Castellucci: Go Down, Moses

15 Gennaio 2015

Tutto sembra iniziare là, nel deserto. Il silenzio, il vento. Il vento, il silenzio, come un frastuono dal quale emerge la voce di dio, di un unico dio, del dio unico. Tra i boschi baluginano mille dèi, i ruscelli, le cascate, le foglie, la luce che irrompe e si cela, i rumori, gli animali, gli spaventi… Ma lì, di fronte a un roveto ardente, tra roccia e sabbia, nasce il monoteismo che si proietta, con fede con dubbi con sangue, sulle nostre città di fumo, di abituali ripetizioni.

 

Go Down, Moses di Romeo Castellucci, in scena al teatro Argentina di Roma, è un momento di un viaggio lungo dell’artefice cesenate, iniziato alle origini della Socìetas Raffaello Sanzio con la riflessione sull’iconoclastia di Santa Sofia. Teatro Khmer (1986), proseguito con la domanda su come i classici, e in particolare la tragedia attica, si possano riverberare sui nostri giorni, proiettato verso la regia di una delle opere più lacerate del Novecento, quel Moses und Aronne che Schönberg non riuscì a finire, diviso tra l’irrappresentabilità dello spirito, di dio, della profondità delle domande che ci poniamo senza risposta, e la necessità della sua traduzione in immagine per governare un popolo, dargli un appiglio, una proiezione, una speranza, una sponda, un dominio (la regia del Moses und Aron del regista di Cesena andrà in scena all’Opera Bastille di Parigi in apertura della stagione 2015).

 

Romeo Castellucci, Go Down Moses, ph. Guido Mencari

 

Agli inizi Castellucci e i suoi compagni della Socìetas avevano incrociato il fondamentalismo degli iconoclasti bizantini con quello dei khmer rossi, i guerriglieri cambogiani che per rifondare il mondo volevano bruciarlo, immolando l’uomo vecchio per trarne quello nuovo. Oggi, su quel gruppo di persone in abiti borghesi che apre il bello spettacolo – una serie di quadri che colpiscono con suggestioni e perturbazioni l’occhio e si rovesciano nella psiche come sogni agitatori – su quella piccola moltitudine in preda a occasionali posture di routine o quotidiane occupazioni (tra esse l’atto di guardare una stampa effigiante un animale), su quel gruppo di persone eleganti, sviluppo della folla finale del Parsifal in marcia o in pausa non si sa verso dove, gruppo pieno di individualità seriali, spira il vento del deserto, dei fondamentalismi, il sangue.

 

Non mi riferisco solo alla cronaca di questi giorni amari, né al furore del petrolio (e dei petrodollari) che alimenta il fuoco della povertà materiale ma soprattutto spirituale. Castellucci non lavora sulla cronaca (e lo spettacolo ha debuttato un paio di mesi fa, al Festival d’Automne di Parigi: leggi qui la rassegna stampa). Lavora sugli archetipi, su ossessioni e impasse della società e dell’uomo. Allora l’immagine di un dio che non accetta di farsi descrivere se non nell’interiorità confligge con la quotidiana desolazione del nostro mondo iperaffollato di immagini, importanti o false; precipita nel pittorico e si fa quasi quadro di genere filmico (il poliziesco, la cronaca nera); esplode in figure e suoni che danno i brividi, che incombono, minacciano, spalancando l’occhio interiore a panorami indescrivibili; sprofonda nel buco nero, arcaico, dell’umanità.

 

Romeo Castellucci, Go Down Moses, ph. Guido Mencari

 

Go Down, Moses non racconta la storia di Mosè, il profeta ebreo, né mostra la rivelazione della Legge nel roveto ardente dal quale, in Esodo, risuona la voce senza figura di Jehovah. È la storia di un abbandono, di una separazione violenta, di una nascita buttata nel dolore. Gioca sull’assoluto e sul determinato, partendo da quegli uomini e donne borghesi, simili a figure del Purgatorio della Divina Commedia creata dal regista per Avignone, alle prese con le nostre assenze e i nostri piccoli crimini quotidiani. Tutto è sfumato, esibito e mascherato insieme da un velario trasparente, davanti a un tendaggio chiaro, in atmosfere lattiginose che sprofondano nell’oscurità, per far poi emergere apparizioni. Non c’è narrazione, se non all’interno dei singoli quadri, sfidando lo spettatore a collegare, a tessere per analogie, per sprofondamento. Castellucci non è di quei registi che spiega, che dà a poco prezzo: per lui chi guarda è sovrano, è testa, passione, occhio, fantasia, sensibilità che deve compiere un proprio percorso incendiato dallo spettacolo, costruire come l’artefice, assumersi la responsabilità del confronto tra il sé profondo e le immagini.

 

Da quella scena borghese insidiata da un gorgoglio, come dal colare di acqua da una piccola falla, le figure si perdono in un buio da cui emerge un tubo (e ombre umane, dietro il tendaggio di fondo). Un lungo tubo metallico che inizia a roteare, sempre più forte, con rumore di vento, con rimbombo, con effetto che ricorda le esplosioni della materia cosmica di The Four Seasons Restaurant (i suoni, rombanti, minacciosi, tellurici, astratti, portati qui fino al gospel – come chiede il titolo, tratto da un famoso canto di schiavi neri – o al Lied contemporaneo, sono del fedele Scott Gibbons). Mentre il roteare diventa vortice, cala un cespuglio, attirato, assorbito dal furioso vento desertico, voce del cosmo, roveto ardente. Da un buio stratosferico emerge il pianto di una donna, e voci di folla sul fondo, un gabinetto pubblico in tagli di luce alla Hopper, una donna, e sangue che dalla sue gambe dilaga, in un lungo insopportabile soffrire, con qualcuno che bussa alla porta del bagno troppo a lungo occupato, e il dolore, il rumore dell’acqua dello sciacquone, imbrattata di sangue la donna in tutto il corpo: nascita clandestina, il mito precipitato nella tragicità del banale quotidiano: derisione e apoteosi, avrebbe detto Grotowski.

 

Romeo Castellucci, Go Down Moses, ph. Guido Mencari

 

Nero. Proiezioni di simboli da sms pronti a tradursi in emoticon, :-( / :-) / :-; / in un continuo viaggio tra la realtà (la prosaicità di oggi) e le profondità che stanno prima delle forme effimere (pathosformel?). Dal buio un cassonetto pieno di rifiuti. Un pianto di bambino abbandonato. Apparire dal nulla, nel vuoto, nel nulla. Mosè lasciato sulle acque, nel canneto. Era questo il procedimento della Tragedia Endogonidia, e della Divina Commedia: esplorare la proiezione contemporanea del mito, il suo svuotamento e la sua persistente forza.

 

Proiezioni sulla cima della scena di frasi, poi le parole diventano scarni dialoghi o frasi lanciate nel vuoto dagli attori. Un commissariato, l’ufficio di un giudice istruttore, la domanda pressante alla madre su dove abbia lasciato, abbandonato, il bambino partorito: possiamo salvarlo...

I vari modi dell’abbandono: Mosè, il parto di una donna che non può o non vuole tenere il figlio, noi tutti, buttati nel vuoto del mondo, in attesa di voci (o di apparizioni) che ci parlino dal cielo, dalla terra, da noi stessi, dall’ufficio di un giudice istruttore, dal profondo, da qualche parte.

“Capisce la mia lingua?” chiede il commissario. “L’ha fatto da sola?” Il destino di tutti. “La hanno obbligata?” Lo sfondo è nero. Siamo in un precipizio ontologico travestito pudicamente, retoricamente, da scena di genere. Il bambino abbiamo bisogno di salvarlo, abbiamo bisogno di lui... Aborti, eutanasie, morti accidentali, suicidi non modificano la presenza della vita sul pianeta… Era bello sentirlo inghiottire il latte... Strazio… Quel piccolo suono non potrò più sentirlo… Mamma perché sei cattiva con me?…

 

Separazione violenta. Lacerazione. Dolore. Un lettino, una macchina per la Tac come scultura di pietra, come bocca di caverna che inghiotte. Il vento prodotto dal tubo metallico del roveto (le esplosioni cosmiche). Un canto nel buio. Siamo precipitati in una pietraia preistorica, una caverna (platonica? che rimanda anche all’amato 2001: Odissea nello spazio). La donna, aspirata dalla macchina medica, apre la scena al passato lontanissimo, sedimentato dentro di noi. Corpi nudi, di ominidi, caverna con uno squarcio di cielo. Sospensione. Visione incerta. Colpi, rimbombi, tuoni. Cacciare, mangiare, accoppiarsi, dominare, sacrificare. La crudeltà verso i più deboli, verso i piccoli della specie, la morte, la pietà, l’insostenibile. Qualcuno scrive, con caratteri incerti, SOS sul velario. Terrore. Aiuto. Il grido degli abbandonati, dei dispersi. La mano dipinta sulla caverna: la prima forma d’arte è un’orma, l’ombra di un dolore? La soggezione della donna. Canto angelico. Le pietre di questa tettonica dell’umano sembrano disegnare la forma di un animale (un vitello d’oro, o è solo suggestione?). Tutti sotto la roccia primordiale, in un luogo senza uscita, rallentati, impolverati, sprofondati, annebbiati alla visione.

 

Romeo Castellucci, Go Down Moses, ph. Guido Mencari

 

Ritorna il rombo, il buco di pietra, la voragine, la grande lavatrice della storia e di prima della storia, della stratigrafia umana. Frattura, sospensione. Sembriamo tornati per un attimo al presente, la macchina per la Tac come un monumento. E il buio ci avvolge.

Qui la voce deve risuonare dentro di ognuno. Castellucci combatte contro le immagini producendo immagini, cosciente della maledizione dell’Occidente di aver rivestito di figure il nucleo dolente, bollente, delle cose ultime, e di non poter raccontarsi fuori da quelle incerte concrezioni e dalla loro pervasiva doppiezza. Ci proietta in un assoluto umano e ci mostra nel nostro piccino presente. Ci sfida ad abbandonare qualsiasi quietismo artistico (e qualsiasi dissennata ricerca di simbologie, di narrazione), e non ci offre neppure la consolazione dello sguardo pietoso e inane sul dolore del Salvator mundi di Antonello da Messina come in Sul concetto di Volto nel Figlio di Dio: lo spettacolo siamo noi, è una sensibilità che si deve aprire come cratere dentro di noi, come visione interiore, per dare camera d’eco, materia, alle sue ombre. Sul fondo rimane quel sangue di donna, sangue che avvelena un mondo che impone nomi di assoluto al proprio smarrimento quotidiano, che conia epiteti troppo quotidiani alla vertigine di qualche assoluto che ancora ci muove.

Go Down, Moses può suonare anche God Own, Moses. “Ma nel deserto voi siete invincibili / e raggiungerete la meta” (Arnold Schönberg, Moses und Aronne).

 

Go Down, Moses, in scena al teatro Argentina di Roma fino al 18 gennaio, regia, scene, luci, costumi di Romeo Castellucci,
testi Claudia Castellucci e Romeo Castellucci, musica Scott Gibbons,
con Rascia Darwish, Gloria Dorliguzzo, Luca Nava, Stefano Questorio, Sergio Scarlatella.


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