Quattro scarti sul silenzio / Prova
Erompe alla superficie il fiume carsico del testo di Pascal Rambert, dolore personale alimentato nel fuoco della storia. Implode trattenuto dal gioco teatrale, dalle domande sulle capacità del linguaggio di essere all’altezza di atti vissuti, desiderati, intinti nel rancore della memoria, nell’elencazione degli sguardi sbagliati, delle occasioni rimandate, dei sogni e delle utopie svaniti. Prova (Répétition in francese) è solo in superficie un gioco metateatrale, un viaggio in decostruzionismi che attingono alla filosofia del linguaggio. L’autore, Rambert, è un apprezzato regista francese, direttore del T2G – Théâtre de Gennevilliers, che ha trasformato in centro per la drammaturgia contemporanea. E lui stesso è un esponente di punta della scrittura post-drammatica, quella che rinuncia alla trama per mettere in discussione l’atto stesso del rappresentare e del parlare su un palcoscenico, incrinando la finzione con l’aporia portata dalla personalità reale dell’interprete-performer. Per Emilia Romagna Teatro aveva già firmato l’edizione italiana del claustrofobico Clôture de l’amour, visto qualche stagione fa con Luca Lazzareschi e Anna Della Rosa.
Con Prova lo schema dei due lunghi assolo dei personaggi, ognuno dei quali parla all’altro presente ma silente, si raddoppia. A Lazzareschi e Della Rosa si accostano Laura Marinoni e Giovanni Franzoni, in un quartetto in cui sempre uno strumento svolge il tema, mentre gli altri osservano, ricamano reazioni nel silenzio, per poi erompere nel movimento successivo e diventare solisti.
Siamo su un palcoscenico nudo. Un tavolo, in un angolo, con alcuni degli attori seduti intorno. Lazzareschi, che interpreta l’autore, con un libriccino rosso in mano. Erompe nello spazio vuoto la prima donna, Anna (Anna Della Rosa: il personaggio prende il nome dell’interprete, a lui si sovrappone). Attacca con impeto l’ipocrisia di una situazione di gruppo, di compagnia, che si ripete da troppo tempo stancamente, piena di ipocrisie, di rapporti sentimentali esauriti e di nuovi che avanzano in modo obliquo, senza chiarezza. Sempre seduti intorno a un tavolo, a mentire… Indica il tavolo nel vuoto, ne mette in discussione la forma e la materia con cui è costruito lontano dal tavolo vero, a sottolineare subito che qui si tratta di nomi, di suoni, di significanti più che di cose, di linguaggio che appanna le azioni, le traveste, le occulta, le confonde, sottraendo a esse la verità. Quel linguaggio che permette solo fraintendimenti, menzogne, tradimenti personali. Dichiara di voler uscire dalla struttura, che è il gruppo, la compagnia teatrale, ma anche l’ordine del discorso creato da lunghi anni di consuetudine, e pure qualche altra cosa, il meccanismo, l’intero pensiero ereditato dal novecento, quello filosofico e discorsivo, quello sociale e politico con le utopie del socialismo che avrebbe dovuto creare un mondo nuovo e si è risolto nel grigiore burocratico o nell’orrore del dominio e del gulag.
Prova. Anna Della Rosa, sullo sfondo Franzoni e Lazzareschi in una foto di Luca Del Pia.
La parola, il silenzio, Stalin
Recita anche il silenzio, diventano espressivi i dettagli, le spalle girate, i volti chini sul tavolo, gli occhi che vagano nello spazio, le avanzate, qualche coretto in cui i quattro ripetono frasi del testo che stanno allestendo. La parola per scarti si poggia sul non detto, cerca di scalfirlo, e il silenzio spesso resiste, in una lotta a evocare, a definire, a capire l’invisibile. L’evidenza si misura con i fantasmi, con gli echi, in quello spazio di prova e di ripetizione infinita di una situazione arrivata al tracollo, e si intrecciano con quello principale parecchi altri testi che alludono a varie altre esperienze, senza mai definirle fino in fondo.
Anna accusa con virulenza da passionaria. Per dare parole al suo malessere, alla sua delusione, alla sua disperazione, utilizza anche frasi del copione che i quattro stanno probabilmente provando, uno squarcio sulle reazioni di un gruppo di gaudenti di fronte a una marea rivoluzionaria che avanza e che insidia il loro libero votarsi al piacere. E introduce la notizia che Luca, lo scrittore, sta lavorando a una vita di Stalin, e che i quattro, in passato, viaggiarono nei luoghi della casa-mausoleo del dittatore, ma visitarono anche il rifugio sul Mar Nero e poi il gulag di Voronez di una delle sue vittime, il poeta Osip Mandel’stam. E compaiono anche le mogli dei due, in questo mondo di lupi, come si sente ripetere, dove i cattivi poeti diventeranno i buoni carnefici. Per accenni trasversali che in certi momenti diventano diretti, appaiono Nadezda Stalin, che si suicidò dopo essere stata maltrattata dal marito durante un banchetto al Cremlino nel 1932, e Nadezda Mandel’stam, che conservò i versi proibiti del marito fuggendo per l’Unione Sovietica, nascondendosi, imparando a memoria le poesie che non poteva conservare con la carta (i suoi ricordi si intitolano L’epoca e i lupi; a lei è dedicato un bellissimo ritratto-necrologio d Iosif Brodskij in Fuga da Bisanzio). La violenza della Storia emerge a poco a poco e si intreccia alle altre storie, colorandole di sfumature particolari.
Prova. Franzoni, sullo sfondo Lazzareschi, Della Rosa, Marinoni in una foto di Luca Del Pia.
Non solo metateatro
Nella parole di Anna, nelle tracce evocate, nel disperato epicureismo dei personaggi della pièce in prova, sull’orlo del baratro, con gli occhi al cielo verso fuochi d’artificio che sembrano quelli evocati da Kerouac quando all’inizio di On the Road caratterizza i giovani pazzi di voglia di vivere e di bruciare che saranno chiamati beat, l’atto rompe la struttura, ne fa esplodere i pezzi, ne fa implodere in cerchi concentrici il linguaggio, portando il reale dalle parti della sua impossibile traduzione linguistica e del suo deragliamento. E gli altri reagiranno a queste accuse, che dopo circa mezzora di parole fanno precipitare Anna, senza forze, sul pavimento.
Si ribellerà Laura, appassionata, femmina, perfino in certi momenti scarmigliata, rivendicando il suo nuovo amore per il compagno di Anna, Luca, il disinteresse per il suo Giovanni, portando il linguaggio dalle parti del corpo, del sesso, del desiderio, dando spessore carnale al dubbio rivolto da Anna a Luca se si possa descrivere il mondo, o mettere in scena la vita nel teatro. I rimandi metateatrali, continui, si intrecciano con gli altri piani, che si ripetono con variazioni in ogni discorso, Stalin, il gulag, la poesia, la fine di un mondo, mettendo continuamente in dubbio le possibilità della verità se non nella convenzione della parola, della finzione.
Sarà Luca a introdurre il tema del silenzio, dopo il crollo a terra per spossamento anche di Laura, dopo una pausa in cui si sente Se telefonando cantata da Mina. La parola nasce dall’abisso del silenzio, dallo sguardo su un vuoto che somiglia all’orrore. Siamo in una temperatura che ha a che vedere con la sindrome degli anni zero, dopo il crollo delle utopie, dopo la saturazione verbale e di immagini, dopo i crimini del novecento in cui il boia non è stato più, come nei secoli passati, la violenza delle religioni o il cinismo dei mercanti ma l’ideologia. È pacato Luca, riflessivo, desolato; mentre parla cerca, scava i concetti. E conclude così: “gli animali non sono silenziosi / no / gli animali hanno deciso di tacere davanti all’orrore del mondo”.
Questo di Rambert è un testo arduo e affascinante, senza segni di interpunzione, scandito solo dagli a capo di righe che somigliano a versi e sono respiri, sguardi, confronto con gli occhi o con l’assenza, la distanza degli altri.
Anna Della Rosa in una foto di Luca Del Pia.
Risvegliatevi dal crollo della Storia
A Giovanni l’ultimo discorso, dopo l’accasciarsi al suolo di Luca. Una tirata che inizia nel segno del teatro (lui è il regista), evocando il mucchio di cadaveri finali dell’Amleto, che corrisponde a questo morire del gruppo e a tutti i massacri evocati finora: “parlerò sulle rovine / parlare è sempre parlare sulle rovine”. Ragionerà, guidato da un’altra domanda teatrale, se valeva la pena provare a cambiare il mondo per finire a scrivere drammi borghesi sulla propria vita. E qui i cerchi si intrecciano più strettamente, fino a indicare un possibile via di fuga. Nella bellezza, nella parola che si cristallizza in corallo bianco splendete attraverso la poesia, come per gli acmeisti (Mandel’stam e Stalin e le loro donne e gli innamorati della vita contro la virtù rivoluzionaria, quasi Danton contro il Robespierre di Büchner non sono mai scomparsi dai discorsi, riemergendo dal loro fluire carsico di tanto in tanto). In una pièce in cui i ruoli si destrutturano e altrimenti si ricompongono, il regista non rinuncia alla visione d’insieme, dinamica, proponendo una via di salvezza che sta anche nell’amore, accettato per quello che è con i suoi inciampi, nella memoria, nel rivendicare le esperienze passate, le utopie, anche quelle fallimentari, nell’invitare i giovani, ricordando la scalinata di Odessa (quella della Corazzata Potëmkin), ad abbandonare le vecchie rappresentazioni, a risvegliarsi, a passare all’azione: “bisogna ricominciare il mondo / la Storia non è morta / lei ci risveglierà”.
Prova. Della Rosa, Marinoni, Franzoni in una foto di Luca Del Pia.
Teatro della realtà?
C’è tanta passione in questo spettacolo dall’apparenza glaciale, che concede poco al pubblico, richiedendogli grande ascolto e voglia di confronto. Ci ricorda in modo originale qualcosa di altri lavori che pongono la realtà, individuale e storica, come un problema complesso e non come un dato di fatto, come un materiale con il quale innervare (e rompere) la menzogna teatrale. Si potrebbe, per esempio, ricordare esperienze diffuse in Europa, anche molto lontane l’una dall’altra quanto a presupposti, pratiche ed esiti. Come quella dei Rimini Protokoll, che ricostruiscono alcuni “casi” portandone in scena i protagonisti o comunque immettendo gli spettatori nella realtà, o come i lavori “assembleari” delle tedesche She She Pop tendenti a scivolare verso il reality show, oppure alcune creazioni viste all’ultima Biennale Teatro di Venezia, quella di Falk Richter con portatori di “verità” o le trame con inserti autobiografici di Jan Lauwers con la sua Needcompany, e parecchio altro.
Ma Prova in particolare ci richiama alla mente le belle creazioni di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini, Reality e Ce ne andiamo per non darvi altre preoccupazioni, abbastanza uniche e straordinarie in Italia. Ha qualcosa di simile il tentare di mettersi nudi personalmente di fronte a un trauma storico (o politico, diciamolo pure) più generale. In Deflorian e Tagliarini forse c’è una sottrazione interpretativa più radicale, che porta a dissolvere i confini tra performer e figura agita, smontata, percorsa, rivissuta attraverso domande e esperienze personali dell’attore che con lei si misura, tanto da smarginare gli ambiti, facendo apparire fulminante sulla soglia, nel tra, il dubbio, il trauma, il dolore immedicabile, l’invisibile (si veda il bel libro a cura di Graziano Graziani, Trilogia dell’invisibile, edizioni Titivillus).
In Prova i personaggi sono ancora recitati, forse perché gli attori non sono gli autori come per Reality e Ce ne andiamo, e c’è un testo forte, strutturato filosoficamente, prima delle improvvisazioni per la messa in scena. E però la direzione mi sembra per certi versi comparabile. In Prova l’interpretazione tenta (non riuscendoci sempre) di svuotarsi di maniere e raggiungere il limite impalpabile tra verità e finzione che mette in crisi il modo stesso di intendere il teatro e lo sguardo sulla realtà. E perfino una certa retorica recitativa può giovare a questo scopo, nella stratigrafia complessa dei piani.
Prova (Répétition) è un incastro di scatole cinesi di sentimenti, di quotidiani risentimenti, di mosse replicate uguali in un cul-de-sac, di riflessioni generazionali, di fallimenti, di serrati confronti con la verità degli specchi, della finzione, della letteratura, del silenzio sotto parole che lasciano storditi. Si nutre della storia del novecento, della ricerca di un mondo perfetto, anzi, come si è detto, di una struttura, sia il gruppo teatrale, impegnato a dragare con l’arte la vita, o il comunismo. Nomina il sogno dell’uomo nuovo e le perversità che ha generato, la sofferenza della vittime, ripercorre la voglia di vivere, nonostante tutto, sull’abisso, rompe le croste dell’apparenza con violenza trattenuta, e perciò diventa anche un ragionamento sui nostri giorni di quietismo e paura.
Lo spettacolo diventa un vortice rapinoso di pensieri, desolatamente rabbioso come il crollo delle utopie, misterioso ed evidente come la bellezza della poesia che evoca.
Prova, di Pascal Rambert, traduzione di Bruna Filippi, con Anna Della Rosa, Laura Marinoni, Luca Lazzareschi, Giovanni Franzoni, scene di Daniel Jeannetenau, luci di Yves Godin, costumi di Pascal Rambert, produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione. Dopo la prima all’Arena del Sole di Bologna, in tournée. Si può vedere il 3 marzo al Fabbricone di Prato, il 6 al Novelli di Rimini, dal 9 al 13 al Verdi di Padova, dal 15 al 20 al Verga di Catania, dall’1 al 10 aprile al Piccolo Teatro Studio Melato di Milano.