Accelerare per competere
Tutti conoscono la parola “accelerazione”; ne facciamo esperienza ogni giorno. Tutto accelera attorno a noi. Anche noi stessi. Chi si ferma è perduto. Correre, correre, correre: questa sembra la parola d’ordine che governa la nostra vita quotidiana. Per quanto nella lingua italiana esista da tempi remoti la parola “celere” per indicare “svelto”, termine latino dotto, “accelerare” è entrato nell’uso comune molto tardi. Lo usa tra i primi Machiavelli, che per quanto allontanato dalla politica attiva, ha cominciato a ragionare a metà del Cinquecento sui cambiamenti – il muoversi sempre più rapidamente – di quella che poi abbiamo chiamato “modernità”. Oggi l’accelerazione è un fenomeno comune, tanto è vero che esiste una branca della sociologia che la studia in rapporto alle nostre esistenze individuali. Hartmut Rosa, un quarantenne che insegna Scienze politiche a Jena, ha scritto una serie di volumi su questo fenomeno. Il più recente, Accelerazione e alienazione (Einaudi), ci aiuta a ragionare su cosa è accaduto nell’uso del tempo, il bene più prezioso che abbiamo, e di cui siamo, come ricordava oltre trent’anni fa Italo Calvino in un suo articolo, sempre più avari. Tre sarebbero per Rosa le accelerazioni cui siamo sottoposti. La prima, di tipo tecnologico, riguarda l’introduzione dei personal computer e di Internet. La velocità nei mezzi di trasporto, merci e passeggeri – si pensi al cambiamento introdotto dai treni ad alta velocità in Italia –, è cresciuta del 10 elevato alla seconda potenza, mentre quella delle informazioni ha come indice di potenza 6, ovvero tre volte tanto. Paul Virilio, lo studioso francese, parla di “dromologia”, che presto riguarderà non solo cose, persone e informazioni ma anche le tecniche biomediche applicate ai corpi. L’effetto di tutto questo è che il tempo domina sempre più lo spazio, che invece si contrae per effetto della accelerazione progressiva dei mezzi di trasporto e della velocità di scambio delle informazioni. Non siamo ancora al teletrasporto, ma qualcosa del genere: pur restando fisicamente fermi siamo virtualmente in movimento. La seconda accelerazione riguarda i mutamenti sociali. Assistiamo a una continua contrazione del presente, conseguenza dei ritmi sempre crescenti dell’innovazione culturale e sociale. Non a caso la parola “innovazione” è uno dei veri miti d’oggi. In cosa consiste l’accelerazione sociale? Nella costante decadenza di affidabilità delle esperienze e aspettative e insieme nella contrazione di quello spazio temporale che chiamiamo “presente”. Niente più è stabile e duraturo. Basta verificare i mutamenti d’indirizzo e recapiti telefonici delle persone, della loro email, orari di apertura e chiusura degli esercizi commerciali, rate da pagare, mutui, tassi di interesse, ma anche popolarità dei personaggi televisivi, dei partiti, dei politici, oltre che le relazioni di amicizia o il posto di lavoro. Nessuno finirà di lavorare nella medesima azienda dove ha cominciato, semplici impiegati o grandi manager. Quello che più colpisce è l’accelerazione stessa del ritmo di vita, fatto tangibile. Se paragoniamo le cose che facciamo in una giornata a quelle che facevano i nostri genitori o nonni nello stesso arco di tempo, la differenza è rilevante. La rivoluzione del digitale ha accelerato tutto. Si mangia sempre più in fretta e si dorme sempre meno. Lo studioso americano d’arte e di cultura visiva, Jonathan Crary sostiene nel suo recente volume 24/7 (Einaudi) che l’ultimo assalto del turbocapitalismo ha come obiettivo il sonno: farci dormire sempre meno per mettere a valore il tempo stesso, un altro terreno di conquista. Probabile anche che l’accelerazione tecnologica sia l’effetto di quella sociale, ovvero della necessità di andare più veloci, per una intensificazione dei ritmi lavorativi e la loro estensione a tutto l’arco della giornata: lavorare 24 ore per 7 giorni la settimana. La differenza tra tempo di lavoro e tempo libero non esiste più grazie a computer, smartphone, tablet e altri strumenti tecnologici. Lavoriamo sempre, o quasi. Rosa sostiene che il vero motore di tutto questo sia la competizione sociale. Risparmiare tempo a tutti i livelli, a partire da quello produttivo, diventa un modo per spendere meno e per essere più competitivi. La circolazione sempre più vorticosa del denaro prodotta dal capitalismo finanziario si applica a tutti gli scambi monetari e materiali: essere sempre più celeri è il modo sicuro per produrre sempre maggior profitto. Il tempo è estratto dagli individui, da tutti noi. Lavoriamo anche quando non lo sappiamo: quando carichiamo delle foto sulla nostra pagina Facebook valorizziamo l’azienda che lo ha inventato e diffuso. Sarebbe la competizione, motore sociale per eccellenza, a spingere a una sempre maggiore velocizzazione dei processi. Noi tutti dobbiamo continuamente rinegoziare la nostra posizione lavorativa o economica. Dal momento che il principio determinante della competizione è la “prestazione”, diventa evidente che si cerca di fare di più in sempre meno tempo; la prestazione è per definizione: “lavoro compiuto nell’unità di tempo”. Non c’è solo questo. A guidare i nostri comportamenti c’è la necessità di valorizzare la vita in tutte le sue forme. Dato che la religione cristiana con la sua promessa di vita eterna ha perso la sua presa a causa della secolarizzazione, oggi si pone l’accento sulla vita prima della morte. Che siano o no credenti, in Occidente gli individui hanno valorizzato la vita in ogni sua forma. Una vita ricca di esperienze, da gustare in tutte le sue forme e aspetti, bassi o sublimi che siano. Questo appare oggi come l’aspirazione principale dell’uomo moderno, dice Rosa. L’accelerazione diventa perciò la conseguenza di questo: vogliamo vivere sempre più cose, o sempre più vite in una sola, realizzare tutte le potenzialità implicite nelle nostre esistenze. Questa è anche la risposta che cerchiamo di dare al problema della nostra finitezza e della morte. La vita eterna è solo quella che riusciamo davvero a vivere qui. Secondo il sociologo tedesco l’accelerazione sociale che ne risulta non ha più bisogno di motori esterni: è un sistema che si autoalimenta. Tutti noi abbiamo la sensazione di correre da fermi, come il proverbiale criceto nella sua ruota. Se ci va bene ci sentiamo su un piano inclinato, per cui fermarsi significa perdere terreno rispetto agli altri (“La concorrenza non dorme mai”, recita un vecchio proverbio). Non si tratta solo di un problema individuale o sociale, ma anche politico, dal momento che lo scopo dei politici è quello di mantenere le singole società o paesi competitivi rispetto agli altri, e la politica, arte della mediazione, è messa in crisi dalla necessità di decidere in tempi brevissimi. I politici stessi sono presi nel gioco dell’accelerazione progressiva: fanno sempre più promesse, spesso inverificabili. La lista delle cose da fare, che compiliamo ogni giorno, non è solo un problema nostro, ma anche della cosiddetta agenda politica. Abbiamo sempre di più (cose, oggetti, strumenti, conoscenze, ecc.) ma non ce la facciamo a tener dietro a tutto. Un senso di frustrazione, un nervosismo continuo, una nevrosi dilagante, ci assedia ogni giorno. Siamo sempre più alienati, come sosteneva il profeta barbuto di Treviri. Che stia tornando di moda Marx nonostante la fine dichiarata delle ideologie?
Questo articolo è comparso su “L’Espresso”.