Kosuth, Pancrazzi, Oberti / Bianco, nero, grigio

18 Novembre 2019

Tre belle mostre a dominante coloristica, o forse proprio non-coloristica, si possono vedere a Milano in questo momento. Ritorno del monocromo?

Una è bianca ed è di Luca Pancrazzi alla galleria Tega. Sono anni che Pancrazzi dipinge quadri esclusivamente con il bianco steso sulla tela grezza. È il bianco che viene dal “bianchino”, quello che si usava per cancellare gli “errori”, tema ricorrente nell’opera dell’artista. Per questo è una sorta di non-colore, il quale, secondo la dialettica messa sempre in atto da Pancrazzi, nel suo uso improprio rivela, cioè fa emergere le figure, mentre cancella, fa vibrare luci e ombre, superficie e profondità, primo piano e sfondo, vicinanza e lontananza. Anche i temi che raffigura sono variazioni di quelli di sempre, andati ora a scovare in giro per Milano: la galleria, magari di alberi o di fili del tram, il passaggio, l’edificio in costruzione, cioè luoghi – o non-luoghi, come anche si è usi dire – che a loro volta mettono in dialettica asimmetrica il dentro e il fuori, la città e la natura, e così via. La mostra è intitolata appunto Bianco Milano, come fosse un tipo di bianco, come bianco zinco o bianco avorio.

 

Questo è Pancrazzi ormai da tempo, come dicevo, il che fa di questa mostra una bella mostra, perché Pancrazzi è un ottimo artista, ma senza elementi di novità, una mostra di consolidamento. Pancrazzi infatti ha colto l’opportunità di esporre in una galleria di quelle economicamente solide, che espongono nomi sicuri spaziando in ogni ambito storico così come stilistico, per essere finalmente riconosciuto a sua volta in tale contesto. Era ora, come lo sarebbe per molti della sua generazione, di venire considerati non più come giovani o ex-giovani, ma per quello che hanno fatto ormai in più di trent’anni e fanno ora. Cosa succede in Italia? Perché non si è guardati con la stessa serietà degli altri artisti? Ci vuole un cambio generazionale perché questo avvenga? Devono morire i vecchi, o certi vecchi? Anche in arte bisogna aspettare la pensione, quando rischia di essere troppo tardi? Bisogna aspettare il mercato? Pancrazzi fa bene a sottoporsi con grande determinazione a questa prova. E si badi bene che non è né per opportunismo né per cinismo, perché si ricordi che pochi artisti come lui da sempre espongono con i giovani, conosciuti o meno, giovani e non, purché siano bravi e facciano le cose in un determinato modo, anzi promuovendo a sua volta opportunità per confronti su progetti significativi, come fa con Made in Filandia a Pieve di Presciano e con Spazio C.O.S.M.O. a Milano.

 

Ebbene, mentre Pancrazzi dipinge solo con il bianco, a duecento metri dalla sua mostra Giovanni Oberti espone alla galleria Milano i suoi oggetti interamente ricoperti di grafite nera. La chiama “seconda pelle”, che appunto duplica la prima sopra di essa, congelando gli oggetti ma al tempo stesso, anche nel suo caso, rivelandoli in modo diverso, trasfigurandoli. In una stanza sono esposti specchi di varie forme e dimensioni, nell’altra stanza si tratta invece di semi e frutti diversi. I due tipi di oggetti naturalmente funzionano per analogie e contrasti: natura e cultura, seme e ripetizione, origine e scomparsa... Ma la seconda pelle non si limita a coprire bensì cambia il funzionamento di ciò che copre. Lo si vede bene negli specchi, che sono esposti un poco discosti dalle pareti per mostrare che ad essere ricoperta dalla grafite è la parte posteriore, mentre quella specchiante resta tale, ma rivolta contro il muro, negazione che al tempo stesso si rivela strumento di alterazione della luce che trapela allora da dietro e si espande intorno alla forma nera opaca come un’aura.

 

E quando si dice “aura” si dice tutta una serie di rimandi che qui risparmiamo ma che aprono un mondo di affascinanti temi e connessioni. La stanza assume un’atmosfera metafisica, stavo per dire “suprematista”, con queste forme nere aurate sulle pareti bianche.

Nell’altra i semi e frutti da parte loro, esposti in bacheche e scatole trasparenti, appaiono come sospesi, a loro volta moltiplicati e riflessi nei giochi del vetro delle pareti delle bacheche, come abitanti altre dimensioni. L’effetto è poetico, lirico.

 

Opera di Giovanni Oberti.


Il nero della grafite è dunque anche qui un non-colore che rovescia il suo significato simbolico più diffuso, è vita invece che morte, anzi è vita “altra”, vita seconda.

Il dato curioso è che anche in questo caso c’è qualcosa a che vedere con la galleria in cui Oberti espone. La galleria Milano infatti, come molti sanno, ha appena perso la sua fondatrice Carla Pellegrini in un momento di grande vitalità in cui l’ottantenne gallerista stava rinnovando il suo parco artisti, cominciando a diventare un nuovo punto di riferimento per le più recenti generazioni. Chi le succede sta proseguendo questo lavoro che speriamo non interrompa. Intendo dire che in questo caso, in senso inverso a quello di Tega, si potrebbe arrivare a immaginare che attraverso un rinnovamento del genere si possa operare un effetto inverso, di sguardo dall’oggi sugli artisti di ieri, sui meno giovani e sugli storici, effetto non solo auspicabile ma indissolubile dall’altro.

 

Ora, la terza mostra è in grigio ed è di un grande e riconosciuto maestro, tanto che era difficile aspettarsi qualcosa di nuovo da lui. Sto parlando di Joseph Kosuth alla galleria Lia Rumma. Anche il grigio è un colore dalle forti connotazioni, peraltro quasi sempre piuttosto negative, ma forse per Kosuth è il colore del “neutro”. Comunque anch’esso in questo senso una sorta di non-colore, è insieme un colore propriamente misto di bianco e nero, che, qui è evidente, fa da sfondo per metterli in rilievo, che sia in forma di scritte o d’altro.

La mostra è sviluppata su tre piani orchestrati in un crescendo. Al piano terra si trovano sparsi sulle tre pareti della stanza degli orologi tondi le cui lancette girano tutte a velocità diverse e sotto i quali sono scritte in grande una serie di citazioni sul tempo, tutte in inglese e al neon, prese da autori disparati indicati solo con le iniziali. Ne riporto qualcuna tradotta: “Mille anni fa cinque minuti equivalevano a mille e rotti grammi di sabbia sottile. Guarda fisso le stelle. Il tempo infinito del passato e l’infinito tempo del futuro: richiudono sopra di te le ali immense, e già è la fine, V.N.”; “Ogni momento è il paradosso di ora o mai più. S.V.B.”; “Ci sono distanze che sono misurate solo con le parole. V.L.”. Il tempo dunque è commentato nei modi più diversi; forse si potrebbe notare che le citazioni sono tutte letterarie e filosofiche, nessuna scientifica o analitica. D’altronde il titolo dell’esposizione è Existential Time, quindi il tempo è posto sul piano esistenziale.

 

Al primo piano si presenta una grande immagine di un serpente che si morde la coda, noto simbolo di una certa idea di tempo, con sotto un’altra citazione. Il resto della stanza è vuoto ma la parete di fronte, che è a vetrata, è ricoperta lasciando una fascia all’altezza degli occhi, chiaro invito a guardare fuori, all’esterno, dove infatti, sui lati della terrazza, sono scritte altre citazioni, tutte da Nietzsche, autore stavolta dichiarato perché il titolo dell’insieme è Nietzsche Enlightened (Essay). “Illuminato” qui rivela il suo duplice significato. Non sveliamo le citazioni e proseguiamo al piano superiore, l’ultimo della visita, dove c’è, direi, la sorpresa maggiore. Il lettore in effetti forse si starà dicendo che, certo, Kosuth è Kosuth ma orologi a velocità diverse e citazioni son cose già viste. A parte che questo lo si pensa forse di più leggendo un resoconto, mentre si tenga presente che ogni installazione ha un suo carattere peculiare, qui il grigio appunto, l’impaginazione, l’accostamento di oggetto e testo, poi la fotografia, e il passaggio da interno a esterno, e altro ancora.

 

Ebbene, nella terza stanza, terzo capitolo dell’insieme, le pareti sono spoglie mentre troviamo un tappeto a terra su cui sono disposti dei mobili, una sedia, un tavolo, uno scrittoio, delle lampade, una cuccia per cane, tutti rigorosamente grigi, di sfumature diverse. Che oggetti sono? Hanno un’etichetta ciascuno appesa che dice di che cosa si tratta. Ogni oggetto si rivela così legato a un autore, da Kierkegaard a Virginia Woolf, a Duchamp, a Darwin, ad altri. L’effetto è spaesante e affascinante, feticista ma intellettuale. Niente citazioni, si dirà? L’idea è appunto questa: non più la frase, la parola, ma l’oggetto come citazione. Non staremo a sottilizzare sulla differenza con il readymade, ma sarebbe proprio il caso, non fosse che per riflettere sull’aspetto “linguistico” dell’“arte dopo la filosofia” di Kosuth, come si ricorderà. E un altro pensiero mi viene: che rapporto c’è tra tempo (esistenziale) e citazione?

Comunque concludo: questa è una mostra importante, una “vera” mostra di un artista già storicizzato ma che si impegna ancora ad ogni occasione espositiva. Sono mostre che fanno ancora pensare che le gallerie non sono solo luoghi di mercato, e che l’arte contemporanea può essere ancora grande, importante, profonda, necessaria.

 

Luca Pancrazzi, Bianco Milano, a cura di Riccardo Venturi, Galleria Tega – Arte Moderna e Contemporanea, dal 29 ottobre al 21 dicembre 2019.

 

Giovanni Oberti, Galleria Milano, via Manin 13 - via Turati 14 - 20121 Milano, dal 28 ottobre al 10 dicembre 2019.

 

Joseph Kosuth, Existential Time, Galleria Lia Rumma, Via Stilicone, 19, 20154 Milano MI, chiude il 23 novembre 2019.

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