Speciale
Archeologia dello yacht
Qual è la prima cosa che vi viene in mente sentendo la parola “yacht”? Per molti della mia generazione, la parola si porta dietro foto rubate, foto in posa, foto rubate per finta. Tutta una serie di immagini viste, più che in televisione, sulle copertine dei rotocalchi, con “ampio servizio all’interno”. Il messaggio sottinteso era più o meno lo stesso: guarda pure, tanto tu qui non arrivi. Gente elegantissima come a una prima teatrale, ma anche nomi famosi in camicia e costume da bagno.
Per la verità, la più famosa di queste foto da teleobiettivo non è a bordo di uno yacht, ma di un motoscafo, lungo un molo di Ischia. Nel 1962, durante una pausa della lavorazione di Cleopatra, Marcello Geppetti ebbe l’intuizione e la prontezza di riprendere Elizabeth Taylor, allora sposata con Eddie Fisher, e Richard Burton mentre si baciano (quasi) indisturbati.
In quel momento la foto scosse l’opinione pubblica per lo scandalo sottinteso, ma in realtà colpiva per l’iconografia amorosa, inedita e canonica allo stesso tempo: agli occhi degli spettatori del tempo la posa dell’attore sdraiato e proteso verso il viso dell’attrice condensava abbandono e slancio. La naturalezza della situazione, nel frattempo, era garantita dalle gambe di lei, in una posa per niente studiata, i piedi uno contro l’altro. Anche i due pacchetti di sigarette facevano la loro parte, lasciati lì accanto, uno vicino all’altro.
Una foto di sette anni dopo riguarda ancora Taylor e Burton, questa volta a bordo dello yacht Kalizma ormeggiato sul Tamigi. I due attori erano impegnati a Londra in due film diversi, ma nelle pause si ritiravano sull’imbarcazione, immancabilmente presa di mira dai fotografi e non solo. Ron Galella, specializzato nella caccia alle celebrità (e in questo apprezzato anche da Andy Warhol), riuscì a fissare il momento in cui una barca con turisti sfiora lo yacht e la stessa Elizabeth Taylor, aiutata da uno steward, tenta di alzare una specie di tendaggio protettivo attorno al ponte.
In quegli anni, sui mari c’era un altro yacht altrettanto ricercato, quello di un famoso armatore greco, Aristotele Onassis. Fotografi che avevano il permesso di salire a bordo ritrassero gli interni e gli arredi, altri che non l’avevano si limitarono a scatti da lontano. I primi descrivevano l’aspetto magnifico di una residenza di lusso sul mare, gli altri offrivano appetitose indiscrezioni, raccontando visite inaspettate, ospiti di primissimo piano, storie d’amore.
Lo yacht, per quanto bellissimo, non sembra avesse dettagli stravaganti. Tranne uno: lo spazio al centro del ponte che a prima vista sembrerebbe una piscina. Lo intravvediamo in alcuni scatti mentre alcuni ospiti conversano proprio in quel punto.
Era un grande mosaico che riproponeva una delle scene più celebri tra quelle scoperte agli inizi del Novecento sui muri di Knossos, a Creta, oggi nel Museo Archeologico di Iraklion: il giovane che compie una serie di evoluzioni su un toro alla presenza di due ragazze dalla carnagione bianchissima. Il dipinto, risalente al secondo millennio a. C., è alto poco meno di un metro: nella sua traduzione a mosaico sullo yacht di Onassis assunse dunque dimensioni monumentali che non aveva. Ma questa amplificazione era funzionale alla celebrazione del passato della Grecia e dell’uomo che negli anni Sessanta era forse il greco più famoso nel mondo.
Su alcune pagine online si legge che questo spazio si trasformava e cambiava forma premendo un pulsante, dispositivo che sembrerebbe più adatto alla serie di film con James Bond, proprio in quegli anni. Eppure, non siamo solo nell’ambito della leggenda. Se infatti guardiamo lo scatto precedente (a bordo c’è Maria Callas) e lo confrontiamo con una fotografia che ritrae l’anziano Winston Churchill a colloquio con Onassis stesso, ci accorgiamo che qualcosa è cambiato: il bordo metallico è rimasto lo stesso, ma il mosaico con la riproduzione del gioco del toro si è abbassato di almeno un metro; adesso sui fianchi ci sono altri mosaici con un fregio che alterna il motivo della “greca” a una serie di palmette.
Era proprio questo il vero centro dello yacht, lo spazio da mostrare: il marchingegno che esibiva la potenza dell’imprenditore moderno e la coniugava con l’immagine della lontanissima civiltà minoica.
Pochi anni fa, in circostanze singolari, è stato scoperto un mosaico che – su ben altra scala – faceva parte di un’analoga dimostrazione di lusso e di potere a bordo di una nave. Trafugato negli anni Cinquanta, esportato illegalmente all’estero, si trovava fino ad alcuni anni fa in una residenza privata di New York, trasformato in un tavolino (è un quadrato di poco più di un metro).
Non ci sono dubbi sulla sua provenienza: una delle cosiddette navi di Nemi, località poco a sud di Roma, l’antico Nemus Dianae, chiamato così per la vicinanza del santuario dedicato a Diana. Già nel XV secolo si sapeva dell’esistenza di relitti sul fondo del lago nei pressi del sito, e si era tentato inutilmente di portarli alla luce. Solo agli inizi degli anni Trenta del Novecento si riuscì a recuperare quanto restava delle due navi: la scoperta e il notevole sforzo tecnologico che la consentì vennero celebrati dal regime fascista come una “gloriosa impresa archeologica”, culminata poi nell’erezione del Museo delle Navi Romane nella stessa Nemi.
È qui che nel 2021 è stato riportato il mosaico pavimentale, a compensare almeno un po’ la perdita dei due scafi, distrutti da un incendio nel 1944. L’elaborato congegno decorativo è il risultato della giunzione di marmi di diverso colore tra cui spicca il porfido rosso, il colore imperiale per eccellenza. Infatti, a quanto pare, era stato l’imperatore Caligola (37-41 d.C.) a volere la costruzione delle due imbarcazioni, lunghe una settantina di metri. Dimensioni eccezionali se rapportate alla superficie del lago, ma il loro scopo non era certo di consentire una navigazione normale: si trattava piuttosto di ospitare la corte imperiale in una spropositata ostentazione di magnificenza – il mosaico superstite ne è solo un indizio – insomma una sorta di reggia galleggiante.
C’erano dei precedenti illustri, i thalamegoi (“imbarcazioni cabinate”), vere e proprie navi da crociera sul Nilo volute dai sovrani dell’Egitto ellenistico. Conosciamo il più celebre, quello costruito da Tolomeo IV Filopatore (222-204 a.C.), grazie a una singolare opera letteraria, i Deipnosofisti (“i sapienti a banchetto”), scritta in greco da Ateneo di Naucrati, tra II e III sec. dopo Cristo. Opera di sterminata erudizione, indigesta per un lettore moderno, ma preziosa perché permette di recuperare innumerevoli passi di autori antichi, altrimenti perduti in quell’enorme naufragio che ha cancellato gran parte della letteratura classica.
È il caso anche del thalamegos di Tolomeo IV, perché Ateneo trascrive la strabiliante descrizione che ne fece un contemporaneo del sovrano, Callisseno di Rodi: doppia prua e doppia poppa, file di colonne, vestiboli, porte, marmi raffinati e materiali preziosi, saloni per i pranzi, spazi porticati, camere da letto, immagini della famiglia reale, grandi tendaggi. Questa e le altre navi descritte da Ateneo – fastosi palazzi galleggianti – non potevano che suggerire ricostruzioni, ora più ora meno fantasiose, come quelle presenti in una straordinaria opera sulla costruzione delle navi, l’Architectura navalis et regimen nauticum (1690) dell’olandese Nicolaes Witsen.
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