La morte del Carnevale

2 Febbraio 2016

Domenica 24 gennaio è stata la domenica di settuagesima con cui inizia ufficialmente il Carnevale. Dura diciotto giorni. Il 2 febbraio è Candelora, da cui deriva l’antica tradizione precristiana della festa, il “Carnem levare”, per cui secondo alcuni la parola significherebbe “eliminare la carne”, mentre per altri “levare” sta per “innalzare la carne”; segue il Giovedì grasso che quest’anno cade  il 4 febbraio, e quindi tutto culminerà il Martedì grasso. Il giorno successivo, Mercoledì delle Ceneri, saremo ufficialmente in Quaresima, per cui la chiesa cattolica consiglia digiuno, contrizione e pentimento. Cos’è vivo e cosa è morto del Carnevale? Cosa resta presso di noi degli antichi riti agrari in onore di Saturno, da cui nasce la festa pagana? Che ne è dell’anarchia programmata e dell’inversione sociale temporanea portata dai suoi riti? Probabilmente nulla. Come tante altre feste, a partire dallo stesso Natale, il significato recondito, custodito intatto per secoli, è andato perduto, sostituito da una festività che ha i suoi riti consumistici, i suoi oggetti messi in vendita in un determinato periodo dell’anno (maschere, travestimenti, coriandoli, stelle filanti, dolci); quindi via verso un’altra celebrazione, in un’incessante serie di ricorrenze che della vera festa non hanno più molto. Quasi nessuno ricorda le libertà che le persone si prendevano in occasione del Carnevale, le cerimonie parodiche, le feste dei pazzi, il sovvertimento dei ruoli vigenti in una società rigida, di ferro, come era quella tradizionale, durata quasi intatta fino a sessanta anni fa. Durante il Carnevale tutto veniva messo sottosopra; il mondo era rovesciato di colpo, come ha raccontato Giuseppe Cocchiara nei suoi libri sul folclore. In India, lontano serbatoio di miti e di favole trasmigrate per secoli attraverso misteriosi canali stesi lungo i continenti, le comunità rurali eleggevano un re della festa che cavalcava all’indietro, non un destriero da parata, bensì un asino di campagna. Davvero il mondo era stravolto e per quel novero di giorni, fin che durava, fin che le luci della festa non si spegnevano, poteva accadere di tutto. In un carnevale del 1580 a Romans, paese del Delfinato, come ha raccontato lo storico francese Emmanuel Le Roy Ladurie, il Carnevale si trasformò in sanguinosa tragedia opponendo artigiani e nobili, classi medie e classi dominanti. Le libertà carnevalesche rappresentavano in modo ribaltato la struttura sociale tradizionale dove il Re era intoccabile insieme ai nobili, le donne sottomesse agli uomini, la parola turpe o blasfema interdetta, l’oscenità messa al bando. Nel Carnevale tutto andava gambe all’aria in una rivoluzione temporanea e radicale: le donne licenziose, i padroni bastonati, i poveri fatti ricchi e i ricchi ridotti in povertà; tutto ciò che era relegato ai ranghi “inferiori”, il fisiologico, il corporale, il genitale, diventava preponderante, e la cultura alta ridicolizzata. Il buffone diventava re e il re ridotto al ruolo buffonesco. Il Carnevale era il momento della trasgressione; l’ordine del mondo usciva dai suoi cardini, unico modo per poterlo mantenere tale per tutto l’anno. Per conservarsi intatto quel mondo aveva bisogno di essere scardinato almeno una settimana, per essere purificato doveva contaminarsi, per restare ancorato al proprio supremo ordine, sperimentare la confusione. Ordine e disordine si bilanciavano in modo perfetto. Ora che la trasgressione regna sovrana, che l’ordine sembra fondarsi su un caos programmato e continuo, cosa resta dell’antico spirito sovversivo? Quasi nulla. Se la società è liquida, o somiglia a una nuvola gassosa, come la rappresentano sociologi ed economisti, il Carnevale non ha più ragione di esistere. Non c’è più alcun ordine da confermare o ripristinare dal momento che viviamo immersi in un disordine continuo, fluttuante e inafferrabile. La parola turpe, l’insulto hanno invaso i luoghi della comunicazione pubblica (un allenatore di calcio, Sarri, insulta un altro, Mancini, con epiteti da turpiloquio); televisione e social network hanno rotto gli argini eretti nel passato: l’insulto è pubblico e replicabile. Il linguaggio si è contaminato e le “brutte parole” fanno parte dell’eloquio dei leader. Tutto si contamina con tutto, e la cultura alta non si distingue da quella bassa; anzi quest’ultima è il vero mood della società contemporanea. Il mondo non sembra possedere più alcuna verticalità, poiché i sistemi comunicativi e produttivi hanno prodotto l’orizzontalità totale. La festa dei pazzi, il mondo alla rovescia, è ogni giorno dell’anno. L’anarchia, la confusione, il rimescolamento sono stati permanenti. Lo stesso mascheramento, il travestimento, tipico del Carnevale e del suo spirito sovvertitore, è oggi un fatto comune e consueto. Non a caso David Bowie, icona trasgressiva, modello gender, maestro del travestimento e della identità plurima e cangiante, è stato celebrato in morte da tutti. La domanda che viene spontanea: se non c’è più differenza tra ordine e disordine, su cosa si fonderà la società? Se la trasgressione è continua, cosa vuol dire oggi trasgredire? In un libro emblematico, Ritratto dell’artista come saltimbanco, il critico Jean Starobinski aveva preconizzato all’inizio degli anni Settanta la mutazione in corso. Dopo aver analizzato in che modo il clown era diventato negli ultimi due secoli il soggetto preferito di pittori, musicisti e registi, Starobinski aveva concluso che la sua presenza sulle scene dell’arte si stava attenuando. Il clown, concludeva, è sceso per le strade, è in ciascuno di noi: “Non ci sono più limiti, non c’è più infrazione. Rimane la derisione”. Previsione perfetta.

 

 

Questo testo è già uscito su “La Stampa”

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