Per un teatro “leggero”

13 Marzo 2014

Il teatro dei Sacchi di Sabbia sembra fragile, ed è delicato, antiretorico. Ha qualcosa che ricorda le esili figurette tutte segni di Paul Klee o i fumetti; agisce in controtempo svagato, in sospensione. Sembra che gli spettacoli brevi, aforistici di questa compagnia pisana, che dichiara già nel nome di voler ergere una barricata per difendersi dalle mitragliate di una vita banale e omologante, abbiano fatte proprie le qualità che Calvino invocava nelle Lezioni americane, la leggerezza, la rapidità, l’esattezza, la visibilità, la molteplicità.

 

Nati negli anni Novanta, i Sacchi sono tra i pochi gruppi di quel periodo che hanno mantenuto una propria coerenza senza scadere nella ripetizione. Forse perché hanno vissuto e creato in modo defilato, senza mai fare grandi proclami, senza cavalcare le mode, anzi ritraendosi in una dimensione casalinga, minore. Hanno raccontato il mito di Orfeo ed Euridice con il silenzio, con la mancanza di ossigeno, come un destabilizzante precipitare nel vuoto pneumatico. Hanno, da bravi toscani, affrontato l’agiografia del protettore della loro città, San Ranieri, con ironia divertita, stupita, beffarda, un po’ scaciata. Lunari, lunatici, e in certe impennate decisamente, volutamente cialtroni, hanno composto sfilate goliardiche e poi si sono ritratti in delicati quadretti poetici, sempre intinti in un anticlimax di vita quotidiana. Così hanno dato corpo (e maschere) ad alcuni personaggi di Gipi (Gianni Pacinotti) in Essedice, da un racconto a fumetti autobiografico del disegnatore, una storia tenera e dura di conflitti generazionali, di vite tra la fine della guerra e gli anni ribelli delle rivolte e del punk, fino a noi. Si sono trasformati in figurine di carta viventi.

 

 

Hanno poi raccontato Sandokan e gli altri eroi improbabili di Salgari, ambientando storie di corsari e tigrotti malesi sui taglieri di una cucina, dove le mirabolanti imprese esotiche sognate in pantofole nell’Italia umbertina sono diventate affettamenti di carote, tagliuzzamenti di sedani, mondatura di patate, tritatura di cipolle e così via.

 

Nell’umore toscano si è inserita, dall’inizio, una nota campana portata da Vincenzo Illiano, che dà più terragni umori ai loro lavori, che hanno svariato dalle rivisitazioni di classici come il Riccardo III con modi di sceneggiata (in un lontano spettacolo, Riccardo III, Buckingham e ‘a malafemmena) fino a una immersione nell’improvvisazione in ottava rima, per raccontare storie di oggi in modo stralunato.

 

L’ultimo spettacolo, visto a Bologna ai Teatri di Vita, è un dittico di due brevi pièce di trenta minuti scarsi l’una. Due lampi, uno lirico e tragico con lieto fine; l’altro farsesco con un risvolto pensoso. Perché la caratteristica di questa compagnia è di mischiare le carte, di insinuare sotto ciò che appare semplice e evidente, con quella che a prima vista sembra svagatezza, una nota stramba, che porta altrove, che apre alla molteplicità della vita, al dolore che non sta mai senza la risata, e viceversa. La profondità si nasconde nella distrazione, negli atti comuni, nell’apparente visibilità senza ombre, e là morde a fondo (dimenticavo tra i vecchi spettacoli un Don Giovanni a cappella, “un capriccio per ‘boccacce e rumorini’ che propone, attraverso una partitura rigorosissima di ‘gesti musicali’, la struttura essenziale del Don Giovanni di Mozart”).

Metafisica del sacrificio


Il primo lavoro visto ai Teatri di Vita, Abram e Isac. Sacra rappresentazione in cartoon, è un intenso (ma anche apparentemente noncurante, in minore) viaggio nell’Abram e Isac di Feo Belcari, un classico del teatro devoto fiorentino quattrocentesco scritto ai tempi di Cosimo il Vecchio, che esalta l’obbedienza del patriarca a Dio e, per trasposizione, del suddito al signore. Una voce fuori campo (quella del regista Giovanni Guerrieri) rievoca le rime incatenate e baciate delle ottave, mentre tre donne, intorno a un tavolo, in una lieve luce di crepuscolo o di alba che ricorda la concentrazione del trovarsi a veglia, agiscono la storia.

 

 

Accumulano ritmicamente libri su un tavolo, uno sull’altro, a creare un monte, e lo disfano, a tempo, mentre si sente un battito come di metronomo o di cuore. Lo spettatore è rapito nel cammino, nella vita di Abramo, dietro gli armenti, verso i pascoli, poi nell’arrampicata sul monte, dove per ubbidienza all’angelo di Dio deve sacrificare il figlio unigenito Isacco. E la storia, i paesaggi, l’aura pastorale e la tensione appaiono quando le donne, con gesto rapido e esatto, aprono le pagine di quei libri, mentre li impilano, mentre li tolgono, riproducendo versi di animali, canti di uccelli all’alba. Compaiono somari, capre, angeli, Abramo e Isacco, un'apecar con armenti e cane, case nelle quali rimanere protetti, picchi minacciosi, sempre con figure di carta, bianchi pop up che narrano, insieme con i versi e il ritmo del comporsi e scomporsi delle figure dei libri.

 

 

La tensione è palpabile, leggera: si viene incantati e trasportati con dolcezza nella tragica storia di un sacrificio umano, che sarà sospeso dopo aver affermato il valore assoluto dell’ubbidienza. Il finale, con il belato del capro offerto come vittima al posto di Isacco, dopo una tesa scena con una delle donne che minaccia con il coltello la figura del giovane mentre canta un’aria del Flauto magico, scioglie la tensione senza cancellare né il ricordo dei momenti idillici, né la paura, né la tragedia. La conclusione non poteva che essere lieta, ma l’orrore del sacrificio umano aleggia, amaro, rassegnato, dietro il sospiro di scampato pericolo: per questa volta.

 

Splendidi sono i volti, le voci, il gioco delle mani, la concentrazione delle tre attrici, Arianna Benvenuti, Giulia Gallo, Giulia Solano, in questo cartoon metafisico, teatro minimale che interroga la grazia (e la Grazia) con smarrito pudore e stupore.

Etica degli Ultracorpi


Si chiude il sipario, si sente un delicato interludio. Poi un motivo noto, che all’inizio non sai collocare, e che a poco a poco riconosci come il tema di Aida. Didascalie proiettate ci raccontano di un’invasione di extraterrestri che usano baccelli per riprodurre gli esseri umani e attaccare la terra dall’interno. Ma in questo Il ritorno degli Ultracorpi. A science fiction, ispirato al famoso romanzo e al film di Don Siegel del 1956, gli esseri clonati non sono mostri insensibili privi di sentimento. Sono simili a noi, nudi, indifesi, protetti solo da scatolette di piselli allineate a coprire le pudenda. Sono sensibili alla musica, che incalza con la scena finale dell’Aida, Radames chiuso vivo nella tomba che incontra l’amata schiava etiope e il loro amore si unisce solo nella morte.

 


Questi due extraterrestri soffrono, vorrebbero intervenire, aiutare i due personaggi verdiani. Uno invita l’altro a scappare, a uscire, a fare qualcosa. Hanno contratto un unico vizio: quello dell’altruismo, inattuale tra gli uomini. Questa tenerezza, un po’ stranita, viene resa comicamente irresistibile dalla parlata campana stretta di uno (Vincenzo Illiano) e da una specie di grammelot russo dell’altro (Gabriele Carli). La trama famosa di fantascienza (vero e proprio mito d’oggi) non è solo rovesciata: è resa casalinga, indossata, banalizzata se volete, e perciò rivelata. Chissà se non c’è la possibilità, nella letteratura, nell’arte che racconta la minaccia, la paura dell’apocalisse, di rinvenire una insopprimibile nota umana, comica, sdrammatizzante, una boa nel mare della desolazione? In fondo sono solo favole, e il loro compito è, ugualmente, quello di consolare, inquietare, far sognare la possibilità di un’incrinatura diversa dell’universo. Più leggera, rapida, esatta, visibile, molteplice. Più gioiosa e praticabile.

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