Conversazione con Mario Martone / Leopardi, drammaturgo segreto
«La prima volta che ho annunciato che avrei messo in scena le Operette morali allo Stabile di Torino, nel 2011, tutti sono rimasti comprensibilmente interdetti. E quando l'abbiamo proposto ai teatri in giro per l'Italia non l'ha preso nessuno. Solo il teatro Argentina di Roma ci ha lasciato due settimane a fine maggio, facendosi, diciamo così, il segno della croce... Ebbene, alla fine lo spettacolo ha fatto il record d'incassi della stagione all'Argentina. Da quel momento in poi, con nostra grande gioia, le Operette hanno iniziato la propria vita sul palcoscenico».
Così Mario Martone racconta l'esordio del suo adattamento teatrale di quello che lui stesso ha definito «un libro straordinario, un testo capitale nella cultura italiana dell'Ottocento». Un esordio che è stato anche una sfida (pienamente vinta, come dimostra il Premio Ubu 2011 per la miglior regia), e che ha portato il regista napoletano a confrontarsi direttamente con la figura di Leopardi nel film Il giovane favoloso, attualmente in fase di post-produzione. Abbiamo incontrato Martone a Locarno, in occasione de L'immagine e la parola, lo spin-off primaverile del Festival di Locarno svoltosi fra il 12 e il 15 aprile. Gli abbiamo innanzitutto chiesto che cosa lo avesse portato a intraprendere un'impresa indubbiamente affascinante, ma anche assai complessa.
«La volontà che ci ha spinti, Ippolita di Majo e me, a lavorare sulla messa in in scena delle Operette è nata da una duplice sfida. Da un lato, considerare il libro nella sua integrità, come lo intendeva Leopardi, cioè come un insieme eterogeneo ma compatto di prose brevi, racconti filosofici, satire alla maniera degli antichi, dialoghi di uomini e creature fantastiche, da leggere come le Mille e una notte o il Mahābhārata. Dall'altro, tradurre la prosa leopardiana per le esigenze sceniche senza alterare la complessità di questa lingua così cristallina e tesa. Nel momento in cui si ascolta Leopardi, si sente la voce di un “drammaturgo segreto”, e improvvisamente le parole che sembravano così “ferme”, immobili sulla carta, diventano subito più vicine. Si è trattato insomma di "disboscare" l'arabesco della scrittura leopardiana, l'intreccio di mille linee che si intersecano, per estrarne il motivo dominante: l'infelicità della vita. Una volta fatto questo, è Leopardi che ti porta: la sua comicità, la sua lingua che impasta antico e moderno insieme. Dopo lo spettacolo ci chiedono spesso quali cose abbiamo cambiato, cosa abbiamo inserito nel testo, perché talvolta ci sono elementi che sorprendono per modernità lessicale, incredibili per uno scrittore d'inizio Ottocento».
Ci sembra che il lavoro sulle Operette, e di conseguenza su Il giovane favoloso, prolunghi in qualche modo il suo percorso di “rilettura critica” dell'Ottocento italiano iniziata con Noi credevamo...
È vero, con Il giovane favoloso vado a concludere un decennio “ottocentesco”, iniziato - guarda caso - proprio con Leopardi. Nel 2004 realizzai uno spettacolo a Napoli intitolato L'opera segreta, un trittico dedicato a tre figure di non-napoletani – Caravaggio, Anna Maria Ortese e Leopardi, appunto - che nella città avevano trovato una sorta di vitalità estrema, persino mortuaria. In quell'anno nasce in me l'idea di lavorare su materiali storici dell'Ottocento italiano con uno sguardo rivolto al presente. Erano gli anni in cui la psicosi del terrorismo internazionale era molto forte, e io mi domandavo come fosse possibile che in Italia si fosse combattuta una guerra d'indipendenza e di liberazione solo a colpi di diplomazie e battaglie eroiche, che mancasse insomma quel lato “sporco” che ogni guerra porta inevitabilmente con sé. Da qui è iniziato un percorso di avvicinamento e di scoperta che ha portato pian piano alla realizzazione di Noi credevamo. Naturalmente, il film non era soltanto un film sulla cospirazione, ma è anche il racconto di un'illusione e di un disincanto, due termini centrali nel pensiero di Leopardi. A posteriori mi rendo conto che forse Noi credevamo è un film “leopardiano”, ma questo è avvenuto perché negli anni la voce di Leopardi non mi ha mai abbandonato.
Noi credevamo era fortemente anti-retorico, quasi “revisionista”. Il film su Leopardi manterrà questo approccio?
Per Noi credevamo ogni elemento, ogni dettaglio doveva avere un'esattezza cronologica e filologica, perché si trattava di raccontare la Storia “in contropelo”, visitando tutta una serie di zone più oscure, per cui era chiaro che ci fosse bisogno di grande rigore. Il giovane favoloso invece attinge agli episodi della vita di Giacomo, a tutto quello che ha scritto, alle lettere, è costruito insomma in maniera più libera, non è un film “storico”.
Lei parla di Storia “in contropelo”. In fondo anche la posizione di Leopardi è “contropelo” rispetto alla cultura dell'Italia del primo Ottocento, si pone quasi come “coscienza critica” del suo tempo, non lesina aspre critiche alle velleità dei patrioti italiani suoi contemporanei – penso a opere come I nuovi credenti, i Paralipomeni alla Batracomiomachia, la Palinodia a Gino Capponi. Un Leopardi immerso nel proprio tempo, insomma, più simile a quello messo in luce dagli studi di Riccardo Bonavita o dalla recente biografia di Pietro Citati, che all'immagine tramandata dagli studi liceali.
Dici bene, e d'altra parte anche nelle Operette la dimensione politico-civile è particolarmente forte, non manca mai uno sguardo sulla società e sul mondo. Certamente Giacomo è un disadattato, ha tratti misantropici, ma questo non significa che stia fuori dal mondo, al contrario. Lui ha partecipato al dibattito culturale, le illusioni del suo tempo se le è fatte tutte, nonostante fin dall'inizio avesse svelato a se stesso ciò che stava dietro: il Vero, il Nulla. Eppure quelle illusioni sempre rinascono, secondo quella dialettica tra illusione e disincanto di cui ti parlavo prima. Per esempio, nel Dialogo di Plotino e di Porfirio, Leopardi dà a Porfirio le parole più forti e definitive che si possano leggere sulla libertà dell'uomo di porre fine alla propria vita; subito dopo fa parlare Plotino, che spiega invece perché non bisogna uccidersi – e niente di tutto questo ha a che fare con la morale, la religione, le leggi di natura: ma ha invece a che fare sia con il senso della vita, che nasce e rinasce in qualunque momento, anche in quello più terribile, sia con il senso dell'amicizia, con il dolore che si procura agli amici rimasti vivi. Leggendo l'uno e l'altro si è d'accordo tanto col primo quanto col secondo!
Poco fa diceva di aver lavorato a Noi credevamo con uno sguardo al presente. È lo stesso atteggiamento che ha tenuto lavorando sulle Operette e su quest'ultimo film?
C'è un momento, nel Dialogo di Tristano e di un amico, che chiude le Operette, dove si affronta la questione della felicità delle masse. Leopardi sghignazza: come può essere possibile questa ipotetica felicità, se le masse sono composte da individui “naturalmente” infelici? Cesare Garboli diceva di Leopardi: “È uno di quelli che hanno ragione anche quando hanno torto”. Gli intellettuali italiani che Leopardi attacca, e talvolta sfotte impietosamente in queste pagine sono comunque grandissimi intellettuali, persone che hanno dato un grande contributo alla cultura e alla politica italiane. Tuttavia, quando critica “le magnifiche sorti e progressive”, chi lo può capire meglio di noi, che abbiamo visto crollare tutte le ideologie del recente passato, anche in modo tragico? Gli effetti di quelle “magnifiche sorti e progressive” li abbiamo sotto gli occhi, con il capitalismo come unica ideologia trionfante. In questo senso, la critica di Leopardi risulta molto più lampante a noi di quanto non lo fosse ai suoi contemporanei.