Reggio Emilia / Paesi e città
Reggio Emilia non esiste. Fino alla metà dell’Ottocento i viaggiatori che valicavano la dorsale appenninica attraverso uno dei frequenti passi, entravano direttamente nelle terre di Lombardia. E così era chiamata anche Reggio nelle antiche carte: Reggio di Lombardia. L’Emilia è un’invenzione postunitaria, quando Carlo Farini si autonominò “dittatore dell’Emilia” fino all’espletamento dei referendum di annessione al nuovo Regno. L’Emilia augustea, come scrivono le vecchie guide, comprendeva il territorio a destra del Po – il cui corso era assai differente da quello odierno –, ma non dappertutto si estendeva sino all’alto Appennino, un territorio montagnoso lungamente dominato su entrambi i versanti dagli antichi Liguri, alleati di Annibale, deportati da Romani nei territori dell’odierno Abruzzo. Fino alle guerre puniche infatti l’Italia settentrionale non era stata ancora romanizzata.
Il nome Emilia, di cui si fregia oggi come un vanto e persino un marchio di qualità, cadde in disuso a lungo; lo riesumarono solo gli eruditi rinascimentali, ma fu cosa breve e inefficace. Quello dell’inesistenza è un tratto impresso anche nella storia leggendaria della città di Reggio, che trae il suo nome da Marco Emilio Lepido, il quale la fondò come stazione intermedia tra Modena e Parma. Reggio, segnata dal cardo e dal decumano, dall’incrocio di due linee rette, nasce come un accampamento romano, da un gesto militare in tempo di pace. Secondo una leggenda che si tramanda a voce, la città fu salvata una prima volta da San Prospero, già patrono del borgo, che fece calare una nebbia durante il passaggio delle orde ungare. Non la videro e transitarono oltre. Questo portò alla costruzione nel secolo X di una chiesa patronale, che si eleva giusto dietro le spalle del Duomo, duplicandone la piazza mediante un’altra più piccola, la più bella di Reggio, coronata sui tre lati dai portici e chiusa da un fondale teatrale – la chiesa stessa -, inequivocabilmente storto.
Per molti secoli gli abitanti di Regium Lepidi hanno vissuto in questo strano stato di inesistenza, quasi un complesso, se si pensa che Reggio può vantare uno dei primi comuni, nel 1136, la partecipazione alla Lega Lombarda e anche l’onore di essersi seduta al tavolo della pace di Costanza. Forse quello è stato l’unico periodo in cui i reggiani hanno pensato di poter esistere davvero, di esserci, di poter contare e non di vivere, come accadde in seguito, all’ombra di due ducati. Il carattere particolarmente orgoglioso, ribelle e lunatico degli abitanti di Reggio nell’Emilia, cui mi onoro di appartenere, nasce dalla sua antica storia che si perde, è il caso di dirlo, nelle nebbie dei tempi. Sono stati invece i dissidi interni, le faziosità e le lotte intestine a perderci: gli Scopazziati contro i Mezzaperlini, i Ruggeri contro i Malaguzzi, e ancora i Sessi e i Fogliari. Noi di Reggio abbiamo preso parte a tutti, o quasi, i conflitti fratricidi della storia patria: Guelfi e Ghibellini, Superiori e Inferiori, nobili e popolani. Ci siamo divisi, ci siamo combattuti internamente, abbiamo chiamato in soccorso lo straniero, sempre convinti che il solo modo di esserci, di non sparire nelle nebbie e brume autunnali e invernali, fosse quello di combattere tra di noi.
Ma poiché al carattere orgoglioso, e decisamente polemico, fa da moderatore un senso della concretezza tutto nostro, nel 1290 abbiamo invocato Obizzo d’Este, signore di Ferrara, per spegnere le fazioni così durevoli nel tempo. La storia ci ha segnati, ma non ha inciso, di lì in poi, sul nostro carattere, il quale combacia perfettamente con la forma della città: una losanga, lunga e schiacciata, disegnata dalle mura della città, oggi scomparse. La losanga indica un certo amore per la geometria, per la forma stabile, e persino per l’esattezza, se non fosse che la precisione, nostra tipica aspirazione, è impedita da quel senso di praticità che forse ci è stato trasmesso dai geni dei tetragoni legionari romani, cui furono distribuite, dopo le guerre di Cesare e Augusto, la fine delle guerre civili e l’instaurazione della dura Pax Romana, le terre comprese tra il Po e le prime colline dell’Appennino.