Maverick non ha smesso di volare

16 Giugno 2022

Maverick ha ripreso a volare. Dopo quasi quarant’anni dal primo film quasi omonimo, Tom Cruise ha rimesso l’uniforme del tenente Pete “Maverick” Mitchell, il più coraggioso e abile pilota della marina americana. Non è solo un blockbuster, ma una allegoria della dinamica della vita. La trama del nuovo film di Joseph Kosinski, Top Gun: Maverick è quasi una copia carbone di quella della pellicola originale (che era appunto ancora una pellicola … anche la tecnologia è cambiata): un pilota coraggioso, in attrito con la gerarchia militare, sfida amici e nemici per dimostrare, alla fine, che audacia e valore non sono acqua. La trama è minima, i personaggi non hanno alcuno sviluppo interiore, ma non importa! Non è questo che chiediamo a Top Gun. E, infatti, il gradimento della nuova versione, protagonista incontrastato del red carpet di Cannes, è stato altissimo: 8.6/10 sul sito IMDb e un incredibile 97% su Rotten Tomatoes. Che cosa chiediamo a Top Gun? Di volare veloci verso un orizzonte che non si raggiunge mai.

Devo però fare una premessa inevitabile. In questi giorni di tensione internazionale, la bandiera a stelle e strisce non appare più come un simbolo innocente. È difficile guardare alla trama senza associarla alle vicende internazionali. Ma sarebbe un errore. Top Gun: Maverick non è una pellicola di propaganda americana. Il nemico qui è una entità astratta. L’avversario, come l’esercito della fortezza Bastiani di Dino Buzzati, esiste solo per giustificare il coraggio e mettere alla prova i protagonisti. La nazione contro cui si combatte è un generico “stato canaglia”. I piloti sono come i moschettieri di Dumas. Non è un’opera storica, ma puro escapismo archetipico. La “missione impossibile” è straordinariamente simile al finale del primo film di Guerre Stellari (1977): un tortuoso canyon da percorrere a velocità sconsiderata per arrivare a colpire un bersaglio minuscolo.

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Top Gun: Maverick però non è banale come non sono banali le domande sull’esistenza e sul senso dei nostri giorni. Certo, l’effetto nostalgia è inevitabile. E sempre pensando a Guerre Stellari, non si può non pensare ad Han Solo (Harrison Ford) che, nella ripresa della trilogia girata nel 2015, entra nella sua astronave Millenium Falcon e, rivolto al suo pelosissimo compagno di avventure Chewbacca, esclama «Mi sento a casa!», scatenando scrosci di risa e qualche occhio umido, colmando un arco temporale di quasi dieci lustri. Questa volta, invece, gli anni sono 36 (tanti ne sono passati dall’originale del 1986 a oggi) e si assiste a un miracolo: l’eterna giovinezza del protagonista, appunto Tom Cruise. 

Ma Maverick non è Ian Solo, che accetta il passaggio del tempo e muore ucciso proprio da suo figlio Ben. Maverick non ha né famiglia né figli e, anche se comincia ad avere qualche ruga, Tom Cruise è riuscito a essere il Dorian Gray del nostro tempo. Non si sottrae alla prova della maglietta e, con orgoglio, continua a rifiutare l’uso di controfigure per le scene più impegnative. 

In fondo è proprio questo il senso del film, mantenere una promessa di eternità che ci era stata fatta quasi quaranta anni fa, a cavallo di una lucente Kawasaki Ninja, quando nel film originale del 1986, il tenente Mitchell sfrecciava insieme alla bellissima e biondissima Kelly McGillis nella luce dorata di un tramonto perfetto: quasi un quadro di Edward Hopper.

La realtà non è stata generosa con i protagonisti del primo film. Il regista Tony Scott è morto, forse suicida. La McGillis non più un’icona di bellezza. Val Kilmer è quello che ha sofferto di più. Il glaciale e perfetto attore è stato colpito da un tumore e una doppia tracheotomia gli ha tolto il suo bene più caro: la voce. E così la sua partecipazione al film ha un doppio significato, dove vita reale e immaginario si fondono insieme. Anche il suo personaggio “Ice”, diventato grande ammiraglio, è sofferente dello stesso tumore e, a metà del remake, muore. La sua non è una morte gloriosa, anche se dignitosa. Come Byron che aveva cercato una fine in battaglia, soccombe di una malattia che lo uccide nel suo letto, curato dalla moglie.

Ecco, tra Val Kilmer “Ice” e Tom Cruise “Maverick” si gioca una dualità di cui parlo spesso. Val è il guerriero che si toglie l’elmo, incarnato dall’archetipo della figura di Ettore. Tom invece è Achille. Non si toglie mai l’elmo. Non diventa mai ammiraglio. Rimane sempre uguale a se stesso. Val accetta le responsabilità, fa carriera, entra nella società, si sposa e ha una bella casa, ma, per dirla con Guccini, “è una morte un po’ peggiore”. Val ha sacrificato la sua dynamis sull’altare della casa-prigione. Tom invece no. Lui è rimasto un pilota. Lui ha continuato a volare. Ha strappato i legami. Non è si è mai lasciato “mettere a terra”. 

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Nel film, ma forse anche fuori, la famiglia incarna il fatto di mettere le radici e quindi richiede di essere messi a terra, ovvero perdere le ali. Maverick non rinuncia mai alle sue ali. Non è un caso che in Maleficent, il remake del 2014 della Bella addormentata nel bosco, Angelina Jolie ci mostra il taglio delle ali come metafora della vita di coppia e della rinuncia di se stessi. Ma perché deve essere così? In fondo se l’amore è vero amore dovrebbe essere prima di tutto amore della libertà dell’altro. Si può amare qualcuno senza amare ciò che ama? Spesso non è così. Come scriveva Sartre, il legame d’amore è alienazione della libertà altrui. Altrimenti che legame sarebbe. Ma i legami non ci fanno volare. Ci tengono a terra.

Maverick non rinuncia alle sue ali e, nel film, è subito chiaro a tutti che non si limiterà al ruolo di istruttore; non è pronto a passare il testimone alla nuova generazione, proprio perché non accetta di crescere. Può essere diventato più vecchio, avere qualche ruga in più, ma non rinuncia mai a mettersi sullo stesso piano dei suoi piloti. Non è mai il loro padre. È sempre uno di loro. Non li istruisce, li sfida. Se imparano è merito loro, in fondo. Il suo primo gesto da istruttore? Buttare il manuale simbolo di regole e stabilità.

In questo film, quando Amelia, la figlia di Penny, la nuova fiamma di Maverick, lo incontra nel pub di sua madre (lei ha costruito, lui no!), la piccola gli prende subito le misure e con sguardo severo lo gela: «Come mai sei ancora solo un pilota?». Il retropensiero della creatura è: «Come mai un adulto non ha usato la sua vita per costruire un nido?». Maverick replica che però «ha tante decorazioni». Amelia non è colpita favorevolmente. Medaglie e gloria non danno da mangiare: meglio una proprietà immobiliare! L’uomo serio produce. Nel resto del film, Amelia ha il ruolo di grillo parlante e continua a ribadire a Maverick le proprie responsabilità. Per esempio, quando lui esce dalla finestra della camera da letto di Penny, la piccola lo guarda con riprovazione e ne approfitta per ammonirlo di non spezzare ancora il cuore di sua madre. 

I figli ci inchiodano alla vita e ci impediscono quella leggerezza che è la condizione per il coraggio puro; leggerezza che è incarnata nelle ali degli aerei che soli permettono a Maverick di essere se stesso. Maverick dà il meglio di sé quando è pura dynamis. Persino il rapporto con Bradley Bradshow, figlio del suo gregario di tanti anni prima (della cui morte lui porta ancora il peso esistenziale), è una zavorra che lo frena. Nell’inseguimento finale quando, contro ogni probabilità, Maverick sfida con un aereo vetusto (come lui, in fondo) uno stormo di aerei di quinta generazione, è Bradley stesso che si rende conto di essere un peso: «Se io non ci fossi, non ti arrenderesti. Fai come se non ci fossi». Detto fatto. Maverick si scrolla di dosso il passato e vola veloce e imprendibile.

Ecco, questa è l’essenza dell’archetipo di Maverick puro movimento senza pensiero, pura esistenza senza responsabilità, pura leggerezza senza materia, velocità senza corpo, Achille senza Ettore, dynamis senza ethos, forma senza materia. Maverick è Maverick quando tutto è nel presente. Non vive pensando per il futuro, non accumula debiti, non investe in una casa e, se deve, riesce anche a dimenticare il passato. Lui è se stesso nel momento presente: «agisci, non pensare».

Per questo Maverick non vuole e non può crescere. Crescere vorrebbe dire negare la propria essenza e lui è perfetto. Durante il film, diventa tutt’uno con una serie ininterrotta di veicoli: la mitica Kawasaki, uno Spitfire scintillante, i caccia F14 (che sta a lui come l’Aston Martin sta a James Bond), i caccia F18, il prototipo sperimentale. Come il cane di Lorenzo Balla, Maverick non esiste senza il divenire che si incarna nel movimento, l’ala, il vento. Più veloce del suono, più veloce del tempo.

A proposito di tempo, quella di Tom Cruise è una generazione che si deve confrontare con il senso dell’esistenza: Daniel Craig, Harrison Ford, Johnny Depp, Silvester Stallone. Ognuno ha la sua risposta. Ognuno ha un’immagine di se stesso che gli sta scappando di mano. Ognuno vive all’ombra di quel ritratto di Dorian Gray che Hollywood gli ha regalato e imposto: la maschera e la persona. Quando chiedono a Rocky se non ha paura di morire, tornando a combattere a sessant’anni, la risposta è senza esitazione: «Ho paura di morire se smetto di combattere». Questo perché l’archetipo di questa generazione è l’azione, non la salute. In una gelida notte d’inverno, George Washington chiese al Marchese di La Fayette perché si trovasse con loro a mollo nelle acque ghiacciate del Delaware e rispose: «Per la gloria, che altro!». 

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Tom Cruise, l’attore, è ben consapevole dell’identità tra l’eternità del suo personaggio e la velocità. Un aneddoto durante le riprese lo rivela molto bene. La scena in cui Maverick e Penny vanno sul mare con una filante imbarcazione a vela J/125 è stata girata due volte. La prima ripresa è stata fatta a San Diego e, come ha detto l’attrice Jennifer Connelly (Penny), tutto era perfetto. Le immagini erano stupende, il mare era tranquillo, il vento dolce e c’erano perfino delfini che li accompagnavano. Ma Tom Cruise non era soddisfatto: «Voglio più velocità!» E così la scena è stata ripetuta in una giornata di vento fortissimo che è quella scelta per il film.

In una favola di Michel Ende, l’autore tedesco di La storia infinita, racconta di una creatura dotata di ali, forse un angelo, forse un Icaro, che potrebbe volare oltre le mura della città, metafora del quotidiano. Potrebbe, ma non lo fa, perché si ferma a occuparsi dei bisogni degli altri. Ogni atto di generosità lo appesantisce. Le ali si fanno grevi, le piume si coprono di polvere. Alla fine della giornata (forse della vita), l’angelo si rende conto che non riesce più a volare, è stato messo a terra. Gli altri, quelli che ha aiutato e che non avrebbero mai potuto volare, lo guardano con tristezza e con disprezzo. «Ma come – chiede loro l’angelo – non vi ho forse aiutato, perché ce l’avete con me?». «Sì, ma tu eri l’unico che poteva volare e non lo hai fatto. Tu hai tradito il nostro desiderio di volare».

L’angelo doveva incarnare la speranza sotto forma di volo e ha tradito questa possibilità. Maverick è come l’angelo di Ende, solo che non ha fatto l’errore di lasciarsi mettere a terra. Maverick è rimasto un pilota. Non ha seguito né le sirene della famiglia, né le lusinghe del potere. Soldi, amore, potere non hanno avuto effetto su di lui. Non è mai sceso dal suo aereo che, come diceva Guccini «è alluminio lucente/ è sempre "The Spirit of Saint Louis", "Barone Rosso"/ E allora ti prende quella voglia di volare che ti fa gridare in un giorno sfinito».

Se si vuole vivere per il presente non si può vivere per il futuro. L’eternità è fuori del tempo. Noi non vogliamo che Maverick cambi. Non vogliamo che ci aiuti. Vogliamo che continui a volare. Lui rappresenta il divenire eterno, sempre uguale a se stesso. Lady Gaga chiude il film con la sua Hold my Hand, Everything Will Be Ok. Una ballata romantica e struggente, ma qui era meglio Berlin con Take My Breath Away (Giorgio Moroder e Tom Whitlock). Ed è questo che vogliamo da Maverick, non smettere di volare: toglici il respiro come fa il vento forte quando ci blocca il fiato in gola. Non farti mettere mai a terra. Tu sei vento, ala, dynamis. Vola libero e più veloce che puoi.

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