Una mostra a Milano / Muybridge. Fotografia in movimento

5 Giugno 2016

Grande appassionato di cavalli, il ricco e influente Leland Stanford chiede nel giugno del 1872 a Eadweard Muybridge di fotografare la corsa del suo celebre Occident per verificare la tesi che c’è un istante durante il galoppo in cui il cavallo ha tutte le zampe sollevate da terra: comincia così la storia della cronofotografia. Muybridge si era trasferito nel 1850 dalla natìa Gran Bretagna negli Stati Uniti, per il suo lavoro in ambito editoriale e librario, poi, dopo qualche anno passato di nuovo in Gran Bretagna, dal 1866 si era stabilito a San Francisco. Qui aveva avviato un’attività fotografica professionale, dedicandosi a soggetti vari, soprattutto paesaggistici, di cui nella mostra milanese (Muybridge Recall, a cura di Leo Guerra e Cristina Quadrio Curzio, al Palazzo delle Stelline, fino al 1 ottobre) ci sono alcuni esempi significativi. Ambizioso ed eccentrico, accetta la sfida e la decisione segna da quel momento il tracciato della sua vita, che sarà tutta dedicata al miglioramento, alla variazione e alla diffusione della sua invenzione.

 

La sfida consisteva nel fatto che l’occhio umano non riesce a cogliere con certezza la posizione delle zampe e i dettagli del movimento di un animale in corsa, per cui, peraltro, varie posizioni preferite dai pittori risultarono di fatto imprecise se non errate. Soltanto la fotografia, questa macchina, la cui rappresentazione era data per oggettiva e probante proprio perché meccanica, poteva fissare veridicamente, frammentandolo, il flusso del movimento.

La questione principale stava appunto in questo: spezzare la continuità in una serie di scatti discontinui ma calcolati per ricostruire in modo credibile e convincente il flusso temporale. La tecnologia dell’epoca comportava ancora tempi di impressione della lastra troppo lunghi, cosicché ciò che si muoveva risultava vago e indistinto, semitrasparente come un fantasma. La fotografia era riuscita sì a fissare per la prima volta l’istante, il momento inafferrabile che costituiva il paradosso di ogni riflessione sul tempo, già trascorso mentre si cerca di pensarlo e dunque preso tra un non più e un non ancora a loro volta mai presenti. Ora l’istante era visibile, anzi era il visibile, ciò che solo si poteva guardare e riguardare perché registrato.

 

 

I primi tentativi, che non sono stati conservati, erano senza dubbio troppo poco incisi, ma Muybridge si dedica a perfezionare i materiali e le tecniche fino a raggiungere già nel 1873 il primo risultato accettabile: sono ancora soltanto poco più che silhouette, ma le posizioni sono ben visibili e indiscutibilmente “oggettive”. La sfida è vinta. I cliché però non sono ancora sufficientemente definiti da essere pubblicabili, dovranno trascorrere altri cinque anni perché tutto sia a punto.

Così tanto in realtà perché nel frattempo Muybridge ha una tragica disavventura personale che lo costringe ad allontanarsi per qualche tempo dalla scena pubblica. Tornato intanto a San Francisco nel 1877 Muybridge si dedica a un altro grande progetto prima di riprendere la sua ricerca a Palo Alto, da Stanford. Realizza un panorama fotografico a 360 gradi della città in undici parti, per un totale di 190 centimetri di lunghezza. Muybridge ha dunque colto il legame tra sequenza e panorama e la diversa soluzione che i due comportano nella dialettica tra continuo e discontinuo, tra parte e insieme: nel panorama infatti la continuità, che è spaziale, si ricostruisce nell’accostamento diretto tra gli scatti, mentre nella cronofotografia questi restano separati e il problema diventa appunto come ricostruire la continuità dello sviluppo temporale.

 

Il sistema di Muybridge dunque consisteva in una batteria di macchine fotografiche disposta parallelamente al movimento da registrare e azionate prima da fili tesi sul percorso poi da sistemi sempre più sofisticati. In alto sulla parete di sfondo o in basso su un’asse apposita era segnata una progressione numerica per la verifica delle misurazioni. Quanto alle condizioni tecniche, il procedimento al collodio umido aveva ridotto di molto i tempi di posa, ma non abbastanza per catturare un movimento rapido come la corsa del cavallo. Muybridge aveva allora lavorato su tutti i fattori tecnici, dall’illuminazione, fotografando all’aperto, in condizioni di luce massima e predisponendo uno sfondo bianco riflettente, all’apparato di lenti e otturatore.

 

Nel 1879 il numero delle macchine fotografiche diventa di ventiquattro, azionate da un commutatore elettrico guidato da un sistema a orologeria, i cui segmenti rotanti innescano gli otturatori a intervalli regolabili. Ormai il sistema è a punto e Muybridge passa dai cavalli ad altri animali e infine anche a uomini e donne. Nel 1881 pubblica a tiratura molto limitata una prima serie di 174 immagini con il titolo The Attitudes of Animals in Motion. Il risultato della ricerca è finalmente sufficientemente leggibile: la sequenza è chiara. Ora, in essa l’istante in realtà è qualcosa di diverso da come lo intendiamo solitamente: parte di una successione, non ha tanto valore in quanto momento irripetibile, ma al contrario come particolare di un insieme temporale ripetibile. Lo spazio, da parte sua, si riduce, potremmo dire, a posizione, opposto scientifico, misurabile, oggettivo o oggettivato, della posa. In ognuno degli scatti qui guardiamo appunto la posizione delle gambe, della testa, della coda, della muscolatura dell’animale. Essa non è significante in sé, non acquista valore metaforico come qualsiasi scena, ma è legata al momento precedente e contiene già il seguente come suo sviluppo inevitabile. Lo contiene a tal punto, così “automaticamente” per la nostra percezione, che Muybridge non esita a volte a sostituire gli scatti venuti male o mancati con altri simili, mescolando in questo modo gli istanti, manipolando i tempi, e con essi, inconsapevolmente il tempo stesso.

 

Tutto il senso della pretesa scientifica sta in questi paradossi o antinomie: l’oggettività è un prodotto più che un risultato, un effetto presupposto più che una verifica del dato. Anche la banda numerata, e poi la griglia che farà da sfondo nelle posteriori – ricostruita nella mostra su una grande parete per rifare la sera dell’inaugurazione ina una sorta di performance una ripresa come allora –, appaiono più come una presunzione dimostrativa che come un’utile strumento di misurazione. È vero che Muybridge è accomunato il più delle volte a Étienne-Jules Marey nello spostamento epocale, come lo definisce e descrive Noël Burch, dei codici della rappresentazione da quelli della pittura accademica a quelli appunto scientifici, ma Burch stesso parla di “statuto ambiguo” nel caso di Muybridge, segnalando l’anomalia. Così anche ciò che scrive Georges Didi-Huberman a proposito del rapporto tra Marey e Henri Bergson vale solo come sfondo problematico su cui stagliare anche l’apporto di Muybridge. Quest’ultimo non pretendeva cioè di cogliere né la “vita”, il principio vitale che muove gli esseri animati, né la “durata” bergsoniana, che giustamente il filosofo contrapponeva come indivisibile a “quelli che si divertono a giustapporre gli stati [e] a formarne una catena o una linea”, “vedute istantanee” che pretendono di cogliere il movimento giustapponendo nello spazio una serie di “tagli immobili”, come li chiama Didi-Huberman.

 

La pretesa condannata come illusoria è quella scientifica, quella della “macchina animale”, secondo la formula di Marey, mentre Muybridge, che aveva ambizioni più artistiche che scientifiche, mira piuttosto all’“illusione”: sta forse proprio qui il suo interesse peculiare, non riducibile a un discorso generale sulla cronofotografia. La verifica oggettiva del movimento fu la richiesta ricevuta dall’esterno; così la misurazione non va intesa in senso analitico-scientifico ma solo dimostrativo, per testimoniare che non c’è trucco, che le cose sono state fatte con scrupolo. Oggi noi leggiamo l’integrazione della banda numerata o della griglia di sfondo in una direzione che diremmo più “concettuale”, nel senso in cui si parla di arte concettuale – a cui viene più facile assimilare queste sequenze che a illustrazioni di testi scientifici –, ovvero in termini di metarappresentazione, di raffigurazione del procedimento all’interno dell’immagine, dunque di analisi piuttosto del linguaggio che del soggetto rappresentato.

 

 

Non per niente Muybridge e la sequenza sono appunto stati recuperati da numerosi artisti di quel movimento artistico negli anni sessanta e settanta del Novecento, proprio per metterne alla prova, per decostruirne, il presunto carattere oggettivo o totalizzante. Intese come elementi metalinguistici, le inclusioni sono l’evidenziazione di quello che oggi viene chiamato il “dispositivo”, ovvero l’azione strutturante dello strumento. Così, pur nella sua limitatezza di mezzi, la mostra milanese diventa esemplare – suo malgrado? senza averlo voluto? – perché espone una serie di paesaggi da una parte della grande sala e una sfilata di cronofotografie dall’altra parte, mentre la parete che fronteggia entrambe le parti è coperta dalla griglia ricostruita, tanto più efficace come dispositivo ora che niente vi si svolge davanti: è una mostra “concettuale”.

 

Jonathan Crary ci ha illustrato da tempo l’incidenza sulla percezione delle strumentazioni visive degli inizi prima e poi del seguito dell’Ottocento, a partire proprio da quelle che per prime hanno voluto ricostruire il movimento, dal fenachistoscopio allo zootropio, e la tridimensionalità, gli stereoscopi..Né la visione è una funzione disincarnata, né il dispositivo è neutro rispetto ad essa. Ecco dunque che la batteria di macchine fotografiche condiziona sia la ripresa che la visione: ora vediamo la scansione delle posizioni e vediamo il flusso, la continuità scomposta in istanti ed elementi discontinui; ovvero: non si vede se non la discontinuità; se non si analizza, non si “vede”, si guarda; la continuità è visivamente, linguisticamente inafferrabile. D’altro canto la discontinuità permette di vedere con precisione e di vedere altro. Così i Meissonier e i Degas, grandi pittori di cavalli in corsa, dovranno prenderne atto e correggere gli errori della loro rappresentazione.

 

La fotografia mostra ciò che l’occhio non riesce a cogliere, vede di più, vede meglio, più precisamente: è ciò che, con espressione presa da Benjamin, viene chiamato “inconscio ottico”. Ma mostra anche diversamente, diversamente dall’occhio che ha i suoi limiti fisiologici e d’altro canto è inscindibile da cultura e memoria, diversamente anche in altri sensi: perché l’immagine ferma ed è ferma, ovvero blocca ciò che è in divenire perpetuo, ed è potenzialmente sempre a disposizione per essere riguardata a piacere e osservata in dettaglio, ingrandita, analizzata. Prima ancora che del movimento, l’immagine fotografica è l’illusione dell’immobilità. Dunque la dialettica si complica.

Intanto Muybridge inizia i suoi tour di conferenze per presentare le sue imprese. Nel 1881 è tra l’altro a Parigi, dove incontra Marey di persona e anche Meissonier, che, preso atto dei suoi precedenti errori, diventerà suo strenuo difensore. Le conferenze hanno grande successo e gli procurano le committenze per proseguire le sue sperimentazioni. Prima è l'Università di Pennsylvania, poi quella di Filadelfia. Muybridge mette a punto dispositivi sempre più perfezionati, migliorando la qualità delle immagini ormai ineccepibili, e in particolare completa la batteria parallela al movimento con altre macchine fotografiche che riprendono da diversi punti di vista, completando la ripresa della scena.

 

Così però la sequenza finisce col presentarsi “montata” con l’inserto appunto di alcune di queste altre angolazioni, rompendo ulteriormente la continuità del movimento, ma al tempo stesso restituendolo in maniera più articolata. Avendo ora grazie ai committenti grande disponibilità di mezzi, Muybridge arriva a scattare fino a 500 e anche 600 lastre al giorno, accumulandone centinaia di migliaia. Comincia anche a selezionarle, ordinarle e classificarle, finché nel 1887 realizza la sua grande opera, la pubblicazione di Animal Locomotion, con ben 781 tavole di grande formato, ciascuna composta da 12 a 36 scatti, per un totale di 19.347 immagini. Il formato della prima edizione, composta di 11 album, è di 63 centimetri per 49. Restano oggi solo 27 esemplari dell’edizione completa, mentre vennero venduti anche singoli album e singole o gruppi di tavole separate.

 

Contrariamente a quanto indica il titolo, il soggetto principale di Animal Locomotion è l’essere umano. Viene perciò da chiedersi se ci fosse nel titolo un’indicazione positivista che anche l’uomo andava inteso come “animale”, ovvero in quanto essere animato al di là di psicologie e spiritualismi? Non sembra questo il caso, perché l’intento scientifico qui è ancor meno marcato che in The Attitudes in Animals in Motion, anzi, come è stato spesso fatto notare, l’autore ha sovente indugiato in scene strane – un mulo che prende delle campanelle tra i denti, una madre che sculaccia un bambino – nonché in pose audaci o perfino frivole, soprattutto con i nudi femminili. L’intento artistico rivela invece qui un ulteriore lato interessante: le tavole di Animal Locomotion cioè appaiono – anche se Muybridge non è mai stato esplicito sull’argomento – come la manifestazione di un progetto estetico in cui la fotografia in sequenza vuole restituire non solo il movimento ma la tridimensionalità, e con essa diciamo una completezza “scultorea”, che l’immagine bidimensionale, dunque la pittura o la fotografia singola, non hanno; è così intesa la nuova frontiera della rappresentazione realistica.

 

 

Questi corpi, che non si muovono più soltanto parallelamente alla batteria di macchine fotografiche ma girano su se stessi e intorno a cui sono posizionate altre fotocamere, sono l’opposto dei “panorami”: lo sguardo ruota intorno all’oggetto invece che ruotare su se stesso per vedere tutto ciò che sta intorno.

Altro aspetto che ci sembra interessante mettere in rilievo è che questa raccolta non è più un catalogo ad uso degli artisti, pittori e scultori, in sostituzione dei modelli, come ne erano stati fatti molti nei decenni precedenti, ma è da considerarsi una sorta di opera a sé stante. Non appaia audace o anacronistica l’affermazione: né illustrativo né dimostrativo, il libro qui è il destinatario eccellente delle immagini e il vero strumento del proposito estetico specifico di Muybridge. Oggi diremmo che il libro qui non è un catalogo ma un “Atlante”, con rimando a Aby Warburg e a quanto ne è scaturito nel dibattito recente, un modo peculiare e insostituibile di mettere e di tenere insieme le immagini.

 

Dunque apice della rappresentazione naturalista, dicevamo? La domanda non è scontata: da un lato certamente, nel senso in cui Muybridge è ancora situato in quel contesto storico estetico e mirava a una completezza e veridicità della rappresentazione, a fare con la fotografia meglio di quanto potesse la pittura; ma dall’altro lato la sua idea lo porta ad andare oltre, a rompere le regole formali del naturalismo, cosicché non esita, come dicevamo, a fare appello a una ricostruzione “illusoria”, o meglio, ribadiamo, a fare i conti con essa, con la sua necessità insita nella sequenza, nella discontinuità. Così facendo, Muybridge apre fronti nuovi nell’ambito della rappresentazione e di un’arte contemporanea che è andata al di là del realismo ottocentesco. Anche in questo senso Muybridge non solo non è “analitico-scientifico”, ma si inserisce in quel “cambio di paradigma” indicato da Crary, quello che ha visto il passaggio da un osservatore unificato e legato al referente esterno ad uno decentrato, attivo, separato, e a un’immagine metonimica piuttosto che metaforica. L’“illusione”, lungi dall’essere l’errore denunciato dai filosofi, è il fattore costruttivo. In che modo lo mostrano i dispositivi che mettono in movimento le sequenze di immagini ferme – che nella mostra milanese vengono evocati e rielaborati nei due film realizzati da Paolo Gioli, che su Muybridge e Marey ha lavorato da tempo, cogliendo presto questo stesso nodo che andiamo descrivendo.

 

Dunque, strumenti che mettevano in moto le immagini ne esistevano già da tempo e si erano moltiplicati agli inizi del XIX secolo, li abbiamo già nominati: taumatropi, ruote di Faraday, fenachistoscopi, stroboscopi, zootropi. Muybridge naturalmente sente subito la necessità di applicare le sue sequenze al più avanzato di tali meccanismi, il fenachistoscopio, di cui pure anzi si impegna a dare una sua personale versione perfezionata, lo zooprassinoscopio, con cui gira Stati Uniti e Europa per le sue conferenze riscuotendo grande curiosità e successo. Composto da un disco su cui è stampata la sequenza, la sua proiezione diventa un loop di alcuni secondi che si ripetono. L’effetto era strabiliante: “Mancava solo il rumore degli zoccoli sull’erba e magari, ogni tanto, quello delle narici che espellono aria, per far credere allo spettatore che aveva davanti dei destrieri in carne e ossa”, riporta un giornalista dell’epoca. Dal 1893-94 Muybridge presenta perfino delle immagini a colori, naturalmente colorate a mano.

 

Ma qual è realmente l’effetto visivo di questo strano, ancora impreciso movimento composto di scatti discontinui? Più un palpito, un battito, una pulsazione che una vera continuità; qualcosa che certamente nasce dall’imprecisione tecnologica, ma nel senso del modo in cui è costituita, dal fatto cioè che da questa continuità fatta di discontinuità siamo messi in una posizione doppia, come illustra perfettamente Rosalind Krauss: una è quella dell’identificazione immaginaria in cui ci si lascia prendere dall’illusione e dal contenuto di ciò che guardiamo; l’altra è quella della consapevolezza del funzionamento della macchina. Questo strano effetto sincopato – che i surrealisti, Max Ernst in testa, assimileranno al sogno e all’allucinazione piuttosto che alla visione diretta, realistica – è il nucleo dell’antimodernismo insito nelle origini del modernismo stesso, la sconfessione della sua pretesa di uno sguardo disincarnato e immediato, infinitamente presente a sé, della “visualità istantanea” che Krauss riassume nelle riflessioni di Edmund Husserl in ambito filosofico e Clement Greenberg in ambito estetico.

 

Ecco come l’“illusione” diventa un altro aspetto dell’inconscio ottico; attraverso di essa si vede altro, ovvero diversamente, non come si crede che si dovrebbe vedere, ma nel modo in cui già si vede: il movimento dell’immagine è il movimento come lo percepisce lo sguardo, ovvero quel guardare complesso che non è riducibile a una visione, dicevamo con Crary, oggettiva, diretta, presunta continua. È soprattutto un artista come Marcel Duchamp ad aver ripreso di petto tali questioni. Rifacendosi proprio alla cronofotografia, correggendo, per così dire, Muybridge con Marey, il quale, com’è noto, aveva invece fissato le varie fasi del movimento in un’unica lastra con effetto di “strisciata”, Duchamp aveva evidenziato l’enigma di quella temporalità, cioè di quella modalità di cogliere il tempo: nel passaggio da una posizione all’altra avviene una trasformazione del corpo in movimento; quello che noi cogliamo come tempo e come movimento è in realtà la manifestazione visiva di una trasformazione, di un “passaggio”, come lo chiamava, da uno stato a un altro.

 

L’espressione “inconscio ottico” – a cui Franco Vaccari ha aggiunto la versione di “inconscio tecnologico” che qui va perfettamente a pennello – coglie oggi tutto questo insieme di questioni: non solo vedere di più, ma anche diversamente e anche secondo l’inconscio. L’inconscio pulsa, la pulsazione è la forma attraverso cui si manifesta. Il cavallo di Muybridge fa parte di quella genia di cavalli dell’arte che sono proprio simboli della natura nel senso più brado, dell’animalità, e poi della libertà, e infine, con il cavaliere in groppa, appunto del dilemma o della reciprocità tra chi guida e chi è guidato, tra inconscio e io. Se l’accanimento positivista di verifica e misurazione è un modo per rivendicare il controllo dell’uomo sull’animale, l’impostazione artistica considera invece la dialettica, anzi il nodo, tra i due.

Con un gioco di parole che ci si perdonerà potremmo allora dire che la cronografia, mentre fotografa il movimento, rivela il movimento della fotografia, il moto e la discontinuità nascosti che la sottendono. La cronofotografia di Muybridge non sarebbe un cinema non ancora realizzato, e una prova scientifica mancata, ma la loro stessa “verità”.

 

L’ultima parte della vita di Muybridge è segnata da una grande attività di conferenze tra Stati Uniti e Europa, raccolta di consensi, divulgazione delle proprie imprese in riviste, libri ed esposizioni, segnata anche da episodi di concorrenza e di controversie. Negli anni 1890 ormai è comunque riconosciuto universalmente come un pioniere della cronofotografia. Intanto nasce il cinema, 1895, e la cronofotografia viene sempre più descritta non solo come superata ma come un episodio tecnico e tecnologico sulla via evolutiva che porta ad esso. Gli studi che ne riconsiderano l’autonomia e la peculiarità sono recenti. Muybridge muore nel 1904.

 

Galleria Gruppo Credito Valtellinese, Corso Magenta 59 

Mostra a cura di Cristina Quadrio Curzio e Leo Guerra

dal 18 maggio al 1 ottobre 2016

 

Il catalogo della mostra non è ancora uscito, ma, come viene annunciato, conterrà testi dei curatori e di Italo Zanier, nonché una sezione dedicata ai film di Paolo Gioli.

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