Scimone e Sframeli: una grazia filosofica
Ci porta in un altro mondo, dove il dolore e il furore del nostro è tradotto in quieta indignata pazienza, in gentilezza e speranza. L’ultimo spettacolo di Spiro Scimone con la regia di Francesco Sframeli, Fratellina, prodotto dalla loro compagnia con il Metastasio di Prato, è una favola filosofica, una parabola, un lavoro che ridà senso all’arte della scena. Ha debuttato all’inizio di dicembre al Fabbricone della città toscana e dopo pochi giorni di repliche si è fermato, per riprendere forse l’anno prossimo. Strana sorte delle migliori e più indipendenti forze del nostro teatro, quelle che non cercano il facile consenso: lo spettacolo si produce e poi si inabissa, senza il tempo per crescere, per incontrare il pubblico. Eppure, la compagnia ha rappresentato al Festival d’Automne a Parigi, al Kunstenfestivaldesarts di Bruxelles e in altre importanti sedi nazionali e internazionali.
I testi di Spiro Scimone, concisi e brucianti come aforismi teatrali della grazia inquieta, sono stati tradotti alla Comedie Française e i premi Ubu non si contano: l’ultimo è arrivato per Amore, riconosciuto dalla giuria di critici e studiosi come miglior testo o progetto drammaturgico del 2017. Il dolce e bellissimo Amore, d’altra parte, è un’autoproduzione del 2016, e da allora la compagnia ha dovuto aspettare sei anni per poter presentare un nuovo lavoro.
Fratellina, come le altre creazioni di Scimone e Sframeli, si muove dalle parti di Beckett e in qualche passaggio anche di Kafka, ma con un piglio totalmente originale, volutamente dimesso, apparentemente paesano e ingenuo, che rivela, nei risvolti di un gioco incalzante e pieno di derive, infinite profondità. Ci sono quattro personaggi, Nic (Spiro Scimone), Nac (Francesco Sframeli), Fratellino (Gianluca Cesale) e Sorellina (Giulia Weber), a due a due strettamente legati, tanto da generare la fusione del titolo, Fratellina. Ognuno di loro è ristretto in una porzione di due letti a castello verdi che si fronteggiano, in un essenziale, funzionale e suggestivo impianto scenico di Lino Fiorito, che ricorda una camerata, un lager, ma pure i balconi di un condominio.
Ciascuno, all’inizio chiuso dietro avvolgibili verdi, ha perso i contatti fisici con gli altri: vagheggia una carezza, un abbraccio, un rapporto impossibile, costretto a relazionarsi solo con le parole. A poco a poco emergono traumi legati al mostrarsi solo a una dimensione, magari proiettati nell’infanzia. Nac da piccolo era ritratto solo di profilo; Nic restava sempre sui margini dell’inquadratura fotografica e veniva sempre tagliato. Fratellino, quando si apre il suo avvolgibile nel letto a castello di fronte, ha l’aspetto elegante: ma in realtà non lo è, non è ricco, è male in arnese.
I dialoghi, secchi, sono come un gioco a rimandarsi la palla, per arrivare a un qualche risultato o per raggiungere una qualche meta, che non sappiamo quale sia. Un personaggio lancia uno spunto, l’altro lo coglie, lo varia in dialogo con il primo, poi lo rovescia o ne prospetta uno diverso, che l’altro riprende, e così via a continuamente sfumare, aprire sempre nuovi sfuggenti scenari. Un gioco a ping-pong tra Nic e Nac, prima, uno sopra l’altro sotto, una triangolazione con Fratellino, poi, infine un doppio quando entra Sorellina.
Sotto l’apparente semplicità sono nascoste questioni come l’apparenza e la realtà, la distanza e la vicinanza, la separazione e il bisogno di prossimità, ricordi di infanzie segnate dalle mancanze, dal disagio, cariche di sospetti. I personaggi vorrebbero essere colorati, perché si sentono impalliditi, sbiancati. E le luci di Gianni Staropoli li mostrano quasi sempre in un diffuso chiarore, apparentemente capace di non lasciare zone oscure, ma con punti di ombra pure in agguato. La prima parte si svolge in un giorno in cui il sole è di cartapesta, tirato su con meccanismo teatrale attraverso fili; nella seconda sezione, più scura, appare una falce di luna sbilenca, che bisognerebbe raddrizzare.
La realtà è fatta di forti assenze, di rumore che copre il silenzio e la possibilità di ascoltarlo (di ascoltarsi), di mancanza di grazia, di ricchezza che nasconde la povertà, di sogni continuamente interrotti. “Io sogno di essere un poveraccio”, confessa Nac, in un empito francescano che fa il pelo a una società delle distanze, delle forme, delle apparenze, dei lockdown emotivi. Rilevando come tanti siano i poveracci che soffrono. Da quel posto dimenticato dove sono rinchiusi bisognerebbe fuggire: da quella realtà immobilizzata andare via, verso una nuova, diversa realtà, da inventare. Ma staccarsi da quei rassicuranti letti a castello dà l’ansia e pure l’idea di trovarsi troppo vicini a qualcuno procura tremore.
Quando si apre la quarta serranda verde appare Sorellina, che racconta come il marito, amato cognato di Fratellino, sia stato chiuso da due strani individui nell’armadio, perché donava tutti i vestiti agli altri. La chiave ce l’ha Sorellina ma qui, con un altro salto, alla richiesta di liberarlo, afferma che è l’armadio che hanno portato via. Bisogna trovarlo tra i mobili usati, per salvare il marito imprigionato…
Intanto si discute di grazia, Sorellina si trucca come Winnie in Giorni felici, continuamente si scarta da questa sospensione del reale quotidiano su un piano metafisico, percorso dal senso di una minaccia incombente alla quale si è rassegnati ma che si cerca di non accettare. C’è anche Pinter alle spalle dei lavori di questa straordinaria coppia, ma pure quell’autore è stato fatto proprio, ridotto a una cifra totalmente originale, sospesa tra l’aria domestica e lo scatto verso un altrove necessario.
È un teatro insieme coinvolgente e filosofico, che cela sotto la semplicità apparente la capacità di mettere in gioco sentimenti densi e sguardi acuti sul mondo, di aprire con leggerezza panorami di idee profonde. L’aria è dolce, giocata su una forte empatia umana tra i personaggi, che creano per lo spettatore un clima di affetto vero, di rivelazione di come l’amore, la comprensione, sia l’unica possibilità della vita: con subito il lampeggiare di una lama che taglia netta, evocando incomunicabilità, rumore, perdita dello stato di grazia, delle capacità di ascolto. Il tutto è precipitato in un sapiente gioco teatrale, di tempi serrati e perfetti, di risposte svagate ma brucianti, deraglianti e calate con smarrita naturalezza. Oggetti finti manovrati a vista con fili e carrucole accendono la possibilità teatrale di ricostruire il mondo seguendo le leggi del desiderio, peraltro continuamente insidiate, incrinate.
Vediamo tre uomini e una donna soli, separati, isolati, che non riescono a muoversi dalla loro postazione. Che solo possono blaterare al dirimpettaio, a quello che sta al piano di sopra. La metafora del lockdown che tutti abbiamo vissuto appare trasparente, come il finale, il momento di coraggio che fa scendere dai letti e aprire la porta dell’armadio, rivelatosi vuoto, per avviarsi verso un orizzonte chiuso da un cielo pieno di nuvole, colorato in modo espressionisticamente meraviglioso e tempestoso dalle luci di Staropoli. Il coraggio di rompere la stasi non nasconde la paura dell’ignoto.
I cinquanta minuti di questo incantevole spettacolo scavano duro, negli abissi, mantenendo sempre il sorriso, la levità di una fiducia che naviga sul vuoto e che vuole trasformare la disperazione, la solitudine, l’orrore perfino, nel bisogno di ritrovare l’umanità perduta.
Le fotografie sono di Gianni Fiorito, che ringraziamo.