Isola e terraferma

22 Novembre 2011

Che cos’è un’isola? Alle scuole elementari ne davano una definizione ovvia ma inquietante: un lembo di terra interamente circondato dal mare. Esempio: la Sicilia è un’isola, come la Sardegna e Creta, l’Italia invece una penisola, come la Spagna o la Scandinavia. Sono isole le Eolie e le Tremiti, l’Irlanda, Malta, non lo sono Calabria e Yucatan. E la Gran Bretagna?, chiedevamo in coro. Sì, un po’ risicata, ma sì, rispondeva stacciuto il maestro. E l’Australia, l’America, l’Eurasia? No no, quelli sono continenti, troppo grandi per essere isole. E un faraglione, uno scoglio, il picco d’un vulcano che spunta dal fondo dell’oceano, non sono pezzi di mondo circondati dalle acque? No, s’affannava inascoltato il buonuomo in grembiule: sono troppo piccoli! Capivamo così che isola non è questione di acqua salata dappertutto ma di chilometri quadrati. Non una cosa tangibile ma un concetto fluttuante, un’idea a metà, l’esito perplesso di una negoziazione continua.

 

Eppure, c’è tanta letteratura sulle isole: l’essere isolano e perciò isolato, la cupa follia dell’essere sempre tra acqua e sole, l’isolitudine… A Carloforte (che è un gioco di scatole cinesi: una cittadina nell’isola di san Pietro dell’isola di Sardegna) Franciscu Sedda, semiologo e indipendentista sfegatato, organizza da qualche anno il Festival Uizè, che in parlata locale significa appunto ‘isole’. E periodicamente raccoglie lì un bel numero di persone che su questo famigerato problema irredimibile hanno qualcosa di interessante da dire.

 

Interviene nel dibattito, coi suoi specifici mezzi espressivi, Emanuele Crialese nel film giustamente iperapplaudito Terraferma. Al di là del portato politico e psicologico dell’opera, o forse passando proprio da quello, è possibile intenderlo adesso, a mente fredda, come una perfetta, attualizzante lezione di geografia. L’isola in cui si svolge la storia è abitata da gente che sogna di trasferirsi in continente, ossia sulla terraferma, per cominciare una nuova vita. Ma agli occhi terrorizzati degli africani che a frotte si riversano mezzi morti sulle coste di quel luogo maledetto, l’isola è una terraferma. Simbolicamente, tutto ciò è rappresentato da due mezzi di locomozione, un motorino e un barcone da pesca: per mestiere essi dovrebbero servire a trasportare la gente da un posto all’altro, ma per avventura si trovano a fare tutt’altro. Lo scooter con cui il protagonista va in giro per quella isola/terraferma ne segna i confini angusti e invalicabili. Con la barca si raccolgono dal mare corpi in transito, sfidando col cuore le leggi della città, e con essa il ragazzo isolano e la donna africana fuggiranno via insieme, nel finale, alla ricerca di una terraferma nuova, utopica, inesistente, che molto probabilmente non raggiungeranno mai.

 

Che c’entra tutto ciò con la geografia? Semplice: se, come il film indirettamente ci suggerisce, ci voltiamo indietro verso il presupposto narrativo della vicenda, ci accorgiamo che i nostri tempi maldestri hanno fatto dell’Africa, terraferma per millenni, un’isola inospitale dalla quale scappare a tutti i costi. Lì si soffre di mortale isolitudine.

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