Gestacci rinascimentali
Ricostruire la gestualità di un'epoca sembra facile. Quando affrontiamo, ad esempio, un periodo relativamente vicino a noi come il Rinascimento abbiamo a disposizione una serie consistente di materiali, ma comporli assieme e ricavare un quadro unitario non è così semplice. Ci ha provato Ottavia Niccoli in un libro uscito da poco (Muta eloquenza. Gesti nel Rinascimento e dintorni, Viella).
La studiosa si muove agilmente in territori diversi, ciascuno con le sue ricchezze e le sue incertezze. Prendiamo ad esempio il campo immenso delle immagini: qui le insidie sono maggiori di quanto si creda, tante sono le convenzioni che spingono gli artisti a filtrare e a selezionare la gestualità di tutti i giorni e ad adattare le movenze quotidiane del tempo ai modelli forniti da statue o bassorilievi classici. In certi casi, come osserva Niccoli, “la gestualità è... puramente enunciativa; ha un valore retorico, e non pretende in alcun modo di descrivere una realtà”.
Poi c’è l’ambito dei trattati, che sono forse tra i frutti più tipici dell'epoca quanto alla riflessione sul gesto, libri che affrontano il tema del comportamento e di quelle che poi verranno chiamate "buone maniere": ci sono testi a dir poco celebri come il Cortegiano di Baldassarre Castiglione, il Galateo di Giovanni della Casa, ma anche le raccomandazioni di Erasmo da Rotterdam, soprattutto per quanto riguarda l’educazione dei bambini. In questa direzione prescrittiva, tutta di ammonimenti, esortazioni e consigli, si muovono anche i predicatori e gli autori di scritti edificanti. Poi, ormai alle soglie di un'altra epoca, c'è il voluminoso quanto minuzioso lavoro di Giovanni Bonifacio, Arte de' cenni (1616), una raccolta stupefacente per dimensioni, ma totalmente concentrata sul solo versante letterario.
All'interno di questa trattatistica si ha l’impressione che precetti e divieti siano indirizzati per lo più alle donne. Agli inizi del Quattrocento, Francesco Barbaro stigmatizzava come indecorosi i loro sguardi fuggevoli, l'incedere troppo rapido, i movimenti eccessivi delle mani e delle altre parti del corpo.
Agli esempi riportati dalla studiosa si può aggiungere, nella seconda metà del secolo, un trattato anonimo di area veneta (Decor puellarum, 1471) che ritorna sullo stesso argomento, concentrandosi in particolare sulla testa delle ragazze; “per honestà et per acquistar fama de virtù” gli ornamenti del capo non devono essere eccessivi, ma non basta: la testa dovrà essere “salda et ferma”, in modo che le ragazze non arrivino a somigliare “a li mergi (smergi, anatre) et oche marine che spesso se scrola la testa”. Continui richiami che vogliono disciplinare e contenere la libertà di movimento del corpo femminile: alle fanciulle bene educate si raccomanda, ad esempio, di stare sedute appoggiando una mano sull'altra, una posa che trova un riscontro preciso nella ritrattistica (la Maddalena Doni di Raffaello o la stessa Gioconda).
In questo scenario risalta per la sua singolarità un episodio riportato da Machiavelli. Caterina Riario Sforza, signora di Imola, a cui i congiurati avevano catturato i figli, mostra loro i genitali dicendo che avrebbe potuto partorirne altri.
Quelli dei riti e dei cerimoniali ufficiali sono se possibile vincoli ancora più stretti. Nel 1530, Lutero racconta in una lettera quanto è venuto a sapere dell’incontro tra Carlo V e papa Clemente VII a Bologna; dopo il bacio ai piedi – quel “bacio della pantofola” che per secoli continuerà a essere omaggio obbligato ai pontefici – il papa si rivolse all’imperatore dicendo: “mi perdoni la tua Maestà, contro la mia volontà ho sopportato che mi venissero baciati i piedi, ma il cerimoniale lo impone”. A questo punto – continua Lutero – l’imperatore “si genuflesse al suo fianco, e il papa baciò di nuovo più volte Cesare sulla mascella”.
L’ambito religioso è ricco di riferimenti alla gestualità. Niccoli ricorda le parole di Jean Gerson sui modi della preghiera: a volte si prega “senza che si veda all’esterno; altre volte si manifesta con sospiri, gemiti, lamenti, lacrime, segni di rimorso, torcendosi le mani, alzando gli occhi al cielo, battendosi il petto, con suoni inarticolati e gridi senza parole, come fanno i bambini e le bestie quando hanno male; oppure si prega con orazioni composte da altri”.
Molto più tardi, a metà Cinquecento, un sacerdote si rivolge a una gentildonna bolognese a proposito della meditazione sulla Passione di Gesù: il consiglio è di recarsi in solitudine nell’oratorio della sua dimora, di sedere a terra, di prendere il crocifisso e stringerlo nelle braccia; poi consiglia di guardarlo da capo a piedi tenendo la guancia appoggiata alla mano e sforzandosi di “trarre cocenti lacrime”. Il sacerdote propone di fatto un’idea che era chiara anche agli antichi, che cioè i movimenti del corpo sono espressione di uno stato d’animo interiore, ma possono agire in direzione contraria, inducendo cioè un cambiamento nella propria interiorità: il gesto della mano premuta sulla guancia è da millenni il gesto per eccellenza del dolore, e per questo poteva servire a indirizzare il fedele nella condizione spirituale giusta per meditare sulla morte di Gesù.
All’interno della ricca serie di casi che la studiosa ci offre ricavandoli da fonti varie, si segnalano le circostanze, improvvise quanto sorprendenti, desumibili da una cronaca o dagli atti di un processo. Come quella volta che in centro a Bologna, nel 1602, un tale si inginocchia dinanzi a una immagine sacra e viene rimproverato da una donna e dal marito che addirittura lo prende a pugni, evidentemente disturbato dall'anomala forma di preghiera.
Ci sono dei gesti che, ancora vivi nel Rinascimento, arrivano da lontano, come il "far le fiche", attestato già in Dante: con un intento del tutto ingiurioso e offensivo si inseriva il pollice tra indice e medio, simulando l’atto sessuale. Dopo aver ricordato che il gesto è presente anche in Rabelais e – sorprendentemente – negli scritti di santa Teresa, Niccoli presenta un quadro di Simon Vouet oggi a Caen (c. 1615).
Qui le immagini si intrecciano alle parole: un ragazzo con una mano mostra un fico e con l'altra fa il gesto delle "fiche" guardando con aria birichina lo spettatore; come se non bastasse, il giovane si è scompigliato la pettinatura e ha indossato un abito femminile.
La documentazione raccolta da Niccoli è vastissima e varia, ma – proprio per questo – alla fine viene da chiedersi se ci siano gesti tipicamente rinascimentali, gesti distintivi di quel tempo. Due secoli, questo all’incirca è lo spazio cronologico coperto dal libro, sono sufficienti per elaborare nuove forme gestuali? Il fatto è che in ogni epoca (compresa la nostra) sono molto più i gesti ereditati dal passato che quelli creati ex novo; come ha scritto Jean-Loup Rivière, “un gesto è sempre quello dell’altro, dell’antenato”.