Pisanello, il tumulto del mondo
Il protagonista di La donna del tenente francese di John Fowles, in un bosco, si imbatte in una volpe e in un cervo, che si fermano e per un momento puntano gli occhi su di lui. Il suo stupore nasce dal modo in cui i due animali lo guardano, anzi lo fissano: all’improvviso ha l’impressione di trovarsi davanti al “più profondo segreto della natura: l’universale parità dell’esistenza” (“the universal parity of existence”). Per spiegare al lettore questa imprevista rivelazione, Fowles fa ricorso a un quadro di Pisanello, la Visione di sant’Eustachio alla National Gallery di Londra. In una buia foresta, l’elegante cavaliere, durante la caccia, si è arrestato davanti a un cervo tra le cui corna è apparso un crocefisso. L’elemento miracoloso che era alla base del dipinto quattrocentesco passa in secondo piano nel romanzo. Conta molto di più lo sguardo immobile del cervo.
Nello stesso anno in cui esce il romanzo di Fowles – il 1969 – a Mantova viene convocata una conferenza stampa per annunciare una scoperta clamorosa, un ciclo di affreschi di Antonio di Puccio (c. 1395-1455), Pisanello appunto. Nessuno ne aveva scritto, nessuna fonte archivistica o letteraria lo citava; un umanista del tempo aveva lodato altre opere eseguite a Mantova dal pittore, ma non quella.
Per la verità, qualche indizio c’era, ma poco più che una citazione di sfuggita. Nel 1471, una lettera nomina una “sala del Pisanelo” all’interno del Palazzo Ducale di Mantova, ma si stava parlando d’altro, di una cucina da costruire al piano di sopra. Qualche anno dopo si parla ancora della “sala”, ma per precisare che il soffitto stava per crollare.
Dietro alla clamorosa scoperta resa pubblica nel 1969 c’erano le ricerche condotte per anni da una grande figura di soprintendente, Giovanni Paccagnini (1910-1977). Sono gli anni successivi alla mostra mantovana su Andrea Mantegna (1961), esposizione di grande valore scientifico, come di notevole successo di pubblico. Anche la scoperta del ciclo di Pisanello divenne visibile a tutti nella mostra di tre anni dopo, nel 1972.
A mezzo secolo di distanza, una nuova mostra – Pisanello. Il tumulto del mondo (Mantova, Palazzo Ducale, fino all’8 gennaio 2023) – è l’occasione per ammirare il riallestimento della sala e degli ambienti adiacenti, e per riconsiderare – grazie ai saggi raccolti nel bel catalogo curato da Stefano L’Occaso per le edizioni Electa – il ciclo nella sua complessità interna e nel quadro del Gotico Internazionale.
La grande sala (9,50x17,50 m) è decorata su tre pareti. Bordata in alto da un fregio a motivi araldici, la grandiosa scena dipinta sulla parete sud-est si estende infatti anche a quelle adiacenti. Si tratta del combattimento in un torneo (ci sono alcune dame che assistono dall’alto di un palco). Sfoggio di mantelli eleganti, di gualdrappe decorate, di copricapi alla moda, ma questo torneo è tutt’altro che una simulazione dimostrativa.
In alto a sinistra, due schiere di cavalieri si scontrano con lance puntate in tutte le direzioni, alcune spezzate. Ma anche più sotto la mischia infuria. I volti non sono visibili perché coperti dalle celate. Alcuni degli elmi chiusi sono sormontati da esagerati pennacchi colorati, di sicuro per distinguere i cavalieri più eminenti.
Poche pause nella zuffa fittissima: visto da dietro, un cavaliere si avvicina con un passo leggero a un avversario a terra; il primo si è tolto l’elmo, l’altro non è riuscito a trattenerlo, e gli è caduto. Poco più a destra, un altro cavaliere è sdraiato con le gambe aperte, stordito e con gli occhi chiusi; il giovane che lo ha ridotto così cerca di rialzarsi, e intanto lo tiene d’occhio. Cavalieri disarcionati, elmi sul terreno, pezzi d’armatura perduti: più una battaglia che un torneo cortese.
Per quanto si sia discusso sul riconoscimento esatto degli episodi, sin dalla scoperta non ci sono stati dubbi sul fatto che le diverse scene avevano come riferimento il Lancelot du Lac. Del resto, da secoli le leggende del ciclo di Artù godevano di grande successo in Valpadana: verso il 1130, Artus de Bretania era stato ritratto, con altri cavalieri, sulla Porta della Pescheria nel duomo di Modena. E nel Trecento, in una residenza dei Gonzaga a Mantova esisteva già una “saleta Lanzaloti”.
Il passato mitico dei cavalieri antichi si confonde e si proietta sul presente: non solo tutto l’apparato militare (elmi, armi, armature) è quello del primo Quattrocento, ma qua e là spuntano precisi rimandi araldici ai signori di Mantova. L’obiettivo – tra gli altri – è di nobilitare il mestiere delle armi, cioè proprio l’attività che aveva reso potenti i Gonzaga, fornire truppe a chi di volta in volta ne avesse bisogno. L’ambiente, infatti, era destinato alle occasioni ufficiali, e l’insieme delle scene doveva offrire – come osserva Andrea De Marchi – un effetto “avvolgente” e stupefacente, come in una delle miniature delle Très riches heures del duca di Berry, dei fratelli Limbourg.
In un totale contrasto con l’attuale condizione frammentaria del ciclo (per secoli ricoperto da altri intonaci) l’analisi materiale dei dipinti mostra che Pisanello a volte arricchì le gualdrappe dei cavalli o i mantelli dei cavalieri con motivi decorativi impressi a punzone o incisi a stecca, e con rivestimenti in foglie metalliche. I materiali lussuosi servivano a esibire la ricchezza del committente, ma anche a stendere un attraente maquillage sulla ferocia della guerra.
Eppure, questo sfolgorante apparato riguardò solo la parete sud-orientale e poche porzioni di quelle accanto. Tutta la lunga parete nord-est restò infatti incompiuta, con figure dipinte in terra rossa. Ci fu un’improvvisa interruzione dei lavori o, piuttosto, un calcolato décalage per venire incontro a un evento politicamente rilevante e urgente? Nel 1433, infatti, era passato da Mantova Sigismondo di Lussemburgo, in procinto di essere incoronato imperatore; occasione per insignire col titolo di marchese Gianfrancesco Gonzaga (1395-1444) e per concedere quello di cavaliere a tre suoi figli.
Nella parete nord-est, dunque, non ci sono scontri, ma isolate figure di uomini a cavallo: sono i cavalieri erranti alla ricerca del Graal. Alcuni dei loro nomi, seguìti da un epiteto, sono scritti lì accanto in caratteri gotici, ricchi di svolazzi: ecco a cavallo, isolati tra declivi deserti, “Maliez de l’espines”, “Arfassart li gros”, “[Cabi]lor as dures mains” e altri. Iscrizioni ben rifinite, prova perciò – come propone ancora De Marchi – che Pisanello volesse rendere visibile e godibile anche questa parte del ciclo, per quanto in forma provvisoria.
Del resto, per tutto il medioevo (e oltre), la scrittura non si separa dalle immagini. In mostra vediamo alcune medaglie eseguite da Pisanello per Gianfrancesco e Ludovico Gonzaga e altri aristocratici; ispirate alle monete degli imperatori antichi, queste medaglie non avevano corso legale, ma servivano come doni tra membri delle aristocrazie. Ma qui i loro nomi (e le sottoscrizioni dell’artista) non sono più in caratteri gotici, ma in lettere capitali all’antica, una moda consolidata da qualche decennio in molti centri italiani.
Ma torniamo alla parete sud-est: che cosa ci fanno, nella porzione in alto a destra, un’intricata sfilata di alberi, un leone e una leonessa che bada a due cuccioli? Tanto le gesta, quanto le peripezie degli antichi cavalieri qui non arrivano, nessun frastuono della guerra, solo la silenziosa calma dei boschi e delle rocce, la desolazione degli spazi selvaggi. Ma è proprio qui – non nel tumulto del torneo – che si trova il punctum dell’intera parete: quel leone immobile che, da dietro una roccia, punta gli occhi su di noi, e ci fissa. Inutile cercare improbabili simbolismi, c’è solo da accettare lo sguardo della fiera come fanno sant’Eustachio (e il Charles di Fowles) davanti al cervo.
Gli animali, accuratamente studiati nella loro fisionomia e nelle loro posture, sono frequenti nei disegni e nei dipinti di Pisanello: nella tavola di sant’Eustachio (levrieri e altri cani, una lepre, volatili), negli affreschi di Sant’Anastasia a Verona (cavalli, e ancora cani), in uno dei disegni in mostra. Non immaginiamoci Pisanello come un sensibile animalista ante litteram, né come un animo delicato fuori dal suo tempo. Le prestigiose committenze ottenute anche a Venezia, Pavia, Ferrara e Roma descrivono piuttosto un uomo abile e scafato nelle relazioni. Tra 1442 e 1443 verrà bandito dalla Serenissima perché alcuni testimoni lo accusano di aver partecipato con le milizie viscontee al saccheggio di Verona nel 1439. Nel 1442 va a processo (e rischia il taglio della lingua) per aver usato parole pesanti contro la politica di Venezia.
Pisanello continuava a pensare come un uomo del suo tempo, il tardo medioevo, a vedere la realtà come un mondo creato, dove l’esistere ha un’indiscutibile concretezza, condivisa allo stesso grado da uomini, piante, animali. Quando muore, nel 1455, quel complesso fenomeno culturale che siamo soliti chiamare Rinascimento era sbocciato all’incirca da mezzo secolo. Masaccio era scomparso quasi trent’anni prima; la cupola di Santa Maria del Fiore a Firenze era su da una ventina d’anni, e il vecchio Donatello aveva una lunga carriera alle spalle. Quella frase che sentiva ripetere dai suoi amici umanisti, che l’uomo è misura di tutte le cose, Pisanello non l’ha mai condivisa.
Pisanello. Il tumulto del mondo (Mantova, Palazzo Ducale, fino all’8 gennaio 2023). Catalogo a cura di Stefano L’Occaso, ed. Electa.