Stelio Mattioni, la messa in scena della realtà
Andrej Tarkovskji non aveva né voglia né tempo di improvvisarsi veggente. Anche perché, mentre cercava di portare a termine il suo film Stalker, gli erano piovuti addosso contrattempi di tutti i tipi. Oltre a tenere a bada la censura sovietica, che non lo amava, aveva dovuto sospendere le riprese per un problema con la cinepresa, capace di danneggiare metri di pellicola già girata. Costringendolo a rimettere mano alla sceneggiatura, tratta dai fratelli scrittori Boris e Arkadij Strugackij dal loro romanzo Picnic sul ciglio della strada, e a cambiare la traiettoria del film. Che sarà, poi, salutato come uno degli oggetti più misteriosi e affascinanti della cinematografia del secondo ‘900.
Mentre girava il suo quinto lungometraggio, terminato nel 1979 e proiettato fuori concorso l’anno successivo al Festival di Cannes, Tarkovskij mai avrebbe immaginato che nella storia fosse nascosta una terribile profezia. Quella che avrebbe trasformato la centrale ucraina di Chernobyl, dalla notte del 26 aprile 1986, nell’incarnazione della Zona raccontata da Stalker. Un’area a cui era proibito avvicinarsi. Non per un contatto ravvicinato con gli extraterrestri, o per il precipitare di una serie di meteoriti come accadeva nel film, ma per il più spaventoso incidente nucleare verificatosi fino a quel momento.
Mentre scriveva il suo romanzo breve Chicchessia, Stelio Mattioni aveva negli occhi le immagini terribili del disastro di Seveso, in Brianza, diffuse dai telegiornali. Uomini calati dentro scafandri bianchi che disseminavano cartelli con la scritta “Divieto di accesso” nella zona avvelenata dalla diossina. Bambini con la pelle costellata da un bombardamento di pustole, dopo essere entrati in contatto con la nuvola fuoruscita, il 10 luglio del 1976, dallo stabilimento Icmesa di Meda. Migliaia di animali stecchiti sul terreno intriso di Tcdd, una delle sostanze artificiali più tossiche.
Allo scrittore triestino non serviva calarsi nei panni del veggente. Il disastro di Seveso era lì, sotto gli occhi di tutti. Tanto che il tentativo di decontaminazione del terreno nella Zona A è durato oltre quarant’anni. E ancora oggi le due enormi vasche di contenimento, in cui sigillarono tutto quello che si riteneva fosse intriso di diossina, vengono costantemente monitorate. Anche se, sopra l’enorme sarcofago di cemento, è poi sorto il Parco Naturale Bosco delle Querce.
Quando Mattioni decise di scrivere Chicchessia non ebbe alcun ripensamento a battezzare S. il paese al centro del suo romanzo breve. Svelando nel testo, in modo esplicito, gli evidenti riferimenti alla tragedia del 1976: “Tempo addietro, dopo anni di lotta l’amministrazione comunale era riuscita a farsi mettere una fabbrica, per procurare un reddito continuativo ai propri contadini, sempre nell’incerto di fronte al padreterno per quanto riguardava i raccolti, ma non era passato tanto tempo che… beh, da quella fabbrica s’era sprigionata una nube che aveva seminato la possibile morte su una zona di parecchi ettari, dove tra l’altro sorgeva la nostra casa”.
Scritto di sicuro sul finire degli anni Settanta, rimasto inedito tra le carte dello scrittore per quasi mezzo secolo, Chicchessia trova adesso degna pubblicazione nell’elegante collana Bootleg della casa editrice Acquario (pagg. 119, euro 12). Ed è senza timori che si può salutare questo romanzo breve come un perfetto punto di collegamento tra le opere più misteriose e inquiete di Mattioni (da Il re ne comanda una del 1968 a Il richiamo di Alma del 1980, finaliste entrambi al Premio Campiello) a quelle dettate da un gusto del grottesco, da un allucinato senso di fastidio per una società inquadrata dentro regole inflessibili quanto discutibili (La stanza dei rifiuti, 1976; Dolodi, 2010; Di sé con gli altri, 2018).
Il divenire di Mattioni scrittore ricalca le orme di altri grandi autori che, per guadagnarsi da vivere, si occupavano di affari assai più prosaici. Del concittadino Italo Svevo, prima impiegato alla Banca Union di Trieste e poi industriale giramondo per la ditta di vernici Veneziani, di proprietà della famiglia di sua moglie Livia; di Franz Kafka, assunto per pochi mesi all’Agenzia di Praga delle Assicurazioni Generali, poi passato a lavorare per l’Istituto di assicurazione contro gli infortuni sul lavoro del Regno di Boemia; di Fernando Pessoa, per tutta la vita impegnato a Lisbona a tradurre noiosa corrispondenza commerciale.
Entrato giovanissimo come impiegato alla raffineria Aquila di Trieste, subito dopo aver conseguito il diploma all’Istituto Magistrale, Mattioni ha continuato a lavorare in quell’importante realtà industriale per tutta la vita. Pur senza mai smettere di scrivere e di sognare che anche lui, un giorno, sarebbe riuscito a pubblicare qualcosa. E mentre cercava la sua ispirazione più profonda, raccontava di avere attraversato diverse stagioni. Di avere battuto molteplici vie: prima con le poesie di La città perduta, pubblicate da Schwarz nel 1956; poi con i racconti di Il sosia, usciti per Einaudi nel 1962; infine con i romanzi, a partire da Il re ne comanda una, edito da Adelphi. A ogni cambio di genere letterario corrispondeva una nuova marca di sigarette, assaporata con implacabile furore.
Ma per tirare fuori Mattioni dalla palude dell’anonimato serviva un incontro speciale. Quello con un uomo inimitabile nel panorama culturale italiano: il triestino Roberto Bazlen, che tutti amavano chiamare semplicemente Bobi. Uno spirito inquieto e inafferrabile, un segugio di talenti, un lettore onnivoro e instancabile. Una delle figure più enigmatiche, affascinanti e seminali del ‘900 europeo, a cui Aquario Libri ha da poco dedicato il volume Bazleniana. Ritratto dell’intellettuale a più voci, con l’aggiunta preziosa dei disegni inediti realizzati durante il periodo di perlustrazione dell’inconscio con lo sciamanico psicanalista Ernst Bernhard.
Aveva quasi quarant’anni, Mattioni. E le poesie di La città perduta gli avevano regalato solo una pallida notorietà negli ambienti culturali di Trieste. Bazlen, di diciotto anni più vecchio, in quel periodo stava progettando insieme a Luciano Foà una casa editrice del tutto nuova. Quella che, poi, avrebbe preso il nome di Adelphi. In una piovosa Venezia del 1960, il primo incontro con il più giovane Stelio, triestino come lui, magrissimo, viso spigoloso, fumatore accanito almeno quanto Svevo, era iniziato parlando di Umberto Saba. Liquidato in fretta da Bazlen come un poeta “patetico”, superato già quando scriveva i suoi versi.
Poi, a pranzo alle Zattere, il discorso era scivolato sugli scritti di Mattioni. Poco interessato alle sue poesie, Bazlen aveva mostrato grande curiosità per una serie di racconti ancora inediti. “Sto cercando testi di narrativa da proporre a Einaudi”, aveva spiegato.
Infatti, di lì a poco, gli esperimenti in prosa dello sconosciuto Mattioni sarebbero finiti prima tra le mani di Italo Calvino, poi tra quelle di Elio Vittorini. Strappando giudizi assai positivi all’autore di Il barone rampante: “Uno scrittore che pare del tutto eccezionale, ha un mondo fantastico proprio e di grande forza, ed è misterioso sul serio. Si chiama Stelio Mattioni, pare abbia passato la quarantina, è triestino. Ci arriva tramite Bobi Bazlen”.
Il sosia, uscito nella collana dei Coralli einaudiani due anni dopo quell’incontro, era senza dubbio un libro difficile da inserire nella tradizione letteraria italiana. Tanto che la redazione, per provare a mettere a fuoco i cinque racconti lunghi dell’autore triestino, aveva deciso di aprire il testo del risvolto di copertina con una frase ad effetto: “La famosa asserzione di Dostoevskij ‘Noi tutti siamo usciti dal Cappotto di Gogol’ può essere fatta propria da Mattioni”. Dopo Gogol era inevitabile citare Kafka, il primo Cechov, ovviamente lo “scriver male” di Svevo. Senza negarsi un azzardo, quello di tirare in ballo uno dei padri nobili del ‘900 italiano: “Un nome che si incontra di rado negli alberi genealogici degli scrittori d’oggi: Pirandello”.
Isolato, del tutto alieno alle correnti letterarie del suo tempo, incapace di adeguarsi alle regole editoriali, che nel tempo lo avrebbero etichettato come “autore difficile”, Mattioni da allora ha intrapreso un solitario e accidentato cammino. Muovendosi, con la fantasia, su quella minuscola striscia di terreno che separa, come un confine immaginario, la realtà e l’inconoscibile. Dopo Il sosia, tutti i suoi libri più importanti sono usciti per Adelphi, con la benedizione di Bobi Bazlen e Luciano Foà prima, di Roberto Calasso poi. Da Il re ne comanda una, passando per Palla avvelenata (1971), Vita col mare (Premio Viareggio 1973, che Calasso in una lettera a Bazlen descriveva senza tentennamenti come “Mattioni at his best”), La stanza dei rifiuti (1976), Il richiamo di Alma.
Fino all’interrompersi brusco, e per certi versi inspiegabile, dei rapporti editoriali con Adelphi, che lo aveva portato a diventare uno scrittore stimato e considerato. E la successiva decisione, non proprio felice, di consegnare a Spirali, la casa editrice del discusso psicanalista Armando Verdiglione, quattro opere tutt’altro che trascurabili: Dove (1984), Il corpo (1985), Sisina e il Lupo (1993). E Il mondo di Celso, pubblicato tre anni prima della morte dello scrittore, avvenuta nel sonno il 16 settembre del 1997.
Nelle librerie, intanto, erano apparsi anche la Storia di Umberto Saba (Camunia, 1989) e quel Trieste varieté, il libro degli sberleffi (Fachin, 1990), opera del tutto anomala, “boccata d’ossigeno” dopo un lungo lavoro su racconti e romanzi, vero atto d’amore per la sua città. La Trieste tante volte reinventata, sognata, mesmerizzata nelle pagine dei libri più belli. Che senza dubbio è il personaggio mattioniano più connotato, eppure più inafferrabile.
Mattioni ha lasciato dietro di sé numerosi inediti. Alcuni, nel tempo, sono stati pubblicati. Primo tra tutti Tululù, quello che Claudio Magris ha definito sul “Corriere della Sera” “un incantevole racconto che fa nascere la magia dello scialbo scorrere dei giorni privi di gioia”, sorta di opportuno riavvicinamento post mortem con Adelphi, che nel 2002 ha chiuso il cerchio di una lunga collaborazione editoriale. In seguito sono apparsi anche Memorie di un fumatore (Mgs Press, 2009), Dolodi (Zandonai), Interni con figure (Eut, 2011), Di sé con gli altri (Vydia), La battaglia di Templenizza (Vydia, 2020). Oltre alle nuove edizioni di Il richiamo di Alma (Cliquot, 2019) e di Storia di Umberto Saba (Vydia, 2021).
Chicchessia è una sorta di punto d’incontro tra il Mattioni capace di esplorare il cuore oscuro della realtà e quello visceralmente critico nei confronti delle ideologie, dei partiti, della gestione della cosa pubblica. Un pessimista incapace di lasciarsi abbindolare da transitorie promesse e futili slogan. Prova ne sia che in Memorie di un fumatore annotava: “Io non sono adatto a fare il politico, come non sono adatto a fare il sindacalista. Io sono qui, e quindi non posso fare parte di una parte, ma solo del tutto”.
Al centro del breve romanzo c’è un ragazzo. Potremmo definirlo un inetto, come tanti personaggi sveviani, che raggiunge il traguardo della laurea senza cullare nessun progetto per il dopo. Anzi, cercando di evitare accuratamente il momento in cui sarà costretto a fare il suo ingresso nel mondo di chi lavora, produce, guadagna, mette su famiglia e si arrende ad accettare le regole imposte dalla società. Perché la realtà non lo appassiona affatto, non gli stimola brillanti idee. Anzi, lo annoia, gli risulta insopportabile.
Così, decide di liberarsi degli obblighi familiari, di evitare le discussioni con il padre Cesare, un impegnatissimo uomo d’affari, e con la madre, donna non certo colta eppure accanita animatrice della Lega contro l’Ignoranza. Prende un treno, poi prosegue a piedi per raggiungere S., un borgo antico in cui la sua famiglia possiede una casa, che nessuno frequenta più da almeno un decennio.
Non lo spaventa il fatto che gran parte del centro di S. sia stato interdetto agli abitanti e a chi viene da fuori, dopo che una misteriosa polvere l’ha contaminato. Il disastro ambientale è stato provocato da quella che sembrava una buona idea. Scrive Mattioni: “L’amministrazione comunale era riuscita a farsi mettere una fabbrica, per procurare un reddito continuativo ai propri contadini”. Ma qualcosa era andato storto: “Da quella fabbrica s’era sprigionata una nube che aveva seminato la possibile morte su una zona di parecchi ettari”. Quindi, da tempo era proibito avvicinarsi all’area interdetta e delimitata da un reticolato. Una consistente parte del paese era ingabbiata dietro minacciosi cartelli con la scritta “Danger”, voluti dal sindaco per impedire a chiunque di contaminarsi.
Celandosi all’ombra del pretesto di essere lì per occuparsi di una pratica di indennizzo a nome della sua famiglia, il giovane laureato comincia ad avvicinarsi alla zona proibita. Quando può, aggira il filo spinato con un banale stratagemma e si introduce dove non ci sono più né erba né fiori, ma “una coltre di polvere finissima per terra, su cui i piedi lasciavano delle orme come ammaccature”. Lo fa “per un impulso fisico alla disubbidienza con caparbietà, che mi riportava indietro negli anni, in un periodo della mia vita in cui la logica dei rapporti e dei comportamenti altrui non corrispondeva affatto col mio modo di sentirmi libero di agire, e perciò venivo spesso ripreso e mortificato”.
Ancora una volta, come in Il richiamo di Alma, è una figura femminile a creare un senso di straniamento nel protagonista. Anche perché appare e scompare lì dove non dovrebbe esserci nessuno: tra le stradine interdette alla gente di S. A spiare il giovane laureato è un essere che sta a metà tra il folletto e una figura ancestrale: “Era poco più di una ragazzina, bassa di statura e alquanto trasandata nel vestire, l’abito che le pendeva da tutte le parti. Quando si girò – e lo fece malvolentieri – fu per mostrarmi una faccina tonda, in cui non c’era nulla di attraente, gli occhi dietro un paio di occhiali dalle grandi lenti gialle, simili a due girasoli. Aveva ai piedi delle scarpacce da uomo, piene di macchie di calcina, e delle inverosimili calzette corte, azzurre e immacolate”.
Un personaggio che, a prima vista, strappa al protagonista una risata di sollievo. Perché l’essere che abita la zona proibita di S. non ha niente di inquietante. E non può esercitare su di lui nemmeno il fascino dell’arcano, del proibito, di chi sfida l’ordine costituito. Anche se, nella parte interdetta del borgo, nulla è come appare. Presto Chicchessia, come lo chiama la stralunata Ebe, scoprirà in lei una donnina capace di mutare aspetto, di diventare seducente al momento opportuno, di ridicolizzare le sue paure, di trascinarlo a desiderare una vita più libera e per niente prona alle convenzioni sociali. Di costringerlo, insomma, a decidere che cosa vuole fare del proprio tempo futuro. Smettendola di scappare davanti alla realtà: “Sia chiaro che non ti fermi neanche minimamente perché lo voglio io, in quanto me ne frego, d’accordo?”.
Per niente interessato a scrivere un racconto imbevuto di giudici moralistici, di retoriche prese di posizione, né tantomeno di mettere assieme un furbo pamphlet proto-ecologista dettato dal disastro di Seveso, Mattioni in Chicchessia invita il lettore a riflettere sul fatto che la realtà, delimitata ogni giorno con parole precise, è soltanto una delle scenografie montate sul palcoscenico della nostra esistenza. Nei momenti più impensabili, quelle scene di ordinaria normalità finiscono per farsi da parte. Lasciano spazio, insomma, ad altri fondali. Come seguissero un copione preciso, vogliono rivelarci gli innumerevoli volti nascosti delle cose. Il fondo arcano dell’essere. Nuove, sorprendenti traiettorie di vita.
Rimane da segnalare una curiosità per i bibliofili. L’edizione Acquario del romanzo Chicchessia è impreziosita, subito dopo la pagina del titolo, da un disegno inedito di Bazlen, morto a Milano il 27 luglio del 1965. Quasi a voler riannodare, dopo moltissimi anni, il filo dell’amicizia che ha portato l’inafferrabile Bobi a far valicare a Mattioni il confine che separa il sogno di diventare uno scrittore dalla realtà di essere parte della storia della letteratura italiana.