Ugo Mulas
Pubblichiamo un estratto del libro Ugo Mulas di Elio Grazioli, edito da Bruno Mondadori, qui commentato da Antonello Frongia e Luigi Grazioli.
Il saggio viene presentato oggi 26 maggio, alle 18.30, allo Fondazione Forma di Milano.
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Antonello Frongia
Senza le Verifiche realizzate da Ugo Mulas tra il 1968 e il 1972 la fotografia italiana contemporanea sarebbe nata con un decennio di ritardo. Queste quattordici medita zioni in testo/immagine sulle varia bili del linguaggio fotografico – dal negativo al tempo, dall’ingrandi mento alla didascalia – relazionarono la pratica fotografica al Concet tuale, ma divennero anche un’im prescindibile cassetta degli attrezzi per generazioni di critici, studiosi, persino fotoamatori. Nel 1973, l’anno della prematura scomparsa di Mulas, un libro curato da Paolo Fossati per Einaudi e un’importan te retrospettiva allestita da Arturo Carlo Quintavalle al CSAC di Par ma resero le Verifiche un testo di base, quasi un abbecedario foto grafico da rileggere e riguardare, che faceva dialogare il mito delle origini di Niépce e Talbot con il blow-up di Michelangelo Antonio ni, le ricerche storiche di Lamberto Vitali con l’attualità di Duchamp e di Kounellis. Ma da quel momento il laboratorio delle Verifiche venne visto sempre più come una sorta di unicum, quasi un atto postremo di concettualizzazione dopo una carriera dedicata da Mulas al pragmatismo della professione.
Elio Grazioli, in un agile quanto meditato excursus appena pubbli cato da Bruno Mondadori (Ugo Mu las, pp. 224, € 19,00), propone di sovvertire questo schema interpre tativo, recuperando la profonda unità realista-concettuale del foto grafo sin dai suoi esordi negli anni cinquanta. In venti capitoli che ne scandiscono la biografia come con fronto con situazioni reali – luoghi, artisti, opere, viaggi – Grazioli ci propone utilmente di tornare a guardare l’opera di Mulas, di verifi carne quella realtà fenomenica che non è totalmente esauribile nellogos del “concetto” o nella sociologia della cultura.
Il riflesso in un vetro, un biancore della carta fotografica, il fantasma di una solarizzazione, persino un gesto o uno sguardo, sono per Gra zioli l’esito di decisioni artistiche che tornano a essere eventi visivi autonomi, metaesercizi sulla luce che il fotografo pensa ed espone ma che sta allo spettatore rilevare e ripensare. Si tratta dunque di un “circolo arte-realtà-arte in cui non viene mai meno la centralità del reale”; di una concettualità non separabile dalla percezione e dalla presenza materiale dell’opera.
Con una narrazione allo stesso tempo circolare, sensibile e profon da, Grazioli ci restituisce intatta la tensione di Mulas nel continuum del suo operare, dalla progettazio ne del lavoro alla performance del la ripresa, dalla produzione dell’oggetto al discorso critico. Già nel 2004, in una intelligente mostra allestita al Man di Nuoro, Grazioli suggeriva di non separare “il ‘concetto’ dall’uomo che guarda” – un principio importante non solo per la critica ma per l’intera storia del medium.Ma proprio perché Mulas credeva fermamente e con buon anticipo nella sparizione del foto grafo a favore del soggetto, nella barthesiana “morte” dell’autore e nel grado zero della fotografia, rivi vere il suo sguardo significa oggi cogliere il sottile paradosso di un artista che, duchampianamente, si manifesta ancora per assenza.
Da “Alias”, n. 49, 11 dicembre 2010
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Luigi Grazioli
Non ho mai scritto niente sul lavoro di mio fratello Elio per una forma di pudore che certamente egli condivide, ma che non per questo è meno sciocca. Ma tant’è: siamo fatti così, un po’ storti. Io di sicuro.
Colmo ora la lacuna approfittando dello spazio di questo blog, che in qualche modo si configura come “privato”: nel senso che è mio, per quanto chiunque possa accedervi e lasciare una traccia se lo desidera, e che lo frequentano solo pochi amici, con i quali il pudore, almeno un po’, può essere lasciato in disparte. Altrimenti a cosa serve la comunicazione affettiva che passa sotto il nome di amicizia? Se è vero che con gli amici a volte non c’è nemmeno bisogno di parlare, lo è ancor di più che è bello poterlo fare quando lo si vuole. Tra l’altro io fatico a concepire una comunicazione che non sia affettiva. Confessione che verrà forse buona più avanti. Non si viaggia mai su una sola corsia.
E così va anche il libro di Elio su Ugo Mulas: quella che si presenta come una monografia di tipo quasi introduttivo, per studenti universitari, che segue passo passo il percorso artistico di Mulas, è in realtà molto di più. Elio ha fatto proprie alcune delle caratteristiche del modo di procedere di Mulas, discreto, gentile, quasi nascondendosi, o eclissandosi, dietro l’oggetto (per Mulas la macchina), per poi compiere una vasta riflessione sulla fotografia e sul suo rapporto con la storia della fotografia e delle arti contemporanee.
Non sto a seguire tutto il tracciato nelle sue molteplici diramazioni. Voglio mettere in evidenza uno degli aspetti fondamentali, quello della riflessione sul proprio operare come sorta di autoritratto indiretto. Riflessione che è interna al lavoro, ma si accompagna anche di dichiarazioni esplicite e si elabora nel rapporto continuo con l’opera di altri, non necessariamente della stessa professione (pittori, scultori e poeti soprattutto). È una riflessione che passa quindi necessariamente per altro, e per altri: che ne sono il mezzo, e il tramite, lo specchio e lo schermo, sapendo che non ci si può centrare su se stessi se non passando per infinite deviazioni, ri-flessioni. Che non è un sotterfugio per subordinare la realtà alle proprie debolezze o al proprio narcisismo (che è un’altra forma di debolezza, costitutiva e indispensabile però), ma un modo di confrontarsi con la realtà sapendo che di fatto non la si può nemmeno vedere se non si tiene in considerazione il nostro ruolo per costituirla.
La macchina fotografica, l’operazione del fotografare, l’azione della foto-grafia, della luce e della materia sui cui viene fissata, sono sempre stati un’ottima occasione per operare queste deviazioni e ritorni, proprio nella misura in cui gran parte del lavoro stesso è completamente indipendente dal fotografo. L’aspetto “meta”, come è noto, è fondamentale per ogni operazione artistica, e non solo nel 900, anche se a partire dal secolo scorso è stato reso vieppiù centrale e esplicito, con risultati artistici non sempre entusiasmanti, bisogna dirlo. Il contributo originale di Mulas, che il libro analizza benissimo nelle sue differenti implicazioni, consiste nelle forme in cui egli lo lega alla propria vita, nell’atteggiamento che esso comporta nei confronti del mondo, degli altri e di se stesso. Non si tratta quindi di mettere a fuoco i mezzi del mestiere, i trucchi e le potenzialità dello specifico strumento e linguaggio, che costituiscono in apparenza il fulcro di due delle sue opere più importanti (La fotografia e Verifiche) ma di mettersi in gioco senza darlo a vedere, in modo insieme etico e artistico.
Se vuoi che l’obiettivo sia obbiettivo, devi sapere che ruolo giochi tu dietro di esso, e prima e dopo. Altrimenti, è risaputo, si finisce per mettersi, e farsi ritrovare, laddove meno si vorrebbe o sarebbe il caso. Elio sviluppa questa tematica lungo tutto il libro ma in particolare quando, nel prendere in esame ad una ad una le Verifiche sviluppando in modo molto sottile non solo i complessi rapporti con pittori e fotografi e la capacità della fotografia di essere critica d’arte in un dialogo che interroga e si lascia interrogare a partire dall’eterogeneità di un linguaggio che vuole in primo luogo capire se stesso (e il proprio rapporto con il mondo e con colui che lo usa), insiste anche sulla bellezza delle immagini, specie laddove sembra che non siano che indagini delle potenzialità e dei limiti della tecnica e dello strumento o riscontri “oggettivi” delle procedure.
Una bellezza che rileva dell’arte a Mulas contemporanea e fa segno verso vie di superamento di certe sue impasses (di quella concettuale soprattutto), in modo discreto ma sicuro, non cercando una differenza radicale, ma tramite la presa in conto di alcune delle scene primarie dell’arte contemporanea stessa (Duchamp e Warhol su tutti), e soprattutto della storia del suo proprio ambito, la fotografia (Niépce).
Non sono elementi che risultano così evidenti nell’insieme del lavoro molto ampio e diversificato di Mulas: il pregio del libro di Elio è di averne dipanato i fili, tessendone la storia in modo quasi impercettibile ma coinvolgente. Pur con la matita in mano, ho infatti letto questo libro lasciandomi prendere come con un romanzo. Trovo che esso abbia qualcosa di un romanzo non nel senso della ricerca di effetti narrativi vistosi o dell’adozione di qualche forma di biografia romanzata, ma nelle forme che vi prende il tempo.
Il tempo della biografia e delle differenti attività, certo, che Elio ricostruisce con scrupolo e chiarezza, ma intrecciato al tempo della storia dell’arte e civile, a quello teleologico che attraverso gli esiti finali (soprattutto di Verifiche) permette di dipanare i fili di cui dicevo, e insieme a quello dell’interiorità di Mulas, della sua fedeltà alle proprie scene primarie (la prima macchina fotografica in prestito, il desiderio di cogliere gli effetti della luce di un fiammifero che si accende ecc.; l’attenzione non a momenti speciali, ma ogni momento della vita ecc.).
È un tempo che va avanti e torna indietro modificato e arricchito, che si nutre di incontri e scoperte personali e di eventi storici colti nel loro farsi, e percorre, e insieme traccia, strade che vengono abbandonate e poi riprese incrociandole da altre direzioni che proiettano nuove luci e che trovano infine il loro punto di composizione ma non di chiusura. Non ci fosse la morte. Ma ciò che la morte ha interrotto per Mulas, ha lasciato aperto per chi viene dopo, se sa guardare e imparare.
Ha scritto Walter Benjamin nel saggio Lo scrittore come produttore che “uno scrittore che non istruisce gli altri scrittori non istruisce nessuno”: vale per ogni produttore. Va aggiunto ovviamente che si tratta di una didattica che, anche quando si traduce in tecnica, non può che passare per l’effetto estetico. È esattamente quello che Elio ha portato alla luce (per quanto facile, uso la metafora di proposito) nell’opera di Mulas, senza dimenticare le gradazioni che essa prende quando si traduce in ombra o filtra attraverso il fumo. Ma è anche quello che mi ha insegnato il libro stesso di Elio, con l’identico pudore che egli riscontra nel lavoro e nella personalità di Mulas, ma anche con la sua stessa decisione di affrontare fino in fondo le cose che condivide con lui. È lo stesso pudore che io ho messo tra parentesi qui, una volta tanto. Sono contento di averlo fatto per rendere omaggio a mio fratello. Credo che il migliore omaggio sia mostrare di avere imparato qualcosa. O almeno tentare. Se poi ci sono magagne, sono tutte del discente, ça va sans dire. Ma avere tentato, a volte basta. A me, quantomeno.
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