Compagnia della Fortezza / In carcere, la beatitudine

1 Agosto 2018

Benvenuti nel mondo di cristallo di Armando Punzo. Trent’anni di vita in carcere, quasi tutti i giorni, molte ore al giorno, lo hanno portato a questo spettacolo rarefatto, Beatitudo, giostrato al ritmo lento di una musica simile a quella di un carillon, che improvvisamente si accende, si imbarbarisce, con botti di percussioni, e poi continua a fluire come acqua.

 

 

Acqua. Lo spettatore vede subito un grande specchio d’acqua che invade tutto lo spazio scenico del campetto d’aria all’interno del carcere della Fortezza Medicea di Volterra. Raggiungeremo la gradinata attraverso due strette passerelle, specchiandoci nel liquido elemento, guardando Punzo e il bambino che lo accompagna in questo viaggio nel mondo di Jorge Luis Borges osservare il posto dove noi andremo a sederci, o forse il vuoto, scortati da un manipolo di guerrieri addobbati da arcaici orientali sacerdoti con lunghe leggere vesti rosseggianti, impugnanti fruscianti canne. I più accorti, quelli che frequentano da più tempo questi spettacoli che si accendono in quel luogo di contenzione tutte le estati, da trent’anni, si accorgeranno che manca un lato di pesanti sbarre al campo della zona d’aria. 

 

 

Magia del teatro. Cosa vuol dire riuscire a segare una fila di una decina di metri di sbarre? Indipendentemente da ogni possibile valore simbolico, significa che il potere del teatro in quell’istituto di detenzione è enorme. Punzo ha lavorato prima a cancellare la prigione dalla testa dei suoi detenuti attori. Mai ha messo in scena la loro condizione, la loro realtà: ha cercato sempre di sviare, proiettare, reinventare l’attore come uomo e come ministro di una rivelazione per tutti, proiettando semmai sugli spettacoli e sul suo lavoro da monaco certosino e da guerriero (non a caso di formazione grotowskiana) l’idea che la vera prigione incombe su chi sta fuori, ed è il nostro mondo, con i suoi pregiudizi, le sue illusioni di libertà e di realtà.

 

 

Trent’anni. Beatitudo celebra un anniversario, i trent’anni della Compagnia della Fortezza, e si sa che nessuno in Italia, neppure i più rigorosi sperimentatori, si sottraggono al fascino, anche pubblicitario, delle ricorrenze. In questa occasione di Beatitudo, in scena nell’istituto penale dal 23 al 26 luglio, se ne è vista anche una versione in teatro, assolutamente sperimentale, solo annuncio delle possibilità di quella che girerà durante la prossima stagione.
A Larderello, nella Centrale geotermica Enel, un sito di archeologia industriale, il 4 agosto, i materiali di Beatitudo saranno riproposti in una creazione ambientata in quel luogo unico, in un’arena invasa dall’acqua. Ma il traguardo dei trent’anni qui ribadisce la continuità di un lavoro, praticato in emergenza e precarietà, senza i dovuti riconoscimenti. Le creazioni di Punzo hanno cambiato il carcere senza proclamare di voler “riabilitare” i detenuti, sfidando loro e le istituzioni con il lavoro artistico, del teatro, artigianato che scava parole, corpi, immaginazioni e porta, se praticato con questa radicalità, necessariamente un cambiamento.

 

 

Beatitudine. All’inizio c’è lo sguardo di Punzo e del bambino sulle acque del lago, la loro immaginazione, il loro figurare: un salto in un altro mondo, nel vuoto, in un labirinto di specchi che portano sempre più lontano da quella che chiamiamo realtà. Le immagini dello spettacolo sono più o meno quelle che raccontavo l’anno scorso nella cronaca del primo studio, Le parole lievi. In altro ordine, come apparizioni frontali allo spettatore, tutte con i piedi immersi in quel grande specchio liquido, a rallentare i movimenti, a creare rumore di acqua smossa. Nell’acqua marciano i sacerdoti soldati, forse ispirati al poema medievale persiano Il verbo degli uccelli, abitatori dell’aria viaggiatori che partono in cerca del misterioso Simurgh. Nella piscina qualcuno pesca qualcosa, qualcun altro spinge con una canna un oggetto. Qualcuno seminerà nell’acqua e innaffierà. Galleggeranno forme geometriche bianche, piramidi, cubi, sfere, come l’Aleph borgesiano, punto, sfera contenete tutti i punti (e i mondi del mondo). Libri: arrivano portati da altri sacerdoti dal volto dipinto o da una teoria di donne, a murare come mattoni alcune finestre del carcere, a galleggiare nello specchio d’acqua, a costruire, sempre nello stagno, altari di misteriosi culti. Libri chiusi, libri che quando si aprono sono bianchi, libri senza voce, libri assoluti racchiusi in scaffali dove forse c’è il libro totale, compendio di tutti gli altri, forse, che almeno un uomo forse ha letto, per curare col cielo l’inferno, forse

 

 

Mondi. Mappamondi. Personaggi dal volto rosso o impressionati di giallo dalla luce di una notturna lanterna, uomini in giacca e cravatta o con pesi di sfere incistati nella testa racconteranno di cavalieri che si spingono agli estremi punti del mondo per trovare i fiumi dell’immortalità e altre storie, in cerca di lettere dell’alfabeto, di parole. Un grande profeta nero scandisce versetti della Bibbia come formule magiche, aprendo ancora libri bianchi, che quando si aprono si riempiono di lettere come invocazioni per creare per magia mondi. Tessere di un disegno registico, del tentativo di scrivere un libro del possibile per virtù di montaggio di apparizioni, di testi vari, di figure in cui la vita è ristretta nell’emblema.

 

 

Voci. Un canto irrompe, come grido, come due braccia aperte, spalancate, come nenia che culla, con la voce meravigliosa di Isa Brogi, anche lei trasformata in un essere giallo e rosso di questo mondo di mezzo, di questo Purgatorio nel sole, che sfugge il calvario della nostra terra e si perde nella propria algida compiutezza, con principesse di Mille e una notte adagiate su un divano (nell’acqua, sempre nell’acqua), con guerrieri, traghettatori senza volto, samurai ciechi, donne in nero o figure meravigliose che scartano le pagine di un libro dei sogni in cui chi narra non ha ancora finito di nascere e tutto si svolge con la lentezza dell’angoscia. Testi sapienziali, labirinti, sentieri che, borgesianamente, si biforcano. 

 

 

Labirinti. “Così, mentre ti aggiri per questi labirinti, non sai mai se insegui uno scopo o se fuggi da te stesso, se sei il cacciatore o la preda. Non un santo, sicuramente, ma forse non ancora un drago in piena regola: non proprio un Teseo, ma neanche un minotauro affamato di vergini” scriveva Josif Brodskij di Venezia, delle sue circonvoluzioni cerebrali tradotte in sistema viario che fa smarrire o ritrovare, in Fondamenta degli incurabili. E la sensazione è quella, di fronte a tanta bellezza, davanti a questo lento sgorgare di immagini, a questo circolare andare e tornare verso un vuoto che si riempie di distanza programmatica da una realtà che inchioda a immagini e sensazioni univoche, a sensi già tutti programmati.

 

 

Cos’è reale? si chiede Punzo, che lavora ogni giorno in un luogo troppo carico di realtà. Punzo grida la risposta in uno dei testi scelti in questa drammaturgia fatta di frammenti, cercati con monacale dedizione per uno, due anni, montati in una successione che il giorno dopo può variare. Di fronte alla realtà, contro la realtà, ci vuole lo slancio necessario dell’artista verso “una via d’uscita ed è solo questo momento la sua unica possibilità, non c’è altro, non c’è, sconfitta e vittoria, il suo essere è per sempre, e gira e ritorna e ogni volta è come la prima volta che non ricordi, amaro rifiuto, svuotato finito come dopo un atto senza amore, senza pace, sgomento cerchi e guardi oltre le punte [di quelle lance picche alabarde che tutto violentano] su cui ti lanci cercando una possibilità che non ti è data ma che lo slancio promette al mondo intero”. In questo volo d’Icaro puoi ferirti, morire: ma resterà “il sorriso di un attimo prima di lasciarti trafiggere per sempre, e qualcuno lo raccoglierà come un petalo calpestato da conservare nel libro dei destini futuri, altro è il fiume che io cerco, altro è il fiume che io cerco, altro altro…”.

 

 

La musica. La musica di Andrea Salvadori dilata liquidamente ancora di più il mondo che si forma per riempire il vuoto in oltre due ore di spettacolo, partendo da un ballo tra Punzo e un uomo barbuto in nero, un lento avvicinarsi, uno stringersi e guardarsi e lasciarsi andare a un volteggiare da slow, lentamente, sempre con i piedi rallentati dall’acqua. Era una delle immagini che chiudevano lo spettacolo dell’anno scorso, e quest’anno riaprono il ciclo, per tornare a mostrare uomini dipinti da labirinto, donne appese, un annegato con un nido sulla pancia o corona di spine, i sacerdoti correnti, re e servitori, profeti africani e molte altre figure, nei meravigliosi costumi di Emanuela Dall’Aglio, per 89 tra interpreti e musicisti, carcerati e no. Lampeggiano, entrando in successione lenta o in improvviso concertato per
riempire il grande vuoto e virarlo verso la grazia di un mondo sospirato, perfetto, di cristallo, dove il dolore è lontano, un ricordo, una malinconia, forse perfino una nostalgia o un’ossessione rimossa. Un vuoto troppo pieno, di clessidre, setacci, bussolotti, scacchiere, orci, vasi, canne; un vuoto che chiede di aprire l’occhio al dettaglio, di lasciarsi trascinare dalla ripetizione, fino a quando un telo bianco non coprirà l’acqua, lo stagno, il lago, il mare, trasformandolo in deserto di sale su cui il bambino può giocare, ancora, con una sfera rossa, come il sangue, come il sole lampeggiante alle nostre spalle nel tramonto.
La perfezione di Beatitudine contiene una grande nostalgia della vita, lontana, esaurita. Delle utopie sappiamo che sono spesso violente chirurgie umane e sociali. Oltre l’acqua, oltre l’aria, oltre la nostra sfera di mondo cosa c’è? Nel cristallo, in questi specchi che ci rimandano continuamente immagini del mondo e provano a disegnare orizzonti nuovi più puri, è contenuta la perfezione ma anche la freddezza, la distanza, l’impenetrabilità del materiale.
Punzo e la sua Compagnia della Fortezza rapiscono, incantano, ma soprattutto incidono dentro un sentimento di lontananza, che echeggia dolore, che affascina e impaurisce, che sembra esprimere un rimpianto e chiedere di tornare a immergere occhi gambe mani corpi nella materia fragile e sporca dell’esistenza.


Le scene, meravigliose, sono di Alessandro Marzetti e Armando Punzo, le decorazioni e gli arredi di Silvia Bertoni, le coreografie di Pascale Piscina, l’aiuto regia di Laura Cleri. Cura organizzativa di Cinzia de Felice. Tutte le foto qui pubblicate sono di Stefano Vaja.

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