Speciale Jeff Wall | Lightboxes

28 Maggio 2013

 

È con Jeff Wall che si cominciò già dalla fine degli anni settanta, a parlare di light-boxes, “cassonetti retroilluminati”, e grandi formati. Allora era un rimando e insieme una competizione con la pubblicità e con il cinema, oggi diciamo anche con gli schermi di ogni genere, televisivi, di computer, ipad, telefonini e simili, tutti retroilluminati, che dominano ormai il mondo dell’immagine.

 

In questo modo le immagini non sono illuminate da fuori, come sono sempre state, ma la luce viene proprio da loro verso di noi. L’effetto era ed è alquanto particolare, allucinatorio, come ognuno ben sa: è come se le immagini ci si rivolgessero, vengono verso di noi, pur mantenendo una piena distanza e intoccabilità. C’è sempre nell’arte di Wall questa duplicità, che ne costituisce tutta la stranezza ed enigmaticità, il compimento dell’autonomia modernista dell’immagine e al tempo stesso la sua invasione del mondo reale. Non solo “scrittura di luce” ma anche “emanazione di luce”, e con essa di scrittura e di immagine.

 

Come con la scatoletta di sardine di lacaniana memoria, le immagini ci guardano, emanano uno sguardo su di noi. Anche la scatoletta di Wall galleggia, simile nella forma a una barchetta, su una sorta di stagno solido e insieme impalpabile, la superficie.

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