Tutti chini sui loro computer portatili a 200 all'ora / Uffici

17 Marzo 2016

Sono seduto sul treno superveloce. Accanto a me – di fronte, di fianco, nei sedili più avanti e più indietro – c’è un intero ufficio al lavoro. Signori e signore, tutti chini sui loro computer portatili, elaborano fogli Excel, oppure rispondono a e-mail (hanno tutti la “pennetta” per Internet o sono collegati al wifi-frecciarossa); altri stanno scrivendo relazioni. Molti telefonano, tanti ascoltano musica dai loro iPod. Sui minuscoli tavoli, muniti di prese di corrente, ci sono diversi cellulari, almeno due per persona. Qualcuno invece legge sull’iPad il giornale, o forse un libro, o più probabilmente ripassa una relazione che dovrà tenere all’arrivo. Un ufficio viaggiante che neppure la fantasia di Vladimir Karfik, progettista boemo degli anni Trenta, avrebbe potuto prevedere, lui che aveva allestito un ufficio-ascensore per Jan Antonin Bata, fratello del fondatore della casata delle scarpe: una stanza mobile di 6x6 con climatizzazione autonoma, lavandino, radio, speciale scrivania e acclusa stenografa.

 

L’ufficio in cui mi trovo viaggia a oltre 200 chilometri all’ora, qualcosa di incredibile solo per la mentalità di 20-30 anni fa. Si tratta di un agglomerato umano instabile, che come si forma, alla partenza, così si scioglie, all’arrivo. La sua particolarità consiste nella compressione del tempo che le decine e decine di persone presenti sul Milano-Roma delle 7.00 del mattino stanno producendo. Proprio come ha previsto Jeremy Rifklin in La fine del lavoro (1995) le nuove stregonerie elettroniche hanno trasformato il concetto stesso di ufficio da spaziale a temporale. Ora si lavora dovunque, poiché l’ufficio è incorporato nel computer e smartphone che si ha nella borsa o in tasca. L’importante è captare il segnare con cui connettersi. Sta avvenendo una cosa che i futurologi non avevano previsto: la possibilità di essere contemporaneamente in più luoghi. Se infatti è possibile comprimere il tempo – tutta la storia della produzione industriale e postindustriale è esattamente questo –, gli studiosi del frenetico cambiamento attuale, Paul Virilio in testa, scommettevano sull’impossibilità di comprimere lo spazio, ovvero di essere presenti in più luoghi contemporaneamente. Ebbene, creando il mondo virtuale, noi tutti possiamo essere qui, su questo treno che fila velocissimo attraverso le gallerie dell’Appennino, e sulla nostra pagina Facebook, collegarci con l’ufficio che abbiamo lasciato alle nostre spalle, per parlare con i colleghi in tempo reale, e al tempo stesso gettare uno sguardo su quello che stiamo per fare all’arrivo.

 

L’uomo senza fili è oggi il nuovo impiegato, sia esso un quadro intermedio o un super-mega manager. Tutti sono condannati a comunicare con tutti ovunque si trovino. La virtualità ci moltiplica spazialmente. Toffler ci ha offerto una definizione perfetta: siamo preda della “Gorgone insonne” della società postindustriale. Ma come siamo arrivati a questo punto? Come siamo entrati nel Regno del “sempre presente”? C’erano una volta gli uffici, come racconta con dovizia di dettagli e particolari (forse troppi per la verità) in un libro onnivoro Imma Forino: Uffici. Interni arredi oggetti (Einaudi, pp. 377, € 25). L’ufficio comincia ad esistere quando si dissolve la “stanza”, e prima ancora lo “studiolo” dell’umanista post-rinascimentale, quando l’evoluzione del lavoro impone la concentrazione di molti individui in un medesimo luogo. Un percorso parallelo a quello che produce la fabbrica moderna: dal lavoro a cottimo svolto nella propria abitazione, a quello nella fabbrica moderna dove si concentrano decine e decine di persone.

 

La linearità comincia a dominare la concezione stessa dello spazio a partire dalla fine del Settecento, quando il lavoro si organizza per segmenti successivi. La macchina diventa la metafora che domina il mondo a partire dall’Ottocento, e anche l’ufficio (dal latino opus facere) passa a indicare il luogo e non più l’attività stessa. Irma Forino racconta lo sviluppo degli edifici, la loro disposizione, l’organizzazione interna, e insieme gli arredi che li definiscono. Una storia complessa e articolata che nel libro non sempre si coglie in modo sintetico e lampante; l’autrice ne sa tanto, ma il lettore si smarrisce nella descrizione di uffici, mobili, architetti, aziende, designer. L’ufficio è un meccanismo davvero complesso. A tratti appare la somma degli oggetti che contiene (telefono, penne, calendari, lampade, orologi, portasigarette, dittafono, casellario); a volte è invece la disposizione dei mobili (scrivania, sedia, schedari, armadi); altre volte ancora è il risultato della dimensione: dalla stanza all’anticamera, dall’ingresso all’openspace, dal Great workroom alla cellula del sistema “A3” della Kroll. L’ufficio è il perfetto specchio della società, una sua proiezione a tratti futuribile a tratti ancestrale.

 

Negli anni Trenta e Quaranta del XX secolo, l’ufficio si presenta come la vera casa dell’uomo poiché è qui si trascorrono la maggior parte delle ore dell’intera giornata. Così lo rappresentano i progetti degli architetti, ma così lo raccontano anche i film americani ed europei. Una di quelle “eterotopie”, come le definiva Foucault, i veri “non-luoghi” della nostra contemporaneità assurti a veri e fondamentali luoghi dell’esperienza, dal lavoro al flirt, dalla passione alla depressione. A parere di William J. Mitchell, studioso di architettura, i luoghi continueranno ad avere un potere, e non possiamo affrancarci del tutto da loro. La relazione face to face è ancora indispensabile perché più economica e gratificante della relazione virtuale. Piacere e controllo, in ufficio, sono una coppia inseparabile. In futuro vedremo il ritorno del rag. Ugo Fantozzi nella “Megaditta”, timbrare il cartellino e avviarsi al suo massacro quotidiano? Alzo lo sguardo. Il ragioniere viaggia qui con me, anche se non lo sa. L’ufficio ha divorato tutto il suo tempo.

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