Ritratto di un uomo schivo / Michael Cimino, un grande narratore americano
Il “mio” Michael Cimino è quello che ho visto quattro anni fa, nel 2012, a Venezia, prima della proiezione della versione ricostruita del famoso (famigerato?) I cancelli del cielo, targata Criterion Collection. Ricordo un uomo minuto, schivo, nascosto dietro grandi occhiali dalle lenti affumicate, quasi intimidito dai flash dei fotografi, dal pubblico che gremiva la sala, dall'ufficialità della cerimonia – oltre a presentare il film, avrebbe dovuto ritirare un premio collaterale, uno di quegli omaggi “postumi in vita” utili a condire via il cineasta di turno, soprattutto se non lavora da quasi vent'anni (escludendo l'episodio di Chacun son cinéma, girato nel 2007 per celebrare i sessant'anni del festival di Cannes, il suo ultimo film, Verso il sole, risaliva al 1996).
Cimino presenta “I cancelli del cielo”. Venezia, 2012
Ad ogni modo, Cimino non aveva per nulla l'aria del genio in esilio, del Prometeo in catene, ricurvo sotto il peso di enormi successi e di altrettanto grandi fallimenti. Parlò con semplicità del suo film e delle tribolazioni che gli aveva causato, elogiò il lavoro dei tecnici che avevano lavorato alla ricostruzione del metraggio originale e la tenacia della sua producer Joann Carelli, che l'aveva convinto a tornare al lavoro su I cancelli del cielo. Io, che di Cimino avevo visto soltanto Il cacciatore (me lo fece vedere mia madre, grande ammiratrice di De Niro, che ancora andavo al liceo) e L'anno del dragone, avevo ascoltato il suo discorso con un orecchio solo, desideroso soltanto che iniziasse la proiezione di quel film leggendario, di cui tanti amici mi avevano parlato (i più fortunati ne avevano videoregistrata una versione integrale andata in onda su Tele+, credo, e la prestavano con estrema riluttanza).
Eppure oggi che Cimino non c'è più, mi torna in mente quella bizzarra figura, stretta nella sua giacchettina in tweed, che concludeva la presentazione scusandosi di essersi dilungato un po' troppo. Forse è per questo che, lo confesso, ho provato un certo fastidio davanti ai servizi televisivi dedicati alla sua scomparsa, immancabilmente concentrati sugli innumerevoli interventi chirurgici che avevano finito per deformargli i tratti del viso, sui pettegolezzi relativi a un possibile cambio di sesso, sul fiasco de I cancelli del cielo che aveva colato a picco la United Artists (ribattezzata da un cronista “Universal Artists”, nientemeno).
“I cancelli del cielo”, 1980
Quel pomeriggio trascorso alla sala Perla del Casinò di Venezia fu davvero esaltante, invece, e non per me soltanto. Un amico, che aveva già visto il film e si era seduto di fianco a me con l'intenzione di rivederne soltanto la prima mezz'ora, finì per assistere all'intera proiezione (216 minuti). I cancelli del cielo mi catturò immediatamente, fin dalla prima sequenza, dove i neolaureati di Harvard della classe 1870 prima marciano al ritmo di Battle Hymn of Republic, poi danzano con le loro compagne sulle note del Bel Danubio blu in un tripudio di cilindri, marsine e gonne di pizzo; infine si affrontano fra loro, ai piedi di una sorta di albero della cuccagna, in una vera e propria zuffa a mani nude, mentre le fanciulle li guardano sorridendo, affacciate al bovindo. «È finita», sospira Nate Champion (John Hurt) a Jim Averill (Kris Kristofferson), mentre il sangue gli cola dal naso: il film è appena iniziato e già ti dava l'impressione che i giochi fossero già chiusi, rien ne va plus. Non avevo ancora ventiquattr'anni e mi ero laureato un paio di mesi prima, e quell'uscita mi lasciò un bel groppo in gola.
Credo che I cancelli del cielo si possa riassumere a grandi linee nel tentativo, da parte di Marshal Averill, benestante e WASP, di scrollarsi di dosso i panni inamidati del borghese easterner per recuperare la dimensione più autentica dell'America, quella wilderness che, come insegna Leslie Fiedler, ossessiona gli eroi maschili del romanzo americano fin dai tempi di Rip Van Winkle. Ma si tratta in tutta evidenza di un recupero impossibile. La terra un tempo selvaggia è ormai saldamente in mano ai baroni del bestiame, ben decisi a tenersela stretta a costo di massacrare i nuovi arrivati, i poverissimi migranti originari dell'Europa centro-orientale che nel Nuovo Mondo vedevano davvero lo Heaven's Gate del titolo originale. «Se in relazione al Vecchio Mondo gli americani erano patricidi e regicidi», scrive Fiedler, «in relazione al Nuovo erano genocidi». Per questo motivo, dopo aver assistito impotente alla strage in cui perdono la vita i suoi amici e la donna amata, ad Averill non resta che ritorno all'ovile, cioè a quell'Est e a quella vita borghese che aveva tentato invano di fuggire.
Nessuno, nemmeno fra i movie brats della New Hollywood, aveva operato una revisione così drastica e amara della storia nazionale (ci ha provato Scorsese, molti anni più tardi, con L'età dell'innocenza, ma non poteva essere la stessa cosa). Per trovare paragoni, bisognerebbe forse ritornare allo Stroheim di Greed (che lo ricavò da un romanzo dell'americanissimo Frank Norris) o al Welles de L'orgoglio degli Amberson, un altro capolavoro maledetto, mutilato e rabberciato alla bell'e meglio dai produttori per ragioni politiche prima ancora che economiche. D'altronde, si poteva forse mostrare – e con quale evidenza, poi! – come il Paese si reggesse su radici tanto malate? Soltanto Cimino, che insieme al coetaneo Coppola è stato sicuramente il più wellesiano fra i registi della sua generazione, ha raccolto la sfida del regista di Kenosha, mettendo in scena un vero e proprio scontro di classe, ispirato alla vera battaglia di Johnson County, calandolo nei modi della tradizione letteraria (e cinematografica) statunitense: melodramma, western, epica dell'individuo, romance. Se l'intento dei movie brats era quello di criticare l'America (e Hollywood) nel momento stesso in cui la si stava esaltando, Cimino radicalizza l'assunto e costringe il suo Paese a un confronto insostenibile con il proprio passato; e lo fa orgogliosamente fuori tempo massimo, alla fine degli anni '70, quando l'onda lunga della contestazione si è ormai esaurita, Nixon è stato travolto dal Watergate e l'ingenuo Jimmy Carter si prepara a cedere il posto a un “duro” come Ronald Reagan.
Quella di Cimino sembra insomma una risposta a chi, come Jane Fonda, lo aveva accusato di essere «più fascista di John Wayne», in occasione del pluripremiato e già canonizzato Il cacciatore. Il quale, rivisto oggi, non sembra più di tanto il manifesto nazionalista e guerrafondaio che all'epoca in molti stigmatizzarono, soprattutto a causa di quell'ultimo God Bless America intonato sommessamente (ironia della sorte!) da un gruppo di americani di chiare origini ucraine, forse proprio i discendenti di quei migranti perseguitati dall'aristocrazia terriera del West. No, se I cancelli del cielo si rifaceva criticamente alla tradizione naturalistica di fine '800, Il cacciatore sembra in alcuni momenti evocare Hemingway e Hawks, con i loro eroi virili e capaci di muoversi in ogni situazione pratica: è questo il senso della “lezione” di Mike Vronsky (Robert De Niro) sul “colpo solo” («Tu devi contare su un colpo solo, hai soltanto un colpo, il cervo non ha il fucile, deve essere preso con un colpo solo. Altrimenti non è leale») o sulla necessità di portarsi gli stivali da casa quando si va a caccia.
Mi rendo conto di aver fatto un torto a Cimino, affrontando per l'ennesima volta i suoi due film più famosi, dei sette (e mezzo) che ha realizzato in quarant'anni, quelli di cui forse, per una ragione o per l'altra, aveva meno voglia di parlare. Ma come ho detto all'inizio, volevo parlare del “mio” Cimino. Che per me non è tanto il più estremo, barocco, indisciplinato dei movie brats, ma semplicemente un grande narratore americano.