Ricostruire

30 Maggio 2012

Appena dopo la violenta scossa di terremoto del 29 maggio in Emilia, sui quotidiani online compariva la foto di una singolare preghiera all’aperto: una cinquantina di uomini di religione musulmana piegati a terra su un prato, vicino alla fabbrica di San Felice sul Panaro dove erano morti due operai di origine pakistana e un ingegnere italiano. In realtà nella zona del terremoto, tra le province di Ferrara e Modena, Reggio Emilia e Mantova, è da giorni che si prega all’aperto e di sicuro si continuerà a farlo per mesi: infatti sono decine e decine le chiese distrutte o gravemente lesionate; sono chiuse anche quelle in cui devono ancora essere fatte le verifiche statiche.


A così breve distanza dagli eventi sismici un inventario dei danni al patrimonio storico e artistico è impossibile, ma è chiara la vastità dei danni. Il duomo di Mirandola, costruito nel XV secolo, è in gran parte crollato; dall’esterno si intravvedono i pilastri e quanto rimane delle volte gotiche. Un crollo anche nel duomo di Carpi, un edificio eretto agli inizi del Cinquecento su progetto di Baldassarre Peruzzi. In tutta l’area hanno subito grosse lesioni anche castelli, palazzi storici, campanili, torri civiche. Quella di Finale Emilia è stata lacerata dal sisma quasi avesse subito un colpo verticale dall’alto, tanto che il quadrante dell’orologio è tagliato in due. Ma si tratta solo di alcuni esempi.


Giornali e telegiornali ci presentano immagini di monumenti storici danneggiati che sembrano appartenere a un’altra classe rispetto a quelli investiti dai terremoti italiani più recenti, quello in Umbria e quello dell’Aquila; qui nella Bassa emiliana c’è ben poco che rientri nei grandi circuiti del turismo contemporaneo, un fenomeno di massa che segue per forza itinerari ben consolidati alla ricerca di episodi di grande rinomanza e richiamo. Qui vediamo soprattutto cittadine e paesi in cui la storia si è depositata senza emergenze straordinarie, ma con una pacatezza diffusa, nelle chiese parrocchiali come nei municipi, nelle case rurali come nelle ville padronali. I bassi portici di tanti piccoli centri della Bassa sono un po’ il simbolo di questo profilo solo apparentemente defilato; sono quelli, ad esempio, di Luzzara, in cui Cesare Zavattini e i suoi amici camminavano “sino alle due di notte” a parlare di cinema.

Che cosa fare di tutti questi monumenti distrutti o squarciati? Le strade sono due, quella praticata in Friuli dopo il terremoto del 1976 e quella imboccata dal governo Berlusconi dopo l’evento sismico del 2009 a L’Aquila. Nel primo caso si scelse di ricostruire gli edifici, per quanto possibile, nella forma originale; l’esempio per eccellenza fu quello del duomo medioevale di Gemona, minuziosamente ricostruito rimontando, quando recuperabili, i materiali antichi. Nel caso dell’Aquila, si decise invece per quella che venne definita opzione “new town” (si noti l’uso dell’inglese che, in certi contesti, fa sempre tendenza). Si scelse di assicurare subito un’abitazione ai cittadini aquilani in insediamenti del tutto nuovi, lasciando nel frattempo irrisolta la questione della ricostruzione del centro storico. Salvatore Settis ha scritto giustamente che “le new towns dell'Aquila si fanno a prezzo di abbandonarne il pregevole centro storico, ridotto a una Pompei del secolo XXI”. La scelta delle new-town – che non a caso vennero additate mediaticamente come segno della prontezza e dell’efficienza del governo – era l’esito coerente di una ben precisa visione della città come spazio essenzialmente funzionale: vi si abita e vi si consuma. Veniva di fatto messa in secondo piano la dimensione identitaria; del resto, in quegli stessi anni, la parola “identità” veniva brandita volentieri da membri dello stesso governo in una continua e fuorviante banalizzazione.


Qui in Emilia si tratta di ricostruire non tanto in nome del culto dei monumenti, ma proprio in nome dell’identità che essi assicurano ai luoghi e ai cittadini che li frequentano. Lo studioso può fornire la definizione corretta di una torre medioevale o di una chiesa del Quattrocento sotto il profilo della storia dell’architettura e della storia dell’arte; li sa catalogare. Ma è chi abita in quella cittadina o in quel paese che veramente sa che cosa siano la torre o la chiesa in quel determinato paesaggio urbano, che ha imparato a conoscere forse fin da bambino. Non è necessario che questo sapere si traduca in un discorso compiuto per essere vero: è convalidato ogni giorno da percorsi individuali, da movimenti consueti, da incontri possibili; è confermato da una sorta di ripetuta agnizione, come se ogni volta si riconoscesse il volto di una persona ben nota. Quella torre e quella chiesa (e i palazzi, i campanili, i portici …) diventano elementi di un orientamento quotidiano, marcano uno spazio che altrimenti sarebbe indistinto e lo trasformano in luogo; magari simile ad altri (i paesi della Bassa emiliana, in questo caso), ma pur sempre spazio speciale di una memoria individuale e condivisa.
 

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