Il teatro di Spiro Scimone e Francesco Sframeli / Amore e altri epigrammi dell’inquietudine
Sembra sempre di essere di fronte allo stesso copione nel teatro di Spiro Scimone e Francesco Sframeli. Eppure ogni lavoro intona note singolari, indulge a colori particolarissimi, incrinati, infantili, comici, metafisici, straziati e strazianti. Hanno fatto bene perciò a Bologna l’Arena del Sole e il teatro del Dams, la Soffitta, a presentare quattro opere di questi attori-autori riunite in una mini-personale, le due creazioni del debutto, Nunzio (1994) e Bar (1997) in dialetto messinese, l’ultima, Amore (2015), la recente Pali (2009).
Gli spettacoli di questo duo, scritti da Scimone e interpretati da entrambi, sono più facili da vedere all’estero che in Italia e sono stati ricreati in scena perfino, in traduzione, dalla Comédie Française. Mai più lunghi di un’ora, disegnano una galleria di epigrammi dell’inquietudine che passano negli anni dall’iperrealismo di facciata degli inizi a un apparente surrealismo. In realtà squarciano a fondo l’essere umano, le sue fragilità, le sue inconsistenti ineliminabili speranze, malinconie, immedicabili ferite. I discorsi quotidiani, banali, ripetitivi scavano crepacci interiori e sociali dove si può solo precipitare, cercando per salvarsi piccoli futili appigli. Di solito i due interpretano rispettivamente il ruolo dell’ingenuo senza difese (Sframeli) e del duro che lotta contro il mondo (Scimone), aprendo ogni strada a possibili sovrapposizioni e slittamenti di ruolo, con una recitazione “interstiziale” che punta più sull’attesa, sul vuoto significante del silenzio, sul cerimoniale di ripetizione e di fissazione che sullo sviluppo compiuto di un discorso, di un’azione.
Siamo in un pantano, di spettacolo in spettacolo travestito da losca stanza, da retrobottega, da cortile, da spianata aperta sui detriti, da cimitero, in un gioco, in una recita della replica che porta a situazioni simili all’effetto “palla di neve” che rotolando diventa valanga di cui parlava Bergson a proposito del comico. La loro ingenua tenacia, il loro stupore senza condizioni nello sbattere contro la realtà senza mai adattarsi, in fondo senza rinunciare ai propri piccoli-grandi sogni senza speranza su un orizzonte grigio, rimanda per sottrazione al piglio tragico, scatenatore di risate, di maestri della comicità come Buster Keaton o Laurel & Hardy.
In Nunzio e in Bar le scenografie di Sergio Tramonti e Titina Maselli sono studiate tracce minimali di poveri trascurati interni che fanno da specchio di anime desolate, emarginate, abbandonate ai riflussi delle maree della vita. Negli ultimi lavori visti a Bologna invece le scene di Lino Fiorito, firma di Martone e Sorrentino tra teatro e cinema, ci proiettano tra tinte accese o sfumate verso il favoloso o il crepuscolare, sempre al di là della realtà.
In Pali i colori del fondale, segnato da una cornice dorata di quadro, richiamano addirittura la pittura manierista e la deposizione di Rosso Fiorentino in particolare. E infatti subito davanti a quello sfondo vediamo due personaggi appollaiati su legni che sembrano croci rovesciate, Sframeli con parrucca femminile e Scimone, come i due ladroni in attesa di un qualche redentore che trasformi la distesa di merda davanti a loro in mare meraviglioso. Irromperanno due altri personaggi al suono di tromba e grancassa (i bravi Gianluca Cesale e Salvatore Arena) a rendere ancora più assurda la situazione, innescando il gioco delle folli iterazioni di nonsense con quei lievi, sostanziali, spostamenti dalla realtà che caratterizzano il teatro del duo messinese, in una creazione forse tra le più intense degli ultimi anni.
In Amore un vecchio e una vecchia sferruzzante (Scimone e un’ottima Giulia Weber, una figuretta maligna e mitologica come una parca, ma da fumetto) dialogano senza più freni inibitori se non quelli della fiacchezza della mente e della vita faticata. Sono seduti su una tomba, di fianco a un’altra tomba, davanti a cipressi da fiaba, dorati dalle luci di Beatrice Ficalbi. Irrompono due altri anziani amanti segreti, un pompiere (Gianluca Cesale) e il suo comandante (Sframeli), su un carrello di supermercato con sirena, come da giovani come sempre pronti a spegnere le fiamme indomabili della passione, trascinati a loro volta da un amore in passato variamente nascosto dietro le autobotti, controllato, sfuggito, coltivato (ma non c’è ombra di realismo nel gioco tragico e comico dei ritorni sugli stessi punti, sui medesimi ricordi e omissioni).
Tutti ricuciono il passato dalla prospettiva del decadimento fisico, dei pannoloni da cambiare, del viaggio prossimo futuro, quello della morte vicina, con qualche vaga rabbia o rassegnazione, con le parolacce che non si aveva il coraggio di dire da giovani brave signore, con l’oblio che dilava ogni cosa. Le tombe diventano letti: i vecchi prima, i pompieri dopo si stendono sotto coperte sul marmo degli avelli, mentre le frasi, i ricordi, i lapsus, le sospensioni, gli interstizi non solo del silenzio ma anche dell’articolazione di un discorso che sembra continuamente incagliarsi, senza futuro come i personaggi, tutto si ripete in loop che somigliano a quelli della banale vita ormai lontana, delle occasioni sprecate, sprofondando in un crepuscolo che diventa buio della morte. Illuminato dalle croci delle tombe che si accendono come notturni delicati abat-jour.
Questo spettacolo, freschissimo di debutto, è stato troppe poche volte replicato in un sistema teatrale sordo, che poco ama la poesia e l’indipendenza. Perché qui di rarefatta, concreta, acuminata poesia si tratta, con un suo ritmo particolarissimo, sospeso forse più del solito, stranito, insieme distanziante e ammaliante, come la morte, la dolce fine inevitabile che aleggia su tutto. È una macchina che come la vecchiaia estrema macina un po’ a vuoto, cercando inutilmente di riportarci lontano dall’orlo del burrone: lentamente, per sospensioni, per rassegnate o insofferenti delicatezze, prende allo stomaco.
Il buio arriva improvviso, mentre continua un discorso, mentre si replica la richiesta di un bacio nel silenzio, sotto le coperte, tra il vecchio e la vecchia, come prima tra il pompiere e il comandante. Rimangono nell’aria come fuochi fatui le parole di amore, come fiammelle, come echi lontani di vite ormai perdute.
Amore è in scena al teatro Elfo-Puccini di Milano fino all’8 maggio.