Il Cairo alle urne

25 Giugno 2012

Quando arriviamo sotto le Piramidi a Giza, la mia guida, un copto, scuote la testa. “Lo vede? Questo oggi è davvero un deserto”. Indica i due pullman parcheggiati là dove prima c’era la casa di Sadat, poi abbattuta: il punto più bello per osservare la Piramide di Cheope. Qui sino all’anno scorso c’erano decine di torpedoni, e bisognava farsi largo tra videocamere, cellulari, migliaia di persone che ogni giorno s’accalcavano vicino al basso muro del terrapieno. Oggi siamo in qualche decina a fare le foto rituali con il dito che poggia otticamente sulla cuspide del monumento egizio, o a salire sui cammelli per la piccola escursione nel deserto di sabbia (15 euro a persona per venti minuti, più un euro d’obbligo di mancia ai giovanissimi cammellieri).


Mario (ma non si chiama così) parla un ottimo italiano, si è laureato nella facoltà di lingue e fa questo mestiere da quasi venti anni. Pensa di lasciare il suo paese adesso che i Fratelli musulmani, e Morsi, il loro candidato, hanno vinto le elezioni. “Siamo otto milioni di copti, abitiamo questo paese prima ancora degli arabi, e siamo sempre convissuti con l’Islam, ma adesso cosa ci succederà? E non creda che sia solo io; anche un mio collega di religione islamica, mi ha detto: Mario se pensi di andar via, vengo anch’io. Mettiamo insieme i ricavi di questi anni di lavoro e possiamo aprire un ristorante in Italia”.

 


Il giorno dopo saliamo alla Cittadella con le sue belle moschee, da cui si contempla lo skyline della più polverosa capitale del mondo: 20 milioni di abitanti. Mario orgoglioso mi mostra gli edifici. Il carattere degli egiziani, come si capisce al volo stando solo qualche ora con loro, è improntato a uno smisurato orgoglio di appartenere a questa terra. Dalle Piramidi alle cupole e ai minareti, passando per le chiese cristiane, ogni vero egiziano si mostra fiero di appartenere a questa terra carica di storia. Ogni tanto, quando ci fermiamo - Mario ci porta a vedere i produttori di essenze e di tappeti, o i negozi con cartoline d’epoca e libri rari - lui si siede a bere il tè con i suoi compatrioti e si vede che dibattono accanitamente.

 

“Non si parla che di politica, dappertutto”, mi dice come spiegazione. “Anche qui si discute di Morsi e Shafiq. Prima, sotto Mubarak, eravamo intontiti dal calcio; ci propinavano tutti i campionati del mondo, e poi le soap opera e i film. Adesso tutti hanno scoperto il gusto della discussione. Prima nessuno o quasi sapeva quali erano le assemblee parlamentari, quante persone le componevano, ora tutti vogliono conoscere. La grande rivoluzione è questa: vogliamo essere informati, e abbiamo capito che l’informazione è indispensabile per decidere”.


Quando passiamo con l’auto sotto la sede della televisione egiziana, mi dice che è difesa come un fortilizio; hanno scavato una sorta di trincea, e nei giorni di gennaio l’assalto al vero palazzo del potere da parte degli studenti è fallito a colpi d’arma da fuoco: l’hanno difeso duramente. Non come la sede del partito di Mubarak, il Partito Nazionale Democratico, che è oggi un torsolo annerito di cemento proprio dirimpetto al Museo Egizio, a un tiro di schioppo da Piazza Tahrir. Mario, su mia richiesta, porta me e mia figlia Giulia a fare il giro della piazza. È giovedì e l’annuncio della vittoria alle presidenziali è ancora di là da venire. Passiamo in mezzo al traffico vorticoso; la piazza è un grande spartitraffico nel luogo centrale del Cairo, città dove non ho visto da nessuna parte strisce pedonali, ma tutti camminano ovunque come in un immenso suq attraversato da saettanti macchine, pulmini, autobus e camioncini a clacson urlanti. Mario m’indica le tende sotto cui riposa, visto il caldo, un numero ampio di persone. “Sono tutte barbe”, dice. Ovvero Fratelli musulmani. “Comandati dalle città e dai villaggi qui intorno. Li portano con i pulmini e gli hanno detto di stare qui a presidiare la piazza”.

 


In effetti, oltre ai venditori di souvenir, bandiere, cappelli, maglie, come fuori dello stadio il giorno della partita, si tratta senza dubbio di contadini o persone con lunghe barbe. “I rivoluzionari”, dice la guida, “non ci sono più. Loro hanno abbattuto Mubarak, ma adesso la rivoluzione ha perso, e se ne avvantaggiano i Fratelli. All’inizio io non volevo venire in piazza, aggiunge, ma poi un amico musulmano mi ha sollecitato. Ci sono rimasto a lungo, fino a che ho potuto”.

 

L’idea che comunica, e non solo lui, è che il paese è in un interregno: non si sa bene chi comanda. Anche la polizia, sempre così onnipresente, oggi, se la chiami per un intervento, fa fatica a venire: “Ci avete attaccati, disonorati, accusati di essere dei corrotti, adesso arrangiatevi da soli”, mi riferisce in un locale lungo il Nilo un italiano che vive qui.


In una delle giornate sono stato anche all’università, tra gli studiosi di letteratura, dove ho degli amici. Parlavamo seduti in una piccola stanza con l’aria condizionata a palla, visti i 40 e passa gradi fuori. I miei interlocutori, un giovane studioso e uno più anziano, aspirano grandi boccate dalle sigarette e parlano con calma rassegnata della situazione. Il giovane, un intellettuale conoscitore di varie lingue, colto e lettore, ha votato per Morsi, non perché convinto, ma perché la rivoluzione finalmente si deve compiere e bisogna dare il potere a un non-militare, anche se Fratello musulmano; l’altro, più anziano, ha annullato la scheda. La preoccupazione è la stessa. Il giovane assicura che i Fratelli, che dice di conoscere bene, non hanno milizie armate come in Algeria. L’altro scuote la testa. La sera dopo, al ristorante, ho incontrato un altro intellettuale, un poeta, che giura che invece ci sono, o che almeno le armi sono arrivate da fuori. Sarebbe il Qatar, il piccolo Stato del Golfo, a finanziare questo partito transnazionale.

 


La prima sera, qualche ora dopo l’arrivo, sono stato a trovare Alaa al-Aswani, il maggiore scrittore egiziano. Fa il dentista, ma si occupa anche di politica senza appartenere ad alcun partito, ed è l’uomo che con un duro confronto in televisione mesi fa ha fatto dimettere Shafir da primo ministro. Dal suo capolavoro, Palazzo Yacoubian, irradia una luce dorata e un soffio caldo come in questa sera di giugno. Sotto casa sua c’è senza dubbio la polizia in borghese, i servizi segreti, si dice. Ma non si vedono. Sull’ingresso la targa da dentista. Abbiamo parlato di letteratura e politica per un’ora. Al-Aswani è un Pasolini eterosessuale: ama smisuratamente, come si capisce dai libri, il proprio popolo e in esso si identifica; ma è anche un raffinato intellettuale che parla cinque lingue; ha fatto un master odontoiatrico in America. La sua idea è che gli egiziani devono provare la cura dei Fratelli musulmani. “Solo così, mi dice, il mio paese potrà liberarsi dalla malattia dell’islamismo usato per fini politici. Il vero problema sono i wahabiti, con i loro soldi e con la nostra gente che è andata a lavorare in Arabia, hanno contagiato il nostro paese laico e tollerante. Ma non c’è via d’uscita: o i militari antidemocratici o le libere elezioni”.


Attorno a mezzanotte mi accompagna alla porta dello studio e si congeda. Non credo che oggi abbia altri stranieri con cui parlare, o clienti da curare. Sta finendo il prossimo romanzo rimandato da un anno. Speriamo che ce la faccia. Lo aspetto con curiosità.

 

 

Questo articolo esce in contemporanea su “La Stampa”.

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