Abitiamo la terra come spazio condiviso / Migranti visibili e invisibili

16 Novembre 2017

Quando sono in Italia, uno dei paesi della mia vita nomadica, i migranti li vedo eccome. Ne vedo la rappresentazione mediatica come pure mi capita di incontrarne di persona, davanti ai supermercati, seduti su gradini e panchine, o che ti vendono un fiore in pizzeria... In Svizzera e in Germania mai, come se non esistessero; né sui media né di persona. 

Dalla località elvetica di Brissago, sul Lago Maggiore, passo spessissimo, per recarmi a Lugano o a Locarno; ma mai e poi mai avrei sospettato che ci fosse un (centralissimo) posto di accoglienza, a due passi dalla fermata del mio autobus, se non fosse stato per un recente omicidio, apparentemente ingiustificato, di un ospite del centro da parte di un agente di polizia elvetico. 

Ma torniamo alla Germania, dove profughi e migranti sono quasi completamente assenti dai media, a parte il breve periodo in cui transitarono dalla «rotta balcanica». Penso al principale notiziario, quello del primo canale, alle otto di sera. Quindici minuti di notizie sobrie comunicate da annunciatrici e annunciatori ancora più sobri, in piedi e senza fronzoli. Alle 20:15, fine delle notizie, inizia il programma di prima serata che termina alle 21:45, in maniera tale da permettere di andare a letto alle dieci di sera. La giornata inizia presto al mattino, i portoni delle scuole si chiuderanno alle 7:50 per permettere ai bambini di trovarsi al sicuro in classe prima della corsa finale sulle strade di chi deve essere in ufficio alle 8. Ma moltissime attività sono già iniziate ben prima.

 

Pochi migranti sui media in Germania, dicevo, a parte alcuni dibattiti televisivi che peraltro hanno dato esito a posizioni non particolarmente disposte all'accoglienza, come dirò più avanti. Ma non se ne vedono nemmeno in giro; nei luoghi della Germania dove soggiorno o viaggio non se ne scorge traccia, mai. Eppure sono milioni. Dove saranno?

 

Il romanzo sui migranti

 

Dovevo pensare a questa situazione nel leggere l'incipit del romanzo di Jenny Erpenbeck, Voci del verbo andare (traduzione di Ada Vigliani, Palermo, Sellerio, 2017, pp. 352; ed. orig. Gehen, ging, gegangen, München, Knaus, 2015), che affronta la questione dei migranti in Germania in maniera romanzata. Il protagonista del libro è Richard, professore universitario tedesco di filologia classica in pensione, che a un certo punto della sua vita si imbatte nella questione dei migranti. O per meglio dire sono i migranti stessi che entrano nella sua vita in forma di un gruppo di profughi africani che protesta in una piazza di Berlino, alla ricerca di visibilità. Su un cartello alle loro spalle,  la scritta: We become visible; diventiamo visibili. 

 

Ph Jan Grarup.

 

Anche il professore è in qualche modo un migrante, un profugo che qualche decennio prima ha cambiato paese, pur rimanendo dov'era. Berlino est e la Repubblica Democratica Tedesca dove Richard viveva e lavorava vengono a un certo punto unificate, nel senso che l'est viene assorbito, fagocitato, annesso dall'ovest e all'ovest e al suo sistema politico, economico e culturale. Ai tedeschi dell'est viene tolta la loro Germania sotto i piedi, come un tappeto vecchio.

Pian piano l'anziano protagonista, comunque adattatosi alla nuova situazione nella quale la sua professione è stata riconosciuta e parificata, viene a conoscere i migranti singolarmente, e noi con lui. Grazie alla conoscenza essi non sono più umani indifferenziati, né per lui né per noi lettori coinvolti in questo romanzo intenso, tormentoso ma dolce, che non esorta all'impegno politico, ma alla riflessione sì. I migranti di Oranienplatz diventano persone, ognuno con un nome, un carattere, una storia, una lingua, un mestiere, un paese e una cultura d'origine. «Nessuno ama i migranti», afferma uno di loro, benché il comportamento di Richard e dei suoi amici, coinvolti anch'essi nell'impresa, paia smentire l'asserzione. Anche questa frase mi è tornata alla mente quando di recente, in Italia, ho reincontrato per caso un ragazzo nigeriano, Frank, che in primavera mi aveva aiutato a zappare il mio orticello e che era rimasto a pranzo da noi e ci aveva raccontato le sue tormentate vicende. Frank e io ci siamo abbracciati e baciati come amici che si incontrano per caso e io mi sono chiesta, chissà da quando non lo abbraccia qualcuno, una persona anziana, sua madre, sua nonna.

 

Con i suoi nuovi conoscenti, Rufu,  Osarobo, Rashid, Mussa, Yaya – che Richard associa, per ricordarli, a divinità dell'Olimpo greco, Zeus tonante, Apollo, Ermes...– il professore in pensione stabilisce un rapporto diretto, imparando a coglierne le inclinazioni e umori individuali. Allo stesso tempo si trova confrontato con le leggi, nazionali e internazionali, e l'assurdità e farraginosità di alcune di esse, che non permettono a quegli uomini di svolgere alcuna attività lavorativa, anzi, alcuna attività in generale. Ecco la condanna per la colpa di essere entrati in un altro paese, un paese ricco dell'Europa dai valori cristiani: la condanna all'inazione e all'attesa, una attesa spossante e insensata. 

Criticato per lo sguardo borghese del suo protagonista, che osserverebbe quel mondo dall'alto del suo benessere e della sua cultura classica, il romanzo ricava invece la sua forza, a mio avviso, proprio da quell'approccio realistico; dall'avere il coraggio di ammettere che è proprio così: chi incontra quell'altro mondo vive in quel suo mondo ma non per questo non prova a uscirne per comprendere l'altro.

 

La filosofia e i migranti

 

Perché non si dovrebbe affrontare il problema ognuno con le sue capacità, ognuno dalla sua posizione di partenza? Anche accademica e cattedratica, certo.  Dalla Germania proviene del resto anche uno dei pochi tentativi di affrontare filosoficamente il problema dei migranti, con la raccolta di studi a cura di Thomas Grundmann e Achim Stephan, ”Welche und wie viele Flüchtlinge sollen wir aufnehmen?”. Philosophische Essays (Quali e quanti profughi dobbiamo accogliere? Saggi filosofici), Reclam, Stuttgart 2016, pp. 156. Si tratta dei saggi di autori selezionati tra i partecipanti a un concorso, bandito dalla Società tedesca di filosofia analitica nel settembre del 2015, aperto a filosofi di ogni stile, purché si rispondesse, in maniera chiara e comprensibile al grande pubblico e in non più di 4.000 parole, alla domanda: «Quali e quanti profughi dobbiamo accogliere?». 

 

Può la filosofia rispondere in maniera seria e completa alla questione proposta dal bando? Ovviamente no, dati tutti gli aspetti giuridici, economici, psicologici, sociali e soprattutto relativi alle politiche di potere che essa investe. Salta comunque subito all'occhio la discordanza tra le posizioni sostenute da studiosi dell'accademia da una parte e dai filosofi mediatici della scena tedesca dall'altra: mentre questi ultimi, basandosi su insinuazioni e paure, dichiarano la loro avversione all'ingresso dei profughi (Peter Sloterdijk con l'affermazione che la Germania si avvia all'autodistruzione, Rüdiger Safranski con il suo campanello d'allarme a proposito dell'inondazione del paese da parte dei profughi), gli accademici autori dei saggi ragionano in maniera perlomeno argomentata, pur riflettendo posizioni molto diverse, dal liberale al restrittivo. 

La domanda del bando lasciava volutamente spazio alla tematizzazione della distinzione tra rifugiati politici e migranti economici, dichiarata praticamente da tutti come irrilevante dal momento che si tratta in ogni caso di persone in stato di bisogno; o anche al soggetto dell'origine regionale, culturale e religiosa dei profughi, come pure a quello di che cosa può significare il «noi» della domanda (quanti e quali profughi dobbiamo noi accogliere?): la prospettiva da assumere è solo tedesca, europea, internazionale, locale?

 

Gli autori presentano in gran parte posizioni affini a quelle di Leibniz,  Kant, o anche Rawls, tutte richiamanti la regola aurea che invita a trattare gli altri come vorresti essere trattato tu. La faccenda non è comunque così semplice, e altri autori si danno da fare a sviscerarla costruendo analogie e argomentazioni che seguono la linea dei classici del pensiero politico moderno; i quali tutti, però, sia che si muovano nella tradizione delle teorie della proprietà, come Locke o Nozick, sia in quella del neocontrattualismo sulla scia di Rawls, sia anche dell'utilitarismo moderno nello stile provocatorio di Peter Singer, arrivano alla medesima conclusione: non esiste giustificazione alla limitazione dei profughi, come non esiste il diritto di nascere nel posto giusto nel momento giusto.

 

Kant e la Carta di Lampedusa

 

Sui fondamenti della responsabilità che abbiamo nell'accogliere i profughi, incorporando nella riflessione i diritti degli stati nazionali, si sono interrogati poi in un breve saggio del 2016 tre ricercatori di lingua tedesca ma di provenienza rispettivamente svizzera, tedesca e austriaca: Andreas Cassee, Matthias Hoesch e Andreas Oberprantacher: Das Flüchtlingsdrama und die Philosophie (Il dramma dei profughi e la filosofia), in «Information Philosophie», pp. 52-60. Con che diritto un gruppo di esseri umani può impedire ad altri esseri umani di calpestare una parte della superficie della terra? Perché  un diritto universale alla libertà di spostamento non fa parte dei diritti dell'uomo? Forse per il motivo che non è un diritto fondamentale, di base? O perché – come illustra Immanuel Kant nel suo piccolo testo del 1795 sulla pace perpetua – il diritto (incondizionato) di visita deve essere tenuto separato dal diritto (condizionato) di ospitalità, dal momento che il primo compete a tutti gli esseri umani in quanto espressione del diritto di movimento, mentre il secondo non ha valore di pretesa universale? La posizione di Kant, per quanto progressista, contiene anche tratti conservatori; la sua ripartizione dei diritti riflette infatti il pensiero che, se è ragionevole presupporre l'esistenza di un diritto comune all'occupazione della superficie terrestre, esso non può non confrontarsi col fatto che sulla superficie della terra sono stati eretti singoli stati che garantiscono la proprietà dei padroni di casa. Ordinamento che cozza contro le posizioni della Carta di Lampedusa del 1.2.2014. La Carta di Lampedusa si fonda sul riconoscimento che tutte e tutti in quanto esseri umani abitiamo la terra come spazio condiviso e che tale appartenenza comune debba essere rispettata. Le differenze devono essere considerate una ricchezza e una fonte di nuove possibilità e mai strumentalizzate per costruire delle barriere...La Carta di Lampedusa assume l’intero pianeta come spazio di applicazione di quanto sancisce, il Mediterraneo come suo luogo di origine e, al centro del Mediterraneo, l’isola di Lampedusa. 

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