Lotz-Bauer: scatti nell'Italia fascista
Sono passati più di novant’anni. Nel 1933 usciva in italiano Marcia su Roma e dintorni, di Emilio Lussu. Un “documento soggettivo”, come lo definisce lo stesso autore, che racconta con straordinaria lucidità l'ascesa del fascismo (Marco Belpoliti ne fa una rilettura in prospettiva moderna qui su Doppiozero). Riapro il libro prima di affrontare questa recensione; trovo molte vecchie sottolineature.
Quanto e come ricordiamo quell’epoca nera? La stessa epoca in cui – dal 1934 al 1943 – sono stati realizzati gli scatti della mostra Hilde in Italia. Arte e vita nelle fotografie di Hilde Lotz-Bauer al Museo di Roma in Trastevere (visitabile fino al 5 maggio). Il progetto è il risultato di un’approfondita attività di riscoperta, catalogazione e interpretazione del lavoro della fotografa condotta in particolare da Federica Kappler e Corinna Lotz; un’operazione che rende giusto merito a una figura sin qui poco conosciuta.
Hilde Lotz-Bauer nasce a Monaco di Baviera il 31 marzo del 1907. Ottiene nel 1931 il dottorato in storia dell’arte e nello stesso anno si iscrive a una scuola di fotografia, la Bayerische Staatslehranstalt für Lichtbildwesen. Arriva a Roma alla fine del 1934 grazie a una borsa di viaggio della Bibliotheca Hertziana e da quel momento il suo rapporto con il nostro Paese sarà profondo e costante. In qualità di fotografa professionista operante presso gli Istituti Storici di Roma e Firenze, produrrà immagini di scultura, disegno, architettura e urbanistica. In parallelo, percorrerà a più riprese quasi tutta l’Italia fotografando la gente e i luoghi con un approccio, si direbbe oggi, da street photographer.
Anche se le quasi cento fotografie in mostra non sono aiutate da un allestimento troppo affollato, la scelta curatoriale è efficace per quanto riguarda la presentazione del materiale, organizzato in sale che corrispondono ai due diversi nuclei della sua produzione: nella prima parte si trovano le fotografie di storia dell'arte realizzate su commissione, nella seconda la fotografia di reportage. Sono anche le due anime della poetica di Hilde Lotz-Bauer, distinte ma comunicanti. Tecnica e capacità narrativa. Rigore che non esclude l’originalità. Pulizia formale e vicinanza empatica.
La prima sezione è dedicata a riprese panoramiche, colte spesso da punti di vista inconsueti, di Firenze, Bologna, Padova, Roma. Riproduzioni di edifici, elementi architettonici e dettagli di sculture e bassorilievi. E ancora, linee dal gusto grafico, come il profilo di una scalinata o l’ombra di colonne su altre colonne.
È una fotografia al servizio della storia dell’arte, in cui si nota un flusso di lavoro disciplinato e una profonda conoscenza delle opere. Una “giusta distanza” rende le immagini neutre, funzionali all’intento documentario. Al contempo, sottilmente, si riconosce una mano – un occhio – esperti, uno stile. Hilde Lotz-Bauer, funambola di talento, si mantiene in bilico tra il rispetto dei ruoli e l’inevitabile reinterpretazione personale di linee, colori e forme. Sa che la corretta fotografia di architettura è la restituzione fotografica del disegno di una prospettiva, la riproduzione esatta di cosa vedrebbe l’occhio umano. Cosa non semplice, allora come oggi. Tutto dipende dalla posizione del luogo di ripresa, della focale e quindi dell'angolo di inquadratura, dalla scelta del punto di vista e dal piano della pellicola. Una sorta di funzione a più variabili di cui va trovato di volta in volta l’ottimo per evitare la distorsione delle linee o sgradevoli effetti di accelerazione prospettica.
In tal senso, le foto di Hilde Bauer sono impeccabili, affilate. Recepiscono il canone di rappresentazione dell’architettura in voga all’epoca: composizioni ben studiate nelle ortogonali e diagonali, luce morbida, chiaroscuri a forti contrasti per definire i volumi, stampa chiara e grande profondità di campo. Immagini austere e statiche, in cui la fotografa si concede tutt’al più l’inserimento di una o due figure umane come termine di paragone con le dimensioni dell’architettura.
Tecnica. Gusto. E l’abilità di ovviare alle limitazioni, anche arrampicandosi sui tetti o predisponendo soluzioni ingegnose. In sintesi: “Sie ist eine sehr gute Photographin”. Un’eccellente fotografa, con queste parole il direttore della Nationalgalerie di Berlino segnalerà infatti Hilde Lotz-Bauer in una lettera a Friedrich Kriegbaum, a capo del Kunsthistorisches Institut a Firenze. Su sua commissione, Hilde realizzerà foto per pubblicazioni sulla scultura rinascimentale e in particolare per il cosiddetto Florenzbuch, un monumentale libro mai ultimato a causa della morte dello stesso Kriegbaum durante il bombardamento di Firenze nel 1943. Ma Hilde si era già fatta notare per la sua professionalità, per esempio con il progetto (anch’esso esposto in mostra) sui Castelli di Federico II nell'Italia meridionale diretto dallo storico dell’arte Leo Bruhns.
Tuttavia, oltre alla macchina fotografica grande formato, Hilde Lotz-Bauer portava con sé la Leica per i suoi scatti personali. In questo caso lo sguardo è spontaneo e vicino al soggetto. Si muove tra la gente e ne descrive la condizione sia nelle città, sia delle zone rurali in Sicilia, Puglia, Campania, Abruzzo. Ci sono la folla, i mercati, le strade; i bambini riempiono i cortili, le donne vanno alla fontana. Una fotografia etnografica svolta da un punto di vista esterno, quello di straniera integrata e spettatrice esperta.
Qui l’architettura è messa in relazione con chi la abita: le persone diventano puntini neri sulla scalinata bianca di Trinità dei Monti, o mozziconi di colonna in mezzo ai Fori Imperiali, o sculture viventi sul portale di una chiesa.
Un dialogo tra uomo e paesaggio che contiene una malinconia. Come i due uomini affacciati alla terrazza del Monumento a Vittorio Emanuele II. Da lì guardano Roma, di schiena, parlano di quanto la città stia cambiando, dei tempi, chissà. La diversa forma dei loro cappelli dice la distanza tra le rispettive opinioni. Due uomini con una posizione, forse un qualche potere. Ma le sagome nere ingrossate dal pastrano sono niente rispetto alle maestose colonne del loggiato. C’è troppa calma. Qualcosa si prepara altrove, mentre la luce pare quella di sempre. Uno dei due chiede all’altro: la senti anche tu una cosa che incombe?
Non lontano gli operai stanno demolendo la Spina di Borgo. Sopra una collina di macerie fanno ciò che hanno comandato loro di fare, è il loro lavoro, ognuno conta una famiglia. Sullo sfondo, la Basilica di San Pietro supervisiona il procedere del cantiere.
Guardiamo queste foto dalla posizione privilegiata delle generazioni successive. Qualcosa manca, cosa? Un grande non detto: il fascismo. Tranne che per un gruppo di Balilla al Pantheon e l’iscrizione “È l’aratro che traccia il solco ma la spada che lo difende”, nelle immagini non c’è traccia del regime, o meglio, nessun tentativo di problematizzare le sue contraddizioni interne. Giornate di sole. Una specie di sospensione di giudizio e la sensazione di stare sulla soglia.
Scrive Federica Kappler nel bel catalogo che accompagna la mostra: “Negli anni in cui, grazie ai fotografi dell’Istituto Luce, la narrazione enfatizzava il processo di modernizzazione del paese, i servizi offerti da uno Stato corporativo che garantisce ordine, benessere ed efficienza promuovendo la carta del lavoro e assistenzialismo; in cui qualsiasi immagine in grado di minare l’illusione di pace sociale e prosperità, nutrita dalla copiosa classe piccolo borghese, viene eliminata e bandita, si inserisce la fotografia di Hilde Lotz-Bauer. […] una fotografia che ad oggi offre una documentazione estranea e alternativa alla retorica della realtà sociale dell’Italia del Ventennio.”
Una lettura che convince, ma solo in parte; il fantasma assente del fascismo pare piuttosto un’inconscia rimozione. È vero: viene mostrata la povertà delle campagne, l’arretratezza culturale, i volti segnati dalla fatica. Ma in questa rappresentazione, più che la denuncia sociale, sono riscontrabili le suggestioni dell’arte italiana e una certa fascinazione per il valore interiore dell’arcaico, del mondo aspro, prepolitico e precristiano di Cristo si è fermato a Eboli.
Un esempio su tutti, il bellissimo reportage realizzato da Hilde Lotz-Bauer a Scanno, in Abruzzo. Tamara Hufschmidt, curatrice nel 2008 di una mostra dedicata proprio a questo lavoro (leggi qui), scrive: [Hilde] “Ha saputo far diventare le donne di Scanno regine, sculture classiche viventi, che mantengono la loro individualità, ma allo stesso tempo diventano icone.”
Donne dignitose, intente al lavoro, ai mestieri o al tombolo. Cariatidi popolane, portano sulla testa vasi d’acqua, fascine di legna, vassoi di pagnotte. Spontaneo il confronto con le donne di Tehuantepec fotografate da Tina Modotti nel 1929: altri occhi, altre fiere regine. Oppure con e quelle fotografe sempre a Scanno da Henri-Cartier Bresson nel 1951...
A chiudere la mostra, il bel docufilm di Madeleine Merino, intitolato Sulle tracce di Hilde, un cortometraggio che racconta il suo tentativo di ricostruire i viaggi in Italia della fotografa, a partire dall’analisi dell’archivio anche quando le fotografie non potevano essere datate o attribuite a un luogo specifico.
Ancora uno sguardo alle foto: sì, sono ottime foto, il lavoro di Hilde Lotz-Bauer merita di essere conosciuto. Documenta un’Italia lontana, fa esistere ancora luoghi svaniti. E di più. Indirettamente, nella normalità della vita che procede, nella gente tra le bancarelle del mercato, ci ricorda, come già ammoniva Lussu, che il fascismo si è affermato anche perché gli è stato permesso.
In copertina, Scanno, Giovane donna (Lia Rotolo) porta il pane, 1935 c.