Sotterranei di velluto. Per Lou Reed
Con la celebre banana di Andy Warhol in copertina, vera icona dell’arte del consumo e del consumo come arte (niente dura così poco sugli scaffali come le banane), nel 1995 uscì Peel Slowly and See, “Pela piano e guarda”, il cofanetto “definitivo” dei Velvet Underground. Oltre ai quattro album in studio conteneva numerosi demo, outtakes e registrazioni dal vivo. E quando si ascolta la prima versione di Venus in Furs, cantata dal solo John Cale con accompagnamento di chitarra, si rimane sbalorditi.
Possibile che quella gentilissima ballata inglese—dalle parole un po’ singolari, sì, e dove un certo Severin non vede l’ora di sottomettersi alla sua spietata dominatrix come nel romanzo di Sacher-Masoch, ma che suona pur sempre come una canzone “folk”— sia la stessa che ascoltiamo in The Velvet Underground & Nico? La versione definitiva è forse la song più “viziosa” mai concepita, ancora più di Vicious che Reed avrebbe scritto pochi anni dopo (“Sei vizioso, mi colpisci con un fiore, lo fai a tutte l’ore”; l’idea, neanche a dirlo, gliel’aveva suggerita Andy Warhol).
Le dolci volute della melodia originale sono ignorate, derise, uccise. La batteria ripete due colpi di grancassa ad intervalli regolari; John Cale alla viola frusta letteralmente la canzone con striscianti glissando che sembrano cubetti di ghiaccio fatti scorrere lungo la schiena. E sopra il serpentino arrangiamento domina la voce di Lou Reed, spaventosamente impassibile, supremamente cool anche quando esprime il desiderio di essere frustato a sangue e schiacciato da stivali di cuoio luccicanti nel buio. Passare dal demo alla versione definitiva di Venus in Furs è come scorrere in un’occhiata tutta la Filosofia nel boudoir del Marchese De Sade o, detto altrimenti, è come corrompere una fanciulla di buona famiglia e farle finalmente incontrare la verità.
Mettere la middle class americana di fronte alla brutale realtà del desiderio è stato l’obiettivo dei poeti e scrittori che hanno influenzato Lou Reed (Delmore Schwartz, del quale Reed seguì dei corsi universitari, e Hubert Selby Jr, l’autore di Ultima fermata a Brooklyn), nonché dei beat che influenzarono Bob Dylan. La New York di quegli anni, a quanto pare, era piena di dolci fanciulle alle quali avrebbe fatto un gran bene corrompersi un po’ (ma non troppo: Edie Sedgwick, la dedicataria di Femme fatale, pochi anni dopo finì per rimetterci la vita).
È la storia dei personaggi che affollano la canzone più celebre di Lou Reed, Take a Walk on the Wild Side. Hanno già fatto il salto nel buio e non hanno bisogno di nessuno a far loro da guida. Take a Walk on the Wild Side è Like a Rolling Stone.2 senza neanche bisogno del moralismo hip di Dylan. Holly, Candy, Little Joe, Sugar Plum Fairy, Jackie, i personaggi menzionati da Reed (ectoplasmi della Bowery, veri e chiamati con il nome che portavano allora) simbolicamente accolgono la signorina sbandata di Like a Rolling Stone dicendole bene, adesso che sei come noi vieni a fare un giro dalle nostre parti, vieni a esplorare il lato violento delle cose. Lou Reed aveva quel talento allora, e l’ha sempre avuto, fino agli ultimi anni e agli ultimi dischi, di saperci convincere che la grande operazione dell’arte moderna non consiste nel riscattare la bellezza perduta ma nel trasformare uno splendido cigno in un brutto anatroccolo. L’artista che cerca il “vero” deve anche sapere che il vero è brutto (e non l’ha detto Lou Reed, l’aveva già detto Leopardi).
I Velvet Underground sono stati gli Ungrateful Dead, i morti ingrati. Dividevano la stessa pulsione di morte dei loro cugini californiani, ma non l’addolcivano con nessuna caramella ideologica di pace amore e musica. Per loro, come per altri artisti che gravitarono intorno alla New York del post-folk revival, andrebbe coniata la categoria della East Coast Music. Che non è poca cosa. Comprende The Fugs e Arto Lindsay, Steely Dan e Ric Ocasek, The Ramones e Devo, Sonic Youth e Patti Smith. Talking Heads e David Byrne non ne sono così lontani. Su tutti dominava Lou Reed, il cui cinismo impareggiabile era la più pefetta maschera della pietà. Nella sua carriera dopo i Velvet Underground ha inanellato album a volte eccezionali a volte meno, ma non ha mai perso la precisione chirurgica della versificazione, neanche quando le sue canzoni erano tanto referenziali quanto un annuncio radiofonico.
Un accordo è già abbastanza per una canzone, diceva Reed. Due sono già un’esagerazione. Un simile riduzionismo non si sarebbe sostenuto senza la sua voce di metallo freddo, il suo Sprech-Gesang che eliminava a priori qualunque intrusione melodico-sentimentale. Ma non è che non ci fosse musica. Le canzoni di Lou Reed non erano solo poesie recitate in stile espressionista, un Pierrot lunaire schönberghiano ambientato all’incrocio tra Bowery e Bleecker Street. Brian Eno, che di non-musicisti se ne intende, l’aveva capito quando disse che Velvet Underground & Nico aveva venduto solo 30.000 copie ma chiunque l’avesse comprato aveva poi formato un gruppo. Per la precisione, Velvet Underground & Nico vendette 58.000 copie, e come tale venne considerato un fiasco. Se non ne uscirono 30.000 gruppi, ne nacquero però trent’anni di glam, punk e art rock.
Lou Reed è sempre stato un minimalista sperimentale, il che è un altro modo di dire che i Velvet Underground, strepitose idee a parte, come musicisti erano abbastanza tremendi. Alcuni dei live di Lou Reed, come il bootleg legale American Poet, registrato nel 1972 e pubblicato nel 2001, raggiungono l’altipiano della perenne stonatura.
Ma nella musica concettuale ciò che conta sono le idee. L’allucinante Sister Ray (da White Light White Heat) dura diciassette minuti su un solo accordo o poco più.
Metal Machine Music del 1975 è fatta di ottanta minuti di puro feedback generato da una chitarra e due amplificatori; un’idea così semplice, e così folle, che non era venuta in mente neanche a Stockhausen.
Recentemente è stata trascritta per orchestra, mostrando di essere il prototipo di tutte le sinfonie di Glenn Branca. Like a Possum (inclusa in Ecstasy del 2000) racconta diciotto minuti nella vita di un fumatore di crack con diciotto minuti di urla di chitarre elettriche, non molto interessate nemmeno loro a esagerare con il numero degli accordi.
Quando si toglie al rock and roll la malinconia del blues, la saggezza lenta delle blue notes, in altre parole la cara depressione che protegge dalla psicosi, quello che resta è la paranoia urbana di cui Reed è stato il profeta. Non solo perché ha visto nel futuro, ma anche perché ha saputo recuperare uno specifico passato. La dimensione claustrofobica del rock bianco, vero rito da Edipo fallito, era già implicita nella musica degli anni cinquanta. Basta pensare ai film esoterico-demonici di Kenneth Anger in cui la rappresentazione di riti di magia vagamente nera e vagamente sessuale, ispirati ad Alesteir Crowley, sarebbe ridicola da guardare se non fosse accompagnata dalla musica più “innocente” che si possa immaginare, rockettini da balera che usati come colonna sonora di miseri riti sessual-satanici improvvisamente svelano il loro volto sinistro, il loro vero wild side.
Dopo aver visto i film di Kenneth Anger non è possibile ascoltare, che ne so, Eddie Cochran senza sentire un brivido nella schiena. E non è possibile ascoltare Rumble di Link Wray, con i suoi scampananti accordi di chitarra ossessivamente ripetuti, senza pensare a tutti i “sotterranei di velluto” (lascio a voi decidere se si tratta di una metafora coitale) in cui Lou Reed, con o senza il formidabile apporto di John Cale, ha fatto entrare i suoi ascoltatori.
Dopo la morte di Lou Reed, Rob Sheffield ha scritto su “Rolling Stone” che la più grande ironia per un allievo di Delmore Schwartz sarà di essere ricordato per un singolo verso di Street Hassle. Dopo essere stato testimone di una scena di orrore tra tossici, il narratore della canzone, uno di quei tipi che uno spera di incontrare solo in una canzone di Lou Reed, commenta: “Trallallà, facciamo quelli che spariscono” (“Sha la la, come on, let’s slip away"). Reed pensava che potesse essere il suo epitaffio.
Ma quel “Sha la la” è l’equivalente newyorchese del “la la” di Céline in Da un castello all’altro (“Lili Marlene! La la! Sol diesis! La la! E che tette! ...Colori di guerra e trallallà...”). Il vero orrore è che non c’è orrore che non possa essere superato da un trallallà.
La New York di Lou Reed l’ho vista solo di sfuggita, la prima volta che ho messo piede in America nel 1979. L’anno precedente l’intera città aveva rischiato di andare in bancarotta, come ora è accaduto a Detroit, e solo l’intervento del governo federale le diede la possibilità di rimettersi in piedi. L’Hotel Empire all’angolo tra Broadway e Columbus Avenue era costellato da avvisi che raccomandavano di non salire in ascensore da soli, non attaccare discorso con sconosciuti, non avventurarsi nei corridoi dell’albergo senza essere accompagnati, e chiamare il personale dal telefono delle camere non appena si percepiva un rumore sospetto.
Le pareti erano scrostate e la moquette puzzava. Ed eravamo davanti al Lincoln Center! Eppure l’Hotel Empire è ancora lì, riverniciato, ristrutturato e imbellettato, con il monumento a Dante che gli sta tuttora di fronte al centro di una piccola aiuola triangolare. Anche la Bowery è ancora lì, ma se oggi si va a piedi da Union Square a Delancey Street non è per fare una passeggiata nel wild side ma per scegliere in quale ristorante italiano fermarsi a cena. La New York di Transformer e di Street Hassle si è spostata nelle estreme propaggini di Brooklyn e Queens, o magari alla periferia di Newark. Non è il caso di rimpiangerla. Ma che la New York di oggi non abbia, e forse non possa avere, un cantore della forza di Lou Reed, questo sì ci deve dispiacere.
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