“Santiago, Italia” / Nanni Moretti. Elogio della parzialità

9 Dicembre 2018

Per la proiezione di Santiago, Italia, la sala del cinema Palestrina di Milano è stracolma: un cartello all’ingresso dichiara sold out. Per fortuna, G. e io abbiamo prenotato i biglietti una settimana prima (il bigliettaio: «Faccia attenzione, ché i posti non sono numerati: chi primo arriva…»). Moretti non si è fatto attendere troppo, forse perché nella stessa sera ha in programma due altre presentazioni (al più prestigioso e noto cinema Anteo). Parte l’applauso di prammatica. Poi Moretti esordisce: «Questo è un film in cui vedrete che la Chiesa cattolica fa una gran bella figura».

 

La solita “finta” morettiana: dopo le dichiarazioni, le criticatissime interviste esclusive, i botta-e-risposta a distanza con il ministro degli interni (tutte cose che mi sono sforzato di non seguire, in attesa di vedere il film), ecco che lui si smarca parlando di cardinali e suore. Una boutade da mangiapreti pentito? In realtà, a Moretti preme più parlare di individui: «A volte le singole persone fanno la differenza».

 

Moretti al 36mo Torino Film Festival, in occasione della prima del film.

 

Ecco, la prima osservazione che si può fare a proposito di Santiago, Italia è il modo con cui l’esperienza collettiva (che ci fu, eccome!) viene messa fra parentesi. La dimensione del film è individuale. Anche visivamente: macchina fissa, testimonianze riprese a mezzo busto, ogni tanto con la voce di Moretti che fa capolino. Nient’altro che “teste parlanti”, come si dice in gergo. Uno stile essenziale, quieto, persino sottotono. I volti di oggi si alternano alle immagini girate ieri: un infuocato comizio di Salvador Allende (in cui, profeticamente, annuncia che lascerà la Moneda «soltanto crivellato di colpi»), il comunicato con cui Pinochet annuncia l’avvento del regime militare, l’interno dell’Estadio Nacional de Chile trasformato in campo di concentramento, alcuni soldati che danno fuoco a libri e volantini dei partiti d’opposizione, un’intervista al cardinale Raúl Silva Henríquez, il cui impegno attivo contro il regime gli costò la muta ostilità delle alte gerarchie vaticane, Wojtyła incluso. Un’impaginazione dei materiali quasi scolastica, dove le grandi masse sono perlopiù assenti. Santiago, Italia, che pure sciorina date e compara opinioni (i cileni erano davvero tutti con Allende? Il presidente è morto suicida o assassinato? Quanto ha contato l’apporto degli USA?), non vuole essere un affresco storico, né un film d’inchiesta.

 

Una scelta “intimista”, mai gridata ma ferma. Davanti a un ex-militare incarcerato, che invoca imparzialità «perché lei non è un giudice né un prete», Moretti, fino a quel momento quasi assente, passa davanti alla macchina da presa e si rivolge all’interprete fuori campo: «Io non sono imparziale, lo traduca». Qualcuno ha scritto che con Santiago, Italia Moretti ha voluto parlare soltanto “ai convertiti”. Ma se questo succede (semplificazioni e retorica incluse) è perché non rinuncia al punto di vista forte, dichiarato senza infingimenti né possibilità di equivoci. E in ciò, occorre dirlo, è lontano anni luce dagli equilibrismi e dall’equidistanza di molti progressisti nostrani: quel “partito della morale” che, come ricordava Rocco Ronchi su Doppiozero, preferisce parlare per universali tanto generici quanto vacui: la Giustizia, il Bene, l’Uomo… Moretti non lascia spazio agli universali. Il film vive tutto nel racconto dei testimoni, si tratti di vittime o di carnefici, con tutto quello che una scelta del genere può comportare, incluse le rimozioni e le deformazioni della memoria.

 

 

Santiago, Italia, e questa è un’altra osservazione che si può fare, è anche un film sul ricordo di quegli anni e su coloro che li hanno vissuti. «È una storia dei miei vent’anni», ha detto Moretti (classe 1953) durante la presentazione milanese, forse strizzando l’occhio ai coetanei in sala (l’impressione è che, oltre a G. e me, non fossero molti i venti-trentenni). Nostalgia? Nella prima parte del film, il regista domanda a uno dei testimoni come siano stati quegli anni di militanza a favore di Allende. L’intervistato si commuove, esita a rispondere. Poi dice semplicemente: «Belli». Non mi è parso di trovare autocommiserazione o rimpianto. Anzi, mi è sembrato che il tono generale del film fosse estremamente vitale, anche nel racconto delle difficoltà: lo sforzo di dover scavalcare il muro dell’ambasciata italiana per chiedere asilo politico (per il quale, raccontano, ci si allenava apposta); il disagio di ritrovarsi in duecento a condividere spazi comuni, letti, cucine; lo smarrimento all’arrivo in Italia. Anche quando si trova a raccontare, per bocca di chi le ha subite in prima persona, le vessazioni psicologiche e le torture del regime, il film non perde mai questa singolare leggerezza: una donna ricorda di aver chiesto a uno dei suoi aguzzini di smetterla di strapparle il nastro adesivo incollato sugli occhi, perché «magari mi ammazzano, ma almeno avrò ancora le ciglia!» (il critico di un noto quotidiano vicino al governo le ha definite, vai a capire perché, «evocazioni pulp al femminile»). Santiago, Italia parla di vita, non di morte.

 

L’aspetto più delicato del film (e anche quello per cui è stato più criticato) è il rapporto con l’oggi. I lavori di Moretti hanno sempre dialogato con il proprio presente, spesso in modo obliquo (La messa è finita, Caro diario), più raramente in modo diretto (con risultati variabili: La cosa, Aprile, Il caimano). Come in altre interviste di queste settimane, anche durante l’incontro con il pubblico milanese Moretti ha ribadito di aver girato un film sull’accoglienza quasi senza rendersene conto, aggiungendo che, a suo avviso, «in questi ultimi tempi, un gran pezzo della società italiana è andato in direzione opposta ai valori della solidarietà e della curiosità verso gli altri». Ovviamente non metto in dubbio la buona fede di Moretti quando insiste sul termine “accoglienza”, né quando sembra far proprio, sia pure “da sinistra”, il luogo comune sul “bravo italiano”, che accoglie e dà asilo ai rifugiati («Una bella storia italiana di cui, una volta tanto, andare orgogliosi»). Mi sembra però che, dalle testimonianze che il film colleziona, emerga un'altra parola: “antifascismo”.

 

È una parola che, di questi tempi, in tanti non amano sentire («È una parola che non si porta...», mi dice G.), forse perché troppo connotata rispetto al più generico ed ecumenico “accoglienza”. Eppure, è in nome di una profonda convinzione antifascista che i rifugiati cileni trovarono ospitalità in Italia; è in nome della comune lotta antifascista che tutti i partiti dell’epoca (dai repubblicani ai democristiani ai comunisti, come ricorda uno dei testimoni) decisero di non riconoscere il governo dittatoriale di Pinochet; ed è stato (anche) grazie a una diffusa cultura antifascista che i rifugiati godettero del supporto e della vicinanza della popolazione comune – e non solo nelle regioni “rosse” – nonostante quegli anni fossero tutt’altro che facili, anche nel nostro Paese. Santiago, Italia non è tanto una “bella storia”, quanto la storia di un “tessuto umano” unito, compatto, solidale. Ciò che aveva reso “belli” gli anni della militanza socialista, ricorda uno dei testimoni, era stata la capacità di agire collettivamente per spendersi a favore degli altri. Con “parzialità”, naturalmente: perlomeno nella misura in cui si è deciso di compiere una precisa scelta politica. Forse è di questo, sembra suggerire il film di Moretti, che dovremmo avere una grande nostalgia, oggi.

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