Vittorio Gassman: tenero è il mostro

1 Settembre 2022

In una delle ultime interviste televisive, Vittorio Gassman confessava che, dopo morto, gli sarebbe piaciuto farsi imbalsamare. Non sono più riuscito a rintracciare la fonte esatta, ma la circostanza è stata confermata anni dopo dal figlio Alessandro in un suo libro. Imbalsamato “come un gufo in salotto”, diceva. Un gufo parlante, però: aveva infatti previsto di incidere alcune frasi di circostanza su di un nastro magnetico, che un apposito congegno meccanico avrebbe diffuso nella casa tramite un piccolo altoparlante. Un espediente un po’ macchinoso per poter comunque dire la sua, per aver l’ultima parola, per farsi beffe della morte. Sembra che si fosse consultato persino con Andreotti in persona, salvo scoprire in seguito che la legge italiana non lo consente. 

Imbalsamato, come i grandi “mostri” di un tempo, esposti alla meraviglia dei curiosi. Per Gassman sarebbe stato il compimento di un percorso: “Monstrum” era infatti il termine adoperato da un critico che lo conosceva molto bene, Giacomo Gambetti, in un bel libro di qualche anno fa (Il teatro e il cinema di Vittorio Gassman, 2006). A un secolo esatto dalla nascita (a Genova, il 1° settembre del 1922, con una “n” in più alla fine del cognome) possiamo dirlo: nella fauna variopinta dello spettacolo italiano del secondo Novecento, Gassman è stato davvero uno strano animale. Uno scherzo della natura, e come tale in grado di suscitare al tempo stesso ammirazione e repulsione. “Altero, grigio, corretto, e con un fondo di timidezza”: così appariva negli anni in cui era studente all’Accademia d’arte drammatica, nelle parole di Mario Soldati a Davide Lajolo (Conversazioni in una stanza chiusa, 1983). “Non riusciva a essere ‘buono e simpatico’. Dai suoi tratti duri, dagli occhi non grandi e come timidi, dalla linea forte e spezzata del naso, dalla bocca piccola e crudele, traspariva […] qualcosa che gelava e scostava lo spettatore”.

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Gassman nei panni di Amleto, 1957.

A porre la questione nei suoi giusti termini è stato un critico non certo generoso con il Nostro, Tullio Kezich, che già nel 1962 scriveva: “Si può dire che Gassman stia con la testa nel nostro secolo e i piedi ben piantati in una remota tradizione mattatoriale”. Volendo proseguire nella metafora zoologica da cui siamo partiti, lo si potrebbe definire una “forma transizionale”, termine che nell’ambito della tassonomia evoluzionistica indica appunto quelle specie animali che presentano caratteristiche tali da porsi a un livello intermedio nella linea evolutiva. 

A dispetto dell’età e della preparazione rigorosamente accademica (suoi compagni di corso erano, tra gli altri, Vittorio Caprioli, Adolfo Celi, Luciano Salce), il legame di Gassman con quel “teatro all’antica italiana”, mirabilmente descritto da Sergio Tofano, rimaneva fortissimo. Un legame “di sangue”, se così si può dire, sancito da un primo matrimonio con Nora Ricci, figlia di quel Renzo che, oltre a essere stato uno dei nostri interpreti teatrali di maggior rilievo a cavallo della Seconda guerra mondiale, era anche suocero di Ermete Zacconi, emblema vivente (allora) del Grand’Attore. 

Di quella tradizione, ricordava ancora Kezich, Gassman possedeva “il fisico e i polmoni”; e tuttavia era pur sempre maturato in quel clima di “fervido revisionismo” che si era diffuso nel teatro italiano durante e immediatamente dopo la guerra. Anche lui, all’occorrenza, veste i panni del regista-critico, collaborando con l’ex compagno di studi Luigi Squarzina. Nel 1952, a soli trent’anni, i due danno vita al Teatro d’Arte Italiano, portando in scena la prima versione integrale italiana dell’Amleto di Shakespeare. Seguiranno scelte insolite e rischiose per l’epoca, come il Tieste di Seneca e I persiani e Prometeo incatenato di Eschilo; finché, nel 1954, un contrasto sorto per divergenze artistiche porterà a una brusca rottura del sodalizio.

In effetti, il Gassman teatrale è stato soprattutto un attore-autore che rifugge appena può la presenza del regista. A parte la rottura con Squarzina, pensiamo al rapporto subito interrotto con Luchino Visconti; all’incontro continuamente rimandato e infine definitivamente mancato con Strehler, che l’avrebbe voluto per un Faust poi messo in scena in prima persona; alla collaborazione fortunata ma occasionale con Ronconi per il Riccardo III del 1967. 

“Moderno nei dibattiti e antico sul palcoscenico”, riassumeva il solito Kezich con una formula particolarmente indovinata. Indubbiamente, la vocazione più autentica del Gassman teatrale si nutriva di suggestioni pre-novecentesche. A cominciare dal confronto, durato tutta la vita, con Edmund Kean, il geniale ma turbolento protagonista della scena romantica inglese, portato a più riprese sul palcoscenico (Kean, genio e sregolatezza, nel 1954 e O Cesare o nessuno, nel 1975) e persino sul grande schermo. “Più che un cavallo di battaglia, un’ossessione”, scriveva nel 1997 Franco Quadri in occasione di una ripresa dello spettacolo del 1975.

Allo stesso modo, esperienze al di fuori dei circuiti tradizionali come quella itinerante del “Teatro Popolare Italiano” (1959-61), per quanto talvolta straordinariamente anticipatrici, riviste oggi appaiono forse più vicine all’antica usanza del capocomicato che non alle coeve vicende dell’avanguardia nostrana, con cui Gassman ebbe un dialogo a tratti burrascoso. Valga per tutti il rapporto con Carmelo Bene, fatto di conflitti e di curiosità reciproca (erano nati lo stesso giorno alla stessa ora). In una lunga conversazione con Luciano Lucignani (Intervista sul teatro, 1982) Gassman l’aveva definito “un enorme bugiardo con un fondo di totale sincerità”: una definizione in cui forse egli stesso si riconosceva.

Legato a formule arcaiche è anche un altro aspetto della personalità attoriale di Gassman, forse il più importante e decisivo. Qualcosa che sta addirittura prima del teatro, e che fa pensare ancora una volta a certe prove di destrezza fisica dei saltimbanchi e dei funamboli, se non addirittura al side show e alle sue esibizioni di “prodigi”. Un bisogno continuo, quasi prometeico, di rilanciare la sfida con se stesso, di mettersi continuamente alla prova. Del resto Gassman, prima che attore (professione per la quale, l’ha raccontato più volte, non si sentiva portato e a cui venne spinto dalle continue insistenze materne) era stato un atleta, impegnato in varie discipline e soprattutto nel basket, per il quale gareggiò perfino in Nazionale.

Ma l’aneddotica sull’atteggiamento competitivo di Gassman dentro e fuori la finzione scenica è vastissima e perfino un po’ sospetta. “Si divertiva a sfidare gli altri attori. Leggeva una pagina intera di un libro e te la ripeteva alla perfezione”, raccontava Mario Monicelli nel 2005 a Sebastiano Mondadori. “Avevamo fondato il Club dei Primati: un gruppo di amici con lo spirito molto goliardico che volevano divertirsi. A casa sua aveva fatto costruire un teatrino dove si recitava, si facevano giochi, quiz, che vinceva sempre lui”.

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Nelle sue dichiarazioni sul mestiere d’attore, Gassman ha sempre sottolineato l’elemento ludico, il “gioco” (play, jeu, spiel) intellettuale e fisico, alla base della professione. Un gioco che talvolta assume dei tratti più o meno patologici. L’attore, spiegava a Lucignani, “è un mestiere che ha delle componenti di carattere patologico, e in cui la malattia, paradossalmente, non solo esiste, ma non si può nemmeno ragionevolmente tentare di estirparla. È, in un certo senso, una malattia che bisogna cercare di aggravare”. Non è un caso che uno dei primi spettacoli allestiti insieme agli allievi della sua Bottega Teatrale avesse per titolo Fa male il teatro? 

Una “malattia” che lo stesso Gassman non esiterà a inocularsi in prima persona, come una vera e propria “cavia umana”, in quel singolare e persino un po’ allarmante esperimento che fu, nel 1977, Sette giorni all’asta, allestito presso il glorioso Teatro Tenda di piazza Mancini a Roma. “L’Asta è stata una svendita del deposito accumulato in tanti anni di lavoro”, racconterà qualche anno più tardi l’attore, nell’autobiografico Un grande avvenire dietro le spalle (1981), “ore e ore memorizzate di repertorio teatrale, poetico o narrativo. E, in più, una sfida iattante al tempo e alla resistenza fisica: rimasi sei giorni nella tenda, dormendo brevi sonni in roulotte, salvo svegliarmi e ricominciare a recitare se si presentavano degli spettatori notturni. […] Recitai tutto, da Dante a Prévert; ospitai in palcoscenico gli improptus degli amici attori, giocai col pubblico al football e alla torre […] Stavolta davvero tutta la mia vita si era travasata nello spazio scenico, il medico e l’avvocato mi visitavano in teatro, teoricamente avrei potuto restarci per sempre”. 

C’è quasi da restare atterriti di fronte alle capacità di questa vera e propria “macchina attoriale”, quest’esibizione/esposizione di sé ai limiti del suicidio rituale (“Mi sventrai con allegria”). E si finiscono quasi per comprendere il malumore e il rifiuto di molta critica (da Achille Campanile a Vittorio Spinazzola), che nel corso degli anni l’aveva accusato di effettismo, di gigioneria e di indisciplina: di voler insomma ottenere il molto con il poco, anteponendo i trucchi del mestiere a una ricerca meditata e faticosa. Ma Gassman non cercava l’ammirazione a ogni costo: come l’artista del digiuno del celebre racconto di Kafka, semplicemente non poteva fare a meno di essere quello che era. 

Forse è per questo che, fra i tanti linguaggi che ha attraversato in una carriera lunga mezzo secolo, il medium che più gli ha permesso di inventarsi e di inventare è stata la televisione. O, più correttamente, quello strano ibrido di arcaismo e modernità che era la televisione italiana degli anni Cinquanta. A cominciare dal titolo divenuto proverbiale, Il Mattatore (1959) è stato al tempo stesso un unicum televisivo e un apripista, tanto che lo stesso Gassman ne riprodurrà la formula, su scala decisamente minore, in altre due importanti esperienze sul piccolo schermo: Il gioco degli eroi (1963) e Canzonissima 1972. Aldo Grasso ha definito Il Mattatore “l’invenzione del contenitore quando ancora non si sapeva cosa fosse il contenitore”. Una trasmissione-contenitore per un interprete-contenitore, che mescolava volentieri, con gusto eclettico e senza falsi pudori, Shakespeare e l’avanspettacolo, fiction e non-fiction, grande letteratura e rotocalco, slapstick e satira politica. E che si chiudeva nell’unico spazio realmente capace, forse, di contenere Gassman per intero: il tendone del circo.

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Gassman in “Riso amaro”, 1949.

E il cinema? Curiosamente, i rapporti con il mezzo che gli darà maggiore popolarità presso il grande pubblico (non solo quello italiano) sono stati a lungo improntati a una marcata diffidenza, soprattutto in seguito a una deludente esperienza hollywoodiana a metà degli anni Cinquanta. “Tra me e il cinema ci fu antipatia fin dal primo momento”, dichiarava Gassman nel 1957 in un’intervista al settimanale “Epoca”. “Io detestavo del cinema la frammentarietà e il caos, e il cinema si vendicava facendomi rigido, amorfo e antipatico”. Rigidità e antipatia: di fatto, si trovava a scontare le stesse contraddizioni affrontate inizialmente a teatro, se non di più. La presenza fisica ingombrante, difficile da contenere nello spazio dell’inquadratura, lo relegava a ruoli da villain (celeberrimo quello di Riso amaro, 1949), o, peggio, da latin lover. “Ho un fisico un po’ particolare, che ha bisogno di certi ruoli,”, ammetterà molti anni più tardi, in una testimonianza resa a Franca Faldini e Goffredo Fofi per la loro Avventurosa storia del cinema italiano, “ho un tipo di recitazione che ha sempre avuto bisogno di personaggi un pochino sopra le righe… Non sono il personaggio della porta accanto”. Non a caso Fellini l’avrebbe definito in seguito “nobile principe tedesco”.

La “rinascita” e la definitiva affermazione come interprete di successo sul grande schermo arrivano alla fine degli anni Cinquanta grazie a Monicelli e a I soliti ignoti (1958). È un deciso cambio di marcia, dal dramma alla commedia. Deciso ma non improvviso, né tanto meno inatteso: quel gusto per il gioco, la moltiplicazione e il travestimento che abbiamo ricordato era già emerso a teatro in quella sorta di spettacolo-incubatore che fu I tromboni (1956) di Federico Zardi. Da lì vengono sia Il mattatore televisivo, sia i primi ruoli brillanti al cinema. Dopo i Soliti ignoti, Monicelli lo dirige ancora in La grande guerra (1959), mentre Dino Risi ne sfrutta la verve fregolistica in Il mattatore (1960), che si rifà, almeno nel titolo, al successo della trasmissione TV.

Tre ruoli caratterizzati da una marcata trasformazione somatica, a cominciare da quello di Peppe, il boxeur suonato capo della scalcinata banda di ladri di I soliti ignoti. Monicelli ricordava di aver lavorato a lungo a fianco dell’attore e del costumista-scenografo Piero Gherardi: “Per truccarlo da delinquentello impiegammo diversi giorni”, spiegherà il regista. “Una vera metamorfosi per Gassman, con quell’aria aristocratica e intellettuale, a detta dei produttori. Gli abbassammo l’attaccatura dei capelli per dargli delle fattezze un po’ ‘gorillesche’. Gli mettemmo in bocca l’apparecchio di sughero – forse in quell’occasione ci venne in mente di farlo tartagliare un po’ – in modo da ingrossargli le labbra sottili. Gli infilammo pure dei tamponi nelle narici, e soprattutto gli togliemmo la gobba dal naso”. Gassman gliene sarà sempre grato: “Monicelli per me è stato anche un maestro, oltre che il mio scopritore”.

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Con Carlo Pisacane, Marcello Mastroianni e Tiberio Murgia in “I soliti ignoti”, 1958.

I principali ruoli che Gassman interpreta per Monicelli si caratterizzano per un’interpretazione più o meno sopra le righe: la balbuzie di Peppe (il tormentone sul colpo “sssscientifico”), il milanese farfugliato del Busacca di La Grande Guerra (“Lasarun, purcun, vigliacch, lader d’un romano!”), le ampollosità di Brancaleone da Norcia nel dittico (1966-70) composto da L’Armata Brancaleone e dal sequel Brancaleone alle Crociate (“Via le gran lordure! Via li stracci penduli e le caccavelle e li velli!... Disciplina! Fora i petti, semo l’Armata Brancaleone, sangue di Giuda!”). In qualche modo, sono tutte variazioni del Miles Gloriosus plautino, in apparenza burbero e magniloquente, ma sotto sotto ingenuo – o più semplicemente, per dirla con Monicelli, “un coglione, però coraggioso”.

L’invenzione della normalità, per Gassman, coincide con il sodalizio con Dino Risi, che lo dirige in una quindicina di titoli fino al 1990. “Dino smontò la maschera espressionistica che Monicelli aveva inventato”, ricorderà l’attore nell’autobiografia del 1981, “fu il primo a osare di darmi un ruolo di un uomo qualunque, col mio viso ostentato senza protezioni”. Tolto il primo incontro, ancora sotto il segno del travestimento, con Il mattatore (nel quale comunque non mancano i pezzi di bravura, dal viveur dall’accento francese al borgataro, dal generale dell’aeronautica all’imitazione di Greta Garbo: “I think Italian sea is extremely marittim!”) ed escludendo il dispositivo a sketch di I mostri (1963), a metà con l’amico e collega Ugo Tognazzi, il personaggio-chiave di questa evoluzione è il Bruno Cortona di Il sorpasso (1962). Un film che lo stesso Gassman indicava fra i suoi preferiti e che lo proietta definitivamente fra i “colonnelli” della commedia di costume nostrana, a fianco di Sordi, Manfredi e dello stesso Tognazzi.  

 

Rispetto ai ruoli monicelliani, nei film con Risi prevale in Gassman quello che Gianni Canova ha definito “il questuante borghese, velleitario e un po’ cialtrone”, sotto il quale trapela comunque l’atavico sostrato “rozzo, avido, scaramantico”. Tali saranno, con qualche variazione, lo scalcinato PR Marco Ravicchio nel bellissimo e ancora troppo sottovalutato Il Gaucho (1964), il dirigente in crisi di mezza età Vincenzini di Il Tigre (1965), l’eremita opportunista di Il Profeta (1968); fino al corrotto capitano d’industria Santenocito di Il nome del popolo italiano (1970), nel quale la cialtroneria tutto sommato innocua dei film precedenti si tinge di nero, con storture patologiche che per certi versi sembrano preludere al più tardo Anima persa (1977). Su questa stessa linea, ma con minore successo, si metteranno in quegli anni anche altri epigoni di Risi, da Mauro Morassi con Il successo (1964), un quasi-sequel del Sorpasso che venne portato a termine proprio dallo stesso Risi, a Franco Indovina con Lo scatenato (1968).

Tratto comune a tutti i personaggi gassmaniani è comunque una certa fragilità di fondo, destinata a emergere sempre più nei ruoli della piena maturità, soprattutto grazie all’apporto di Ettore Scola. Con lui, Gassman dà vita a personaggi più sfumati, come il Gianni Perego di C’eravamo tanto amati (1974), “perdente di successo” che smarrisce amici, amore e ideali nella sua spasmodica ricerca del benessere; o persino crepuscolari, come il Mario D’Orazio di La terrazza (1980), deputato comunista in crisi ideologica e sentimentale, ruolo per cui arrivò a perdere una ventina di chili.

Spogliandosi man mano degli attributi del primattore, per Scola Gassman diventerà sempre più una sorta di “osservatore partecipante”, al tempo stesso ironico e malinconico. Avremo quindi il Carlo di La famiglia (1987), obliquo testimone di ottant’anni di storia italiana, e infine il Maestro di La cena (1998), in cui il Nostro, ormai anziano, sembra quasi volersi fare da parte, per darsi finalmente alla contemplazione divertita del gran spettacolo del mondo.

 

Ma è ancora con Risi che Gassman agguanta il ruolo forse più emblematico, di sicuro il più fortunato, che gli vale il premio a Cannes per la migliore interpretazione maschile: il capitano Fausto Consolo di Profumo di donna (1974), ex militare reso cieco e menomato da un incidente. “Sai cosa sono io? L’undici di picche. Una carta che non sta nel mazzo, buona per nessun gioco”: così dice di se stesso al termine della vicenda, dopo un tentativo di suicidio andato a vuoto un po’ per viltà e un po’ per un irresistibile attaccamento alla vita. Film diseguale, con qualche tentazione letteraria di troppo (è tratto da un romanzo di Giovanni Arpino), reso meno incisivo da un happy ending un po’ incongruo, Profumo di donna è un Sorpasso alla rovescia (da Nord a Sud), un altro viaggio verso la morte ma senza euforia, senza alcun senso della scoperta, senza più niente da vedere. Del resto, come ha giustamente osservato Enrico Giacovelli, la stessa cecità del protagonista è un furibondo scrutarsi dentro, “una forma estrema di solipsismo”. “I ciechi non vedono le cose come sono, ma come immaginano che siano”, dice Gassman/Consolo nel film. “Ma io no, io non immagino niente. Non ricordo niente. Potessi vedere il mondo, qui, adesso, credo che guarderei solo pietre, deserti. Nemmeno animali, alberi… Solo pietre. Perché anch’io sono una pietra”. 

Qui vita e arte finiscono inevitabilmente per sovrapporsi. La capacità introspettiva di Gassman, affinata nel corso dei decenni, lo soccorre quando, a cominciare dai primi anni Ottanta, inizia a manifestare frequenti crisi depressive. Ne scaturirà una vena letteraria e poetica che accompagnerà l’ultima parte della sua vita, in concomitanza con il diradarsi degli impegni cinematografici e teatrali. Una produzione a suo modo singolare e tutt’altro che d’occasione, a cominciare da quel testo inclassificabile che è Un grande avvenire dietro le spalle. Ma anche una sorta di personale ricerca delle radici, che ha il proprio pendant teatrale nelle letture dantesche per la RAI (1993-1995) e, prima ancora, nello spettacolo Ulisse e la balena bianca (1992), testamento spirituale dal quale verranno ricavati un libro, un film e uno speciale televisivo in tre puntate.

L’occasione semi-istituzionale (i 500 anni del viaggio di Colombo verso le Indie), il sontuoso impianto spettacolare (l’allestimento di Renzo Piano, le musiche di Nicola Piovani), l’ampiezza dei riferimenti letterari: nessuno di questi elementi, per quanto ingombranti, riesce a schiacciare il cuore pulsante del progetto, ovvero l’ennesima sfida, fisica e mentale, di Gassman. Ennesima e ultima: dietro quella “voce gonfia di arcane memorie” e quella “figura monumentale e magnetica”, un critico particolarmente sensibile come Franco Quadri aveva colto infatti il “velo triste del presagio”, che Gassman restituiva ai compagni di scena “sotto forma di cameratismo protettivo”. 

L’ennesima conferma dell’anima duplice di Vittorio Gassman: po’ burattinaio e un po’ burattino, “monstrum” sulla scena e vulnerabile nella vita. Uno che sul grande schermo arrivò a sfidare a duello persino la Morte in persona (in Brancaleone alle Crociate: “Sai tu quant’anni ho io? Ne ho cento!”), ma che sulla sua lapide volle definirsi semplicemente “Attore”, limitandosi a precisare, nell’ultimo guizzo di autoironico orgoglio, di non essere mai stato “impallato”.

L’immagine di copertina è di Alberto Cristofari.

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