Wolfram Eilenberger / Il tempo degli stregoni

24 Agosto 2018

Perché il mare procelloso in copertina? Perché Il tempo degli stregoni di Wolfram Eilenberger (tr. it. di Flavio Cuniberto, Feltrinelli, pp.401, € 25) vuole parlare di un naufragio, quello della Germania degli anni Venti del XX secolo. Copertina decisamente non bella, per trasmettere un’idea che forse poteva essere comunicata diversamente. Ma tant’è. E poi quel titolo “stregoni”, che traduce la parola tedesca “Zauberer”, che prima che “stregoni” vuol dire “maghi”, termine che è più vicino all’ambito dell’epoca, a Thomas Mann, ma anche a Goethe. Stregone è in italiano una parola che assume un significato decisamente negativo, da magia nera. Dei quattro filosofi di cui tratta Eilenberger – Heidegger, Wittgenstein, Benjamin e Cassirer – solo uno può essere avvicinato alla stregoneria: Heidegger. Gli altri tre non possiedono nulla del genere. Se c’è un aspetto delle loro magie che può essere evocato, è quello espresso piuttosto dal polo opposto, dal bianco. 

    

Il volume del quarantenne tedesco, nato a Friburgo e fondatore di “Philosophie Magazin”, vuole raccontare le vicende personali e pubbliche dei quattro autori nel decennio che va dal 1919 al 1929, quello compreso tra la fine della Prima guerra mondiale e la prima grande crisi economica del capitalismo mondiale. Sullo sfondo, evocato in alcuni punti del libro, c’è l’ascesa di Adolf Hitler, il vero stregone del decennio, che si avvicina a passi sempre più rapidi al potere per poi trascinare l’Europa in un conflitto mondiale. 

    

L’avvenimento storico che fa da sfondo alle vicende è senza dubbio la Repubblica di Weimar, il suo avvento e la sua rapida crisi che apre la strada al trionfo del nazionalsocialismo. Nella quarta di copertina del volume, nella traduzione italiana, si parla dei quattro protagonisti della filosofia tedesca come gli “ultimi grandi filosofi”, “attori di una rivoluzione senza precedenti”. Si aggiunge come strillo finale: “Un racconto travolgente che ci rivela come siamo diventati quello che siamo”. Ecco: cosa siamo? E poi: chi? Noi europei, noi tedeschi, oppure noi occidentali? Non è chiaro, anche se una risposta nel libro poi c’è. Andiamo per ordine. Per chi non ha letto il libro meglio raccontare di cosa si tratta. 

   

L’autore ha fermato in una serie d’istantanee le esperienze dei quattro autori, intrecciando aspetti personali – sentimentali, sessuali, famigliari, economici –, aspetti accademici – il loro successo o insuccesso – e aspetti del loro pensiero. In brevi capitoli dedicati, a gruppi di due, tre o quattro, ai filosofi, Eilenberger racconta per punti salienti le diverse posizioni filosofiche di ciascuno. 

Si comincia dalla fine, con il ritorno a Cambridge di Ludwig Wittgenstein, nel 1929, che deve sostenere un esame per ottenere una borsa di studio, e propone alla commissione, composta da George Edward Moore e Bertrand Russell, i due più eminenti filosofi e logici dell’università inglese, suoi interlocutori quindici anni prima, il Tractatus logico-philosophicus. Si comincia da lì, perché ci sono due meravigliose frasi del filosofo debitamente citate. La prima – “Non fatene un dramma, so che non capirete nulla” – è rivolta ai due esaminatori il 18 giugno 1929. Affermazione che forse poteva valere per il solo Russell, che in effetti non si raccapezzava molto con negli aforismi scritti dal suo geniale ex allievo, ma probabilmente non con Moore. Questi si era recato quindici anni prima su invito di Wittgenstein in Norvegia per discutere le tesi filosofiche con lui; l’incontro durato una settimana era finito con il viennese che dettava a Moore le sue tesi. Al ritorno in Inghilterra gli appunti norvegesi erano stati proposti da Wittgenstein come completamento del suo curriculum di studi. Moore ci aveva provato presso le autorità accademiche, ma il testo era stato respinto e Wittgenstein se l’era presa in modo violento con Moore, tanto che questi era caduto ammalato e i rapporti tra i due interrotti. 

   

L’altra frase è compresa invece in una lettera di John Maynard Keynes, che annuncia alla moglie nel gennaio del medesimo anno l’arrivo di Wittgenstein a Cambridge: “Dio è arrivato, l’ho incontrato sul treno delle 5 e un quarto”. La frase è spesso citata, ma senza spiegare che “Dio” era l’epiteto ironico con cui Ludwig era chiamato nella cittadella universitaria tra gli adepti del circolo di Keynes. Nella medesima lettera poi l’economista comunicava la sua intenzione di non discutere più di una ora o due con il filosofo: troppo faticoso e impegnativo.

   

 

Subito dopo questo inizio accattivante del libro di Eilenberger c’è la scena che funge da parentesi aperta e si chiude solo al termine del libro: l’incontro e il conseguente dibattito nel 1929, al Grand Hotel Belvedere di Davos tra Martin Heidegger ed Ernst Cassirer, ovvero tra l’astro nascente della filosofia esistenziale tedesca e il suo anziano collega neokantiano. Il primo destinato a diventare nazista, il secondo, in quanto ebreo, ma anche come pensatore “democratico”, costretto all’esilio con l’avvento del Führer al governo della Germania. In mezzo a loro c’è Walter Benjamin, scrittore, critico, saggista, giornalista, oltre che filosofo, il più provato dalle proprie vicende personali e dall’avvento del nazionalsocialismo, che morirà suicida a Port Bou nel 1940 nel tentativo di scappare in Spagna, e quindi in America, dopo un lungo esilio dalla sua adorata Berlino, ramingo per l’Europa, sempre al limite della indigenza, costretto a sopravvivere a fatica sino a quell’atto estremo. 

   

Il brillante saggio di Eilenberger, che si fa leggere, e che ha perciò il merito di presentare questioni filosofiche non certo semplici a lettori non specialisti, si fonda sulle biografie dei quattro filosofi, in particolare, per quanto riguarda Wittgenstein, il bellissimo libro di Ray Monk, Ludwig Wittgernstein. Il dovere del genio (1991), tradotto anni fa da Bompiani, e oggi non più reperibile in libreria; per Benjamin il più recente e corposo libro di due studiosi americani, Howard Eiland e Michael W. Jennings, Walter Benjamin. Una biografia critica, tradotta tre anni fa da Einaudi; per Heidegger invece il libro del saggista tedesco Rüdiger Safranski, Heidegger e il suo tempo, che si legge nell’economica TEA (2008), e infine, per il filosofo delle “forme simboliche”, il libro di Thomas Meyer, Ernst Cassirer (Ellert & Richter, 2006). 

 

L’autore attinge a piene mani da questi quattro volumi, che per altro costituiscono il punto d’approdo di precedenti studi biografici cominciati negli anni Cinquanta e Sessanta. La questione che il volume del saggista tedesco pone è: perché queste quattro vicende e pensieri sono interessanti per noi oggi?

Circola da qualche anno, probabilmente dalla vittoria della Brexit e dall’elezione di Donald Trump, l’idea che stiamo vivendo un periodo periglioso simile a quello attraversato dall’Europa dopo la Prima guerra mondiale. Non siamo ancora alla Repubblica di Weimar, ma dopo le varie crisi interne dell’Unione europea, la vittoria dei populismi in numerosi paesi, compresa l’Italia, la progressiva discesa elettorale della Merkel, l’arrivo dei migranti dal Sud del mondo, in particolare dall’Africa, le vicende dell’Ucraina e della Crimea, con l’espansionismo russo e il dominio incontrastato di Putin, il sovranismo delle destre europee e altro ancora, sembra delinearsi uno scenario che diversi commentatori hanno avvicinato al periodo storico in cui hanno vissuto e pensato i quattro filosofi considerati in Il tempo degli stregoni. Eilenberger è poi senza dubbio abile ad agitare questo spettro con piccoli tocchi riferendo dettagli o particolari delle varie biografie. 

   

Il suo personaggio preferito è Heidegger. Lo è almeno per un aspetto che il quarantenne filosofo tedesco, che vive tra Berlino e Copenaghen come asserisce la sua asciutta biografia nel risvolto della traduzione italiana, manifesta con evidenza sin dalle prime pagine: Heidegger all’epoca esprime il “nuovo”; è l’unico dei quattro che si trova in sintonia con la giovane generazione tedesca. Non voglio dire che il quarantenne autore di Il tempo degli stregoni s’identifichi con “i ragazzi di Heidegger”, i filosofi venuti dopo, entusiasti sostenitori dello stregone di Friburgo, ma poco ci manca. Heidegger gode di un privilegio che è assai evidente nel confronto con il più anziano Cassirer: il primo è un uomo nuovo. Heidegger è cattolico, figlio di sacrestano cattolico, alla ricerca di un suo posto al sole, privo di mezzi economici, sicuro di sé. Cassirer è invece un ricco borghese, con tanto di famiglia benestante alle spalle, un ebreo, un uomo del passato, dedito a un pensiero che, rapportato a quello del suo avversario risulta vecchio, legato alla tradizione neokantiana, insomma al pensiero “razionalista” uscito a pezzi dal macello della Prima guerra guerra, e incapace di intuire quale strada si apre con la filosofia del Da-sein dello stregone: la sua capacità d’instaurare un confronto con il pensiero sull’essere-per-la-morte. 

   

Non importa che della guerra di trincea, sperimentata da Wittgenstein in prima persona a rischio della vita, il giovane filosofo tedesco non rechi grande traccia, se non in modo indiretto; era infatti stato ben poco a diretto contatto con la morte nelle prime linee del conflitto, come ci ricorda Eilenberger: arruolato nel reparto meteorologico con il compito indicare, a debita distanza dalle trincee, la direzione del vento quando i soldati del Kaiser spargevano i loro gas venefici nel corso delle loro battaglie. 

   

La figura di Cassirer appare in queste pagine come quella di un anziano accademico, tutto casa e università, malaticcio e flebile davanti al giovane stregone a Davos: Heidegger sui campi di sci, Cassirer a letto con la febbre. Eilenberger non approfondisce nel suo libro il ruolo di Cassirer all’Istituto Warburg; parla piuttosto del figlio dei banchieri ebrei, Aby Warburg, che rinunciando all’eredità – stessa cosa che fece Wittgenstein, uno degli eredi di una enorme ricchezza dopo la fine della Prima guerra mondiale  – ha fondato la prestigiosa biblioteca; parla della sua malattia mentale, del ricovero nella clinica di Binswanger, della dismissione, senza segnalare l’importanza che l’esperienza della Biblioteca e dell’Istituto ha avuto nel secondo dopoguerra nella cultura europea, e a cui Cassirer ha fornito un contributo importante. Grazie a quella istituzione, messa in moto dall’erede di una grande fortuna bancaria, è nata una intera corrente di pensiero che ha rinnovato profondamente l’antropologia, la storia dell’arte, la filosofia, l’estetica, fondando quella “scienza senza nome”, come l’ha definita Giorgio Agamben, che ha saputo superare le soglie disciplinari per aprirsi a una comprensione del mondo visibile diversa dal passato.

  

Nonostante le critiche che Eilenberger rivolge a Heidegger, è lui il vero eroe del volume. Più volte l’autore sottolinea le convergenze tra il suo pensiero e quello di Wittgenstein, ma anche con quello di Benjamin, che pure scriveva ad Adorno di voler distruggere il pensiero del filosofo dell’Essere. Heidegger appare nel contesto del racconto di Eilenberger come la vera forza propulsiva che comporta il ritorno all’atto del filosofare dopo secoli, e persino millenni, di distanza dal vero pensiero. Il mare in tempesta della copertina è perciò quello sollevato da Heidegger e dagli altri filosofi, ed è anche, in modo trasposto, l’immagine simbolica dell’Europa attuale, che è entrata da qualche anno nella tempesta perfetta, che potrebbe causare a breve il naufragio della nave UE in balia delle acque procellose della storia.

   

 

Probabilmente è tale tema sottotraccia che ha decretato il successo di questo libro, almeno tra i lettori del Vecchio continente. La Germania, patria culturale di Eilenberger, non manca di filosofi significativi. Ci sono, oltre a Habermas, oggi novantenne, erede della Scuola di Francoforte, qui vista solo di scorcio, ma che ha avuto un certo peso nel suo paese durante il lungo dopoguerra – e non solo lì –, anche filosofi come Peter Sloterdjik e Thomas Macho, che hanno spostato il terreno della discussione dalla filosofia alle “scienze della cultura”. Del primo i libri sono stati letti, discussi e tradotti, e si è arrivati anche ad accapigliarsi per le sue posizioni culturali e filosofiche. Che sia la filosofia tedesca dei sessantenni e dei settantenni l’obiettivo polemico di Eilenberger? Oltre naturalmente la filosofia analitica oggi dominante? Viviamo in un tempo in cui il “nuovo che avanza” è diventato lo stigma delle società europee. E anche se per l’autore di questo volume non è direttamente questo l’obiettivo che si prefigge – la lotta generazionale giovani contro i vecchi –, tuttavia il libro cade in un momento in cui la sua lettura avviene all’interno di un contesto simile a quello della crisi di Weimar, che riquadra Il tempo degli stregoni.

   

Dei quattro autori presentati da Eilenberger, quelli che presentano una vera affinità con il nostro tempo di crisi sono piuttosto Walter Benjamin e Ludwig Wittgenstein. Se si legge la biografia che hanno dedicato al primo i due autori americani, base del racconto di questo volume, si capisce come Benjamin sia il migrante della filosofia, l’uomo che vive la crisi della perdita della propria patria, e di un fondamento anche economico, nel contesto dell’Europa che scivola progressivamente verso la guerra. La sua figura appare commovente, per il continuo sforzo che egli compie di restare in equilibrio, anche dal punto di vista psichico – soffriva di depressione –, e insieme di non abbandonare la progressiva messa a fuoco del suo pensiero che culmina con i Passages, opera non finita. Benjamin è un uomo del nostro tempo, un nomade, costretto a mantenersi scrivendo per giornali e riviste, respinto dall’istituzione universitaria (da morto diventerà autore di libri di studio per corsi universitari), senza editori che lo pubblichino (la sua opera omnia oggi consta di vari volumi rilegati, oltre che di edizioni costantemente ristampate e citate in molteplici articoli e tesi). Con la sua salute malferma, frutto anche della sua miseria, è una sorta di “santo laico” della cultura: mistico e insieme materialista. 

  

Le fotografie che gli ha scattato la sua amica, la fotografa Gisèle Freund a Parigi, nell’ultimo periodo della sua eterna fuga, ci restituiscono l’immagine di un pensatore della precarietà, determinato e assoluto, che si avventura nella biblioteca del passato con la curiosità dell’esploratore, e che è capace di formulare idee e ipotesi impensate sino a quel punto riguardo ogni autore che incontra. Chi ha letto le sue pagine su Kafka sa bene di cosa parlo. Benjamin è l’emblema della sconfitta che arride ai pensatori temerari e agli uomini sfortunati. La biografia di Eiland e Jennings mette bene in luce i suoi innamoramenti fallimentari, da Julia Cohn a Asja Lacis, compresa la moglie Dora, personaggio complesso, rimasta sempre fedele al suo genio intellettuale, anche dopo la separazione e il divorzio. 

Al confronto la vita di Heidegger appare ordinaria, nonostante l’amore con l’allieva, l’altrettanto geniale Hannah Arendt, innamorata di lui ma che pure si allontana per laurearsi altrove; nonostante il complesso rapporto con la moglie Elfride, che resta incinta di un altro uomo e che Heidegger non ripudia. Heidegger è l’uomo del pensiero, il cui apice politico è connesso con l’avvento del nazismo. Vecchia questione più volte dibattuta, e che ha ripreso quota dopo la pubblicazione dei Quaderni neri. Salvare il pensatore e gettare a mare l’antisemita e il nazista? 

   

Se si guardano le fotografie che ci restano di Benjamin e Heidegger, la scelta non può che essere per il primo. Per quanto una fotografia non ci dica chi sia davvero l’individuo raffigurato – sebbene a ben guardare ci riveli molto di lui, anche di quello che è nel profondo –, osservando gli scatti che ritraggono i due filosofi, non si può non finire per amare il ramingo Walter, con i suoi occhiali, i capelli crespi, gli occhiali rotondi, la sigaretta tra le mani. Heidegger, per quanto voli alto con il suo pensiero dell’Essere, è negli scatti un piccolo borghese. C’è un dettaglio, che colpisce nelle loro istantanee, un particolare in apparenza secondario: i baffi. Nell’autore di L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, i baffi appaiono come un complemento del suo viso, qualcosa di naturale, appena sopra la cravatta che indossava ogni giorno, fedele al mandato dell’intellettuale che non deve mai essere sciatto, persino nell’indigenza del suo vivere nomade: elegante. In Heidegger il baffo è qualcosa che nasconde una parte del viso, dall’età adulta sino a quella anziana; è qualcosa di posticcio. Non che il Filosofo dell’Essere non abbia un suo fascino, come mostrano alcune fotografie degli anni Venti, e tuttavia è qualcosa che appartiene al fascino del giovane seduttore.    

   

Benjamin, con la sua passione per il gioco d’azzardo e per la pornografia, appare ben più umano e reale del Maestro dell’“autenticità". Benjamin muore sconosciuto ai più, lontano dalla sua casa, ingerendo il veleno. Alla caduta della Germania hitleriana Heidegger non decide di suicidarsi, come fecero i fedeli del Führer, e attende la sua riabilitazione per tornare a insegnare in quanto “pastore dell’Essere”.

I filosofi per il nostro tempo sono Walter Benjamin e Ludwig Wittgenstein. Le loro vite parallele sono quelle che contano ancora per noi oggi. Non solo perché entrambi ebrei e in fuga, seppur in modo differente, davanti ai nazisti, ma perché il loro pensiero, le loro opere, la loro vita, mostrano come la libertà sia la condizione fondamentale del pensare. Una libertà che discende anche da scelte a tratti assurde, incomprensibili, persino da veri e propri atti di autolesionismo, di punizione improvvida e imprevista di se stessi. Niente del genere in Heidegger.  

   

 

C’è un altro episodio esemplare della vita di Wittgenstein che Monk ricorda nel suo libro: dopo la guerra mondiale, la cattura e la prigionia in Italia, Ludwig torna a Vienna e decide di diventare maestro di scuola elementare nelle montagne dell’Austria. E sarà un fallimento. Mentre frequenta la scuola per ottenere l’abilitazione all’insegnamento, la sorella maggiore Hermine chiede a Ludwig perché, nonostante la sua raffinata preparazione filosofica, abbia preso questa decisione ai suoi occhi totalmente assurda. Ludwig gli risponde: “Mi ricordi un uomo che guarda attraverso una finestra chiusa e che non riesce a capire gli strani movimenti di un passante; non ci riesce perché non sa quale tempesta si è scatenata là fuori, e che quell’uomo forse fa a fatica a tenersi in piedi”. L’apologo ci racconta il problema di equilibrio del filosofo, le sue difficoltà nella vita che la biografia di Monk racconta in dettaglio, ma ci dice anche come la sua filosofia sia un modo per “tenersi in piedi”. Una lezione preziosa. 

   

Subito dopo aver ricevuto il placet di Moore e Russell per la sua borsa di studio, concessa in virtù di quell’opera affascinante e ardua che è il Tractatus, Wittgenstein si sottopone all’obiettivo della macchina fotografica. Il ritratto che ne scaturisce ci dice tutto di lui: gli occhi spiritati, sbarrati nel vuoto, il ciuffo appena ribelle, la giacca sotto cui s’intravede una maglia e la camicia. È però ancora un dettaglio ad attirare: l’oggetto fissato con un nastrino all’occhiello superiore della giacca. Cosa può essere? Una penna, un ninnolo, un portafortuna, uno strumento di misura? Non lo so, e non mi interessa neppure saperlo. Mi basta quel nastrino e in generale questa istantanea per amare il pensiero complesso e affilato di Wittgenstein, il suo modo di essere come Benjamin un uomo senza patria, cittadino del mondo, che vive l’ultimo anno della sua vita senza una casa, ospite di amici e allievi, e che va a morire di cancro nella casa del suo medico curante e pronuncia all’ultimo la frase: “Dite a tutti che ho avuto una vita meravigliosa”.

  

Se stiamo per entrare nella tempesta perfetta, che scuoterà dalle fondamenta le basi del nostro comune vivere, così come si è istituito in questi settant’anni, dopo la sconfitta del nazifascismo, dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine dei “socialismi di stato”, se stiamo per essere sballottati avanti e indietro con il serio rischio di affogare, com’è accaduto a migliaia di persone negli ultimi anni dentro il Mare Nostrum, e come promette questa allusiva copertina, i filosofi da tenerci stretti, da leggere e rileggere, per pensare al futuro che verrà, sono Benjamin e Wittgenstein. Non solo per la forza del loro pensiero, e per la complessità del loro pensare, ma per lo stile del loro vivere e riflettere. Heidegger, pur essendo un grande filosofo, non sarà più la scialuppa di salvataggio, e neppure il salvagente da abbracciare, nello sconquasso che probabilmente ci aspetta come suggerisce il libro Eilenberger e la sua copertina. 

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