Un pensatore del contemporaneo / Paul Virilio, il filosofo del disastro

20 Settembre 2018

Una leggenda mai confermata, ma anche mai smentita, racconta che Mohamed Atta, il capo del gruppo terroristico che ha abbattuto le Torri gemelle, sia stato uno studente del dottorato tedesco dove insegnava Paul Virilio. Di sicuro c’è solo il fatto che Atta era stato uno studente d’ingegneria e d’architettura con una laurea in urbanistica e che nella progettazione dell’attentato, da lui portato a termine, c’è qualcosa che ricorda alcuni dei libri del filosofo e architetto francese scomparso in questi giorni. Che cosa?

 

Il primo libro pubblicato da Virilio s’intitola Bunker Archéologie ed è uscito nel 1975. Si tratta della sua tesi di laurea redatta a 25 anni per ottenere l’abilitazione in Urbanistica, disciplina da lui esercitata per qualche tempo, prima di diventare uno dei filosofi della contemporaneità più interessanti degli ultimi quarant’anni. Forse non è un caso che questo libro, ripubblicato nel 1995 dalle Les Editions du Demi-Circle, sia stato uno due o tre libri preferiti da Bruce Chatwin, che lo scrittore inglese portava con sé nello zaino durate i suoi viaggi e che leggeva e rileggeva. All’epoca Paul Virilio, non era ancora diventato celebre, come poi avverrà nel decennio successivo, con una serie di volumi consacrati al tema della dromologia, all'influsso della velocità sulla società occidentale.

 

Bunker Archéologie (1975) è stato il suo libro seminale e resta ancora oggi un capolavoro di riflessione su una struttura architettonica che l’Occidente ha voluto dimenticare dopo il Secondo conflitto mondiale, ma che invece conserva un fascino primordiale, come mostrano le fotografie incluse nel volume scattate del giovane urbanista. Qual è la malia che promana dal bunker? Cosa ha a che fare con noi questo parto di un periodo storico dominato dal delirio di potenza e dalla follia di un dittatore? Il 14 marzo 1941 Adolf Hitler, scrive Virilio nel volume, parla per la prima volta del “Vallo Atlantico” che dovrà difendere la Fortezza Europa dall’invasione proveniente dall’Ovest. Il 23 marzo dell’anno seguente nella Direttiva di guerra n. 40 viene fissato ufficialmente l’Atlantikwall. Albert Speer è succeduto da appena un mese a Fritz Todt, morto in un misterioso incidente aereo, alla testa dell’organizzazione che prende il suo nome e sovrintende alla costruzione delle fortificazioni, mobilitando migliaia e migliaia persone, tra cui prigionieri di guerra e deportati.

 

Il progetto hitleriano, come documenta un volume curato da Gennaro Postiglione The Atlantic Wall. Linear Museum (Politecnico di Milano, 2005) si proponeva di costruire una linea di casematte, una sorta di spina dorsale dell’Europa affacciata sull’Oceano, dalla Francia sino alla Scandinavia. Virilio, che ha fotografato queste costruzioni in cemento tra il 1958 e il 1965, parla di monoliti moderni, “piccoli templi senza religione”, cripte che prefigurano la resurrezione. “Casamatta”, scrive, significa letteralmente “casa forte” e non “casa falsa”, come riportano i dizionari, casa rinforzata, armatura che circonda il combattente, ma anche forma della “sparizione”, tema su cui s’impernia gran parte della sua filosofia del contemporaneo.

 

Sono state tre le opere decisive di questo pensatore del disastro: pubblicate in francese: L’orizzonte negativo del 1984 (tradotto da Costan&N0lan nel 1986), il cui sottotitolo è Saggio di dromoscopia; La macchina che vede del 1988 (tradotto da SugarCo l’anno seguente) ed Estetica della sparizione del 1989 (apparso all’inizio degli anni Novanta da Liguori Editore). Con questi tre volumi Virilio si è proposto come l’interprete principale di quanto avveniva nel mondo occidentale sotto la spinta della tecnologia.

 

È curioso, ma forse non troppo, che Chatwin, viaggiatore nell'epoca della fine dei viaggi, sia stato un attento lettore di colui che con più lucidità ha descritto la progressiva restrizione del mondo e il passaggio dal viaggio allo spostamento. La Francia, scrive Virilio in un altro libro tradotto in italiano con il titolo La velocità di liberazione (1997), è “un quadrato di un’ora e trenta di lato”, alludendo ai tempi di percorrenza dell'Aerobus che trasporta le persone da un punto all’altro del paese. Secondo lo studioso francese, dall’introduzione dell'automobile (ma in verità da molto prima) s’è ingaggiata una lotta mortale tra il tempo e lo spazio; mentre il primo risulta comprimibile (questo è anche il senso delle tecnologie informatiche), il secondo non è facilmente colonizzabile, nonostante che la quarta dimensione ci provi costantemente.

 

Se possiamo cercare di recuperare tempo, non possiamo tuttavia occupare contemporaneamente spazi differenti. All’urbanizzazione dello spazio reale, che è la caratteristica principale della civiltà greca e romana, subentra con il Medioevo, e soprattutto con la Modernità, l'urbanizzazione del tempo reale “che è, alla fine, quella del corpo proprio del cittadino, cittadino terminale, presto super-equipaggiato di protesi interattive, il cui modello patologico è questo “handicappato motorio” equipaggiato per controllare il suo ambiente domestico senza spostarsi fisicamente, figura catastrofica di un’individualità che ha perduto, con la sua motricità naturale, le sue facoltà d’intervento immediato e che si abbandona, in mancanza di meglio, alle capacità dei ricettori, dei sensori e agli altri segnalatori a distanza”.

 

La velocità di liberazione, cui allude il titolo, è quella di 11,2 km al secondo, oltre la quale ci si scioglie dalla camicia di forza della gravitazione che condiziona ogni nostro spostamento, vero punto limite sperimentato dagli astronauti per i quali alto e basso, vicino e lontano non hanno più senso. Come i precedenti libri di Virilio, anche questo contiene molte immagini e ragionamenti, tenuti insieme da una prosa che sfiora la letterarietà, e ha come prerogativa il continuo zigzagare, il movimento irrequieto e a tratti irrelato, quasi l'autore volesse competere sia con il tema che cerca di circoscrivere che con la velocità dei pensieri che sgorgano spontanei dal cervello di chi scrive. Per questo più di un commentatore ha notato che la scrittura di Virilio contiene qualcosa di nevrotico, uno scuotimento che si ritrova anche in autori come Deleuze e Baudrillard, ma che nell’urbanista e studioso di dromologia si manifesta come capacità di creare continui scenari mentali utilizzando citazioni e frasi chiave, ammobiliandoli con le immagini di strumenti tecnici, gadget e forme incongrue.

 

Virilio è stato il descrittore della catastrofe in cui viviamo immersi e che egli esprime con la formula dell’estetica della sparizione. Come mostra con grande efficacia un altro libro, Guerra e cinema. Logistica della percezione (Lindau 1996), sarebbe stato il cinematografo a sconvolgere le forme della percezione umana, introducendo l'esperienza di un’allucinazione collettiva e accelerazione continua. Tutta l’opera di Virilio è un’analisi della sostituzione della conoscenza visiva a quella tattile, del passaggio dal mondo del “permanente” a quello dell’“accidente”. Guerra e cinema, uscito in origine nel 1986, doveva essere il primo capitolo di uno studio dedicato allo sviluppo parallelo delle tecniche di visione (fotografia e cinema) e della guerra a partire dal primo conflitto mondiale: dal colpo d'arma da fuoco al colpo d'occhio, scrive Virilio, che culmina nella guerra elettronica, come ha dimostrato la prima Guerra del Golfo, ma anche la seconda.

 

L’urbanista francese ha sostenuto tra i primi, sulla scia di Walter Benjamin, che le nuove tecnologie producono la sparizione dei corpi, la loro smaterializzazione e la conseguente derealizzazione dell'esperienza; l'uomo vive in una condizione costante di voyeurismo: osserva il mondo e se stesso mediante lo sguardo indiretto delle macchine (fotografia, cinema, televisione, computer), sue protesi visive. Citando Degas, ci ha ricordato che già nella pittura del XIX secolo un paesaggio non era uno stato d'animo, ma uno stato d’occhi. Nella tecnologia virtuale non si usano più le dita, ma l'occhio: il pilota non premerà i pulsanti On o Off, ma avrà un ricettore a infrarossi che indagherà la direzione del suo sguardo “seguendo il fondo della retina”.

 

La “motorizzazione della vista” è cominciata con la Prima guerra mondiale, con quella che Ernst Jünger, in un celebre articolo, uscito dopo guerra, ha chiamato la Mobilitazione totale (si legge in Foglie e pietre, Adelphi), cioè il congiungersi di “genio della guerra” e “genio del progresso”. Virilio risulta un implacabile analista delle tecnologie comunicative e informazionali che modificano non solo i profili dei tradizionali Stati-nazione, oggi al loro tramonto tecnico eppure risorgenti come fantasmi, ma anche dei comportamenti inerziali delle masse. Per lo studioso francese il futuro dell'umanità sarà il nomadismo, dopo aver perso ogni legame sociale e territoriale, dopo il tramonto delle ideologie politiche, la soppressione delle forme rappresentative e la diffusione del potere in masse anonime e quasi incontrollabili, prospettiva che fa capolino anche nelle pagine conclusive del Secolo breve (Rizzoli) di Hobsbawm, dove tuttavia l'analisi dello sviluppo tecnologico è quasi assente.

 

Nell’autunno del 2002, un anno dopo l’attentato alle Torri gemelle, viene organizzata presso la Fondation Cartier di Parigi una mostra curata da Virilio. Vi sono esposte opere ispirate al tema dell’incidente: assemblaggi di parti di aeroplano sospese in modo caotico al soffitto da Nancy Rubins; la ripresa dello skyline di New York, lunga ventiquattro ore, girata dal video-artista Wolfgang Staehle e registrata casualmente il giorno della caduta delle Twin Towers; il catalogo dei lanci spaziali sovietici, compresi quelli falliti, realizzato dall’artista armeno Artavazd Achotowitch Pelechian, oltre ad altre immagini di eventi catastrofici della nostra epoca.

 

Il catalogo della mostra, intitolato Ce qui arrive, edito da Actes Sud, è aperto da un lungo scritto di Virilio, contiene una sequenza impressionante d’immagini di eventi traumatici: terremoti, incendi, incidenti aerei, emissioni di gas venefici, crateri provocati da meteoriti, esperimenti nucleari, naufragi, inquinamenti marini, allagamenti di città e campagne, crolli di ponti, esplosioni di navicelle spaziali, treni deragliati, palazzi accartocciati. Fino ad arrivare alla scena della esplosione delle Torri gemelle che è la catastrofe con cui si è aperto il nuovo millennio, l’evento degli eventi, o, come l’ha subito definito Jean Baudrillard, l’evento che ha posto fine “allo sciopero degli eventi” cui ci avevano abituato gli anni Novanta.

 

L’esposizione, che ebbe una notevole eco anche per via della proposta avanzata da Virilio di istituire un Musée des accidentes, seguiva di poco la pubblicazione di un libro in cui il filosofo compendiava le sue idee sul tema: L’incidente del futuro (Cortina editore). La sua tesi è che il futuro, così come è stato concepito negli ultimi due secoli e mezzo – attesa e orizzonte del cambiamento e del progresso – non c’è più, sostituito da una serie di eventi che culminano con l’incidente, in cui l’accadimento naturale (terremoto, tromba d’aria, nubifragio, ecc.) è oramai superato da quello artificiale prodotto dall’uomo stesso.

 

L’incidente è in tutto e per tutto un effetto della tecnologia: l’evento del volo dell’aeromobile, scrive Virilio, comprende anche quello della sua caduta, come la costruzione dell’automobile quella dello scontro. L’idea di Virilio è filosofica; si richiama ad Aristotele, alla distinzione tra sostanza, ovvero l’assoluto, e l’accidente, ovvero ciò che è contingente e relativo. Per farsi capire in un’intervista egli paragona l’assoluto alla montagna e il terremoto all’accidente: l’accidente è ce qui arrive. Tuttavia quello che accade ogni giorno, che accade a ciascuno di noi, è propriamente la vita stessa, che è poi il tempo che passa. Per il filosofo francese lavorare sul concetto di incidente-accidente significa lavorare sul tempo. Cita una frase di Aristotele secondo cui il tempo sarebbe l’incidente degli incidenti. Dal momento in cui la velocità ha trasformato radicalmente la vita umana, attraverso l’introduzione dei veicoli a motore e l’epoca dei rapidi spostamenti, di cui l’informatica non è che la prosecuzione, l’iper-rapidità, afferma produce anche gli incidenti sino a farli diventare uno degli eventi consueti della contemporaneità.

 

Oggi noi non andiamo dal passato al futuro transitando per il presente, bensì ci muoviamo di incidente in incidente, tanto che il futuro stesso ci appare sotto questa forma, che paventiamo ma che insieme, più o meno consapevolmente, auspichiamo. Se ogni giorno i telegiornali e il web non ci forniscono immagini di eventi disastrosi, di piccole o grandi catastrofi, ci sembra che non sia accaduto nulla, che il tempo sia transitato inutilmente: viviamo immersi nel racconto del disastro. Nonostante l’enfasi che sembra contenere questa posizione, la lettura che Virilio dà del presente non è di tipo apocalittico. O meglio: la sua è un’apocalisse continua, in cui l’incidente, all’interno dell’accelerazione del mondo, dei suoi oggetti e dei suoi abitanti, appare come il modo stesso attraverso cui si mostrano le relazioni tra i fenomeni, ovvero tra le cose che accadono nel mondo.

 

Il disastro sarebbe così la vera essenza del mondo: l’inondazione rivelerebbe la realtà dell’acqua così come il terremoto quella della terra, il black out quella dell’energia elettrica e il surriscaldamento repentino di una centrale nucleare la forza della fissione dell’atomo. Si tratta di un vero e proprio rovesciamento della prospettiva consueta per cui siamo soliti pensare l’incidente come l’eccezione, mentre il “controllo” del mondo, la sua regolarità, ci appare una norma. Virilio è un tardo umanista che ribaltando il rapporto tra norma ed eccezione fa della catastrofe quotidiana la realtà su cui si fonda l’esistenza stessa degli uomini e delle loro città; il suo è un rovesciamento e non una messa in discussione dei paradigmi aristotelici.

 

In un altro suo libro, Città panico (Cortina 2004), riprende e ribadisce questi temi trattando della città, o meglio della metropoli contemporanea. Partendo da una straordinaria frase di Le Corbusier, pronunciata dinanzi al panorama di New York (“È un cataclisma al rallentatore!”), il filosofo ripercorre il trauma dell’11 settembre e ne fornisce una lettura coerente: creare un evento. Evento è oggi la parola chiave in ogni settore della vita pubblica, ma significa: provocare un incidente. Com’è noto il musicista tedesco Karlheinz Stockhausen, all’indomani dell’attentato al World Trade Center, ha scritto, con grande scandalo di molti, che si è trattato della più grande opera d’arte mai realizzata.

 

Virilio parla del crollo delle Torri in termini analoghi, come di un gesto espressionistico che mette i terroristi sullo stesso piano degli artisti e di tutti gli attivisti contemporanei dell’epoca della globalizzazione planetaria. È quanto Don DeLillo aveva preconizzato in un suo romanzo pubblicato all’inizio degli anni Ottanta, Mao II (Einaudi), e incentrato sulla figura di uno celebre scrittore che vive nascosto, che parte all’improvviso per Beirut allo scopo di salvare un collega dalle mani dei terroristi che lo hanno sequestrato. In questo romanzo visionario, ma al tempo stesso fortemente realista, DeLillo paragona l’attività del romanziere a quella del terrorista e arriva alla conclusione che l’atto terroristico ha sottratto a quello della scrittura la sua forza d’impatto, la capacità di influire sugli eventi, divenendo l’unico modo per plasmare la realtà.

 

Virilio conferma questa diagnosi, ma afferma che negli ultimi vent’anni le cose sono andate ancora più avanti, dal momento che il terrorismo non è più solo quello delle bombe e degli attentati suicidi ma quello prodotto dal sistema dell’informazione, come dimostrano le barbare uccisioni medianiche degli ostaggi in Irak.

Egli scrive che assistiamo non più solo all’accelerazione della storia, ma anche all’accelerazione della realtà stessa: “le nostre scoperte tecnologiche si rivoltano contro di noi e in certe menti deliranti tentano di provocare a ogni costo l’incidente del reale, questo urto che renderebbe indiscernibili verità e realtà fallaci – in altre parole mettendo in opera l’arsenale completo della derealizzazione”.

 

Di cosa si tratta? Del superamento della distinzione tra vero e falso, giusto e ingiusto, reale e virtuale. Dopo l’abbattimento delle Torri, grazie al concorso congiunto di terroristi e governanti si sarebbe rotto lo specchio della realtà, provocando la “confusione fatale del linguaggio, come delle immagini”. Virilio scrive che il baricentro della nuova esperienza del panico è oggi la metropoli, la più grande catastrofe del ventesimo secolo: “New York dopo il crollo del World Trade Center, Baghdad dopo la caduta di Saddam Hussein, Gerusalemme e il “muro di separazione”, ma anche Hong Kong o Pechino, o gli abitanti dei villaggi intorno che barricano i loro borghi davanti alle minacce della pneumopatia atipica… Tanti nomi su una lista di agglomerati urbani pronta ad allungarsi indefinitivamente”.

 

Nel 1984 Don DeLillo intitolò un suo romanzo Rumore bianco (Einaudi). Vi racconta la storia di un professore, pacioso e a tratti imbranato, che ha fondato in una piccola università americana un centro di studi hitleriani; intorno a lui la famiglia allargata, la terza moglie e i figli di entrambi. La sua è una tipica vita americana in cui apparentemente non accade nulla, fino a che, a causa di uno scontro ferroviario, da una cisterna fuoriesce un micidiale veleno per topi che si leva in cielo sotto forma di una nube nera. È il racconto del disastro, in cui all’imperturbabilità dei protagonisti si accompagnano i rituali acquisti al supermarket e il tran tran della vita quotidiana. La moglie del professore, terrorizzata dall’idea di dover morire, di nascosto da tutti ha accettato di ingerire uno psicofarmaco sperimentale che cancella dal cervello il suo terrore. Il “rumore bianco” è quel rumore impercettibili in cui viviamo immersi, in cui non cogliamo più i piccoli e grandi disastri che accadono intorno a noi, dall’inquinamento delle polveri sottili, all’alterazione del cibo, dalle morti silenziose per cancro agli scontri automobilistici, lo stillicidio di esplosioni in ogni angolo del mondo che accompagna come un sottofondo la colonna sonora delle nostre giornate. In un paesaggio così straordinariamente descritto da DeLillo l’enfasi di Paul Virilio, la sua teoria dell’incidente, finisce per risultare poco più di un colpo di clacson nel gorgo del traffico del lunedì mattina.

 

PS

Ho ripreso in questo testo alcune pagine che sono andato scrivendo nel corso di questi ultimi decenni dedicate a Paul Virilio, che per me è stato uno dei pensatori più originali della contemporaneità proprio in virtù della sua formazione di architetto e urbanista. La città è stata al centro della sua riflessione, che resta, nonostante le critiche di saggisti e studiosi, un punto di riferimento fondamentale. Virilio è stato uno scrittore, oltre che un filosofo, alla pari di un suo antenato ideale Montaigne, anche lui figura ibrida di saggista, scrittore autobiografico e filosofo morale. Virilio fu anche maestro e consigliere di George Perec, di cui pubblicò le prime prove saggistiche e di scrittura, un’altra storia che prima o poi bisognerà racocntare.

 

Ci sono almeno due libri-intervista che fanno capire chi sia stato e di cui consiglio la lettura: Cybermonde, la politique du pire (Textuel 1997) con Philippe Petit e Voyage d’Hiver (Editions Parenthèses) con Marianne Brausch, del medesimo anno; sono interviste che mostrano il punto culminate del suo pensiero e nella seconda ricapitolano il suo percorso sino a quel punto. Negli anni duemila grazie a «Domus» diretta da Stefano Boeri avevo preso contatto con Virilio e c’era stato uno scambio di email e persino di lettere per una possibile conversazione mai fatta. Il tutto è sparito in un computer rubato. Caro Virilio, com’è vero quello che hai scritto anni fa, vero oggi più di ieri, tu che sei stato un pensatore della caduta senza fine della nostra realtà contemporanea.

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