano di Cultura di Abu Dhabi
organizzazione generale Marcella Nonni e Silvia Pagliano
cura, accompagnamento, relazioni con la stampa Rosalba Ruggeri
produzione Albe/Ravenna Teatro insieme a Antropotopia
con il contributo di Istituto Italiano di Cultura di Abu Dhabi e di Assicoop Romagna Futura agente generale UnipolSai Assicurazioni
si ringrazia per la concessione dei filmati d’archivio Archivio Storico Istituto Luce Cinecittà