Charles Simic poeta: Belgrado-New York-Chicago

17 Gennaio 2023

Quando Dušan Simić, meglio noto come Charles Simic, nato a Belgrado il 9 maggio 1938 e morto a Dover, nel New Hampshire, il 9 gennaio del 2023, venne nominato poeta laureato d’America nel 2007, la PBS, televisione pubblica americana, andò a intervistarlo. Lo riprese sulle rive del Bow Lake nei pressi di Strafford, nel New Hampshire, dove ha vissuto per trentacinque anni. Le riprese di Simic che camminava tranquillo lungo la riva del lago e le successive, anch’esse girate all’aria aperta, in una giornata tranquilla e senza vento, con un sole che metteva di buon umore, potevano far pensare di trovarsi di fronte a un poeta arcadico, che cercava ispirazione al ritmo dei suoi versi nelle piccole onde del lago che battevano contro la riva, quasi ad imitazione di un romantico inglese. La realtà era un po’ diversa.

Prima di tutto perché Simic era un vero poeta cittadino, e lo sfondo delle sue poesie, quando non era la Belgrado in guerra dei suoi primi anni, era quasi sempre New York o Chicago, dove era vissuto per alcuni anni dopo essere venuto in America nel 1954, e che per lui era sempre stata la città americana assoluta, ancora più di New York. E poi perché Simic non scriveva su una sedia a sdraio sulla riva del lago, anzi diceva che gli spazi accoglienti e appunto romantici che le istituzioni europee mettevano a disposizione degli scrittori a cui veniva offerta una residenza, eleganti, silenziosi, sofisticati e con belvedere, lo intimorivano. Lui preferiva scrivere poesie stando a letto la mattina, perché così gli sembrava di non fare niente di serio, di scarabocchiare soltanto su quaderni a righe, di scuola, dalla copertina nera, con una calligrafia però molto curata, anche quando si trattava soltanto di abbozzi e prime idee.

Era importante che le sue poesie fossero precise fin da subito, perché non sono dei fiumi di parole. Sono un rubinetto sempre aperto, è vero, ma che fa cadere solo una goccia per volta, fino a riempire trenta volumi, e quel che più conta è che l’acqua che ne cade deve essere subito pura, istantaneamente distillata. Se la poesia di Simic ha un tema, è appunto la distillazione della storia, sfrondata da ogni retorica, inclusa quella dei buoni sentimenti o della missione della poesia stessa. La liquidità del linguaggio, filtrato attraverso quel distillatore diligente che era Simic, prende la forma di versi brevi, affilati come frecce, lontanissimi da ogni florilegio retorico, e che puntano come un teleobiettivo sui tanti, tantissimi, che nel gran film della storia vengono chiamati soltanto a fare da comparsa, o per essere più precisi da danno collaterale. 

Una delle sue poesie più famose, che qui non traduco, perché non mi voglio mettere in competizione con gli ottimi traduttori che Simic ha avuto in italiano, da Nicola Gardini a Damiano Abeni, ma che mi limito a parafrasare, si intitola appunto Apparizione cameo: “Mi hanno dato una particina senza battute”, dice Simic, “in un’epopea sanguinaria. Facevo parte di quell’umanità che deve sfuggire a un bombardamento. Da lontano, il nostro grande leader starnazzava come un galletto da un balcone, o era forse un grande attore che impersonava il nostro grande leader. Ecco, quello sono io, dissi ai ragazzini. Quello schiacciato tra l’uomo che alza due mani bendate e la vecchia con la bocca aperta come se ci volesse mostrare un unico dente”. 

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Lo humour nero è fondamentale per sopravvivere alla guerra, è prezioso quanto lo zucchero e il caffè. Simic ne possedeva in abbondanza, e in effetti non ha fatto altro che offrirlo al mondo, in confezioni chiamate libri, soprattutto a un’America che in genere pensa di non averne bisogno. Ma forse non lo pensava nemmeno l’Europa, prima della guerra nell’ex Jugoslavia (che non lo vide per nulla tenero con i suoi connazionali, ma nemmeno con gli intellettuali rumorosi degli stati confinanti), prima della guerra in Ucraina. Uno dei primi ricordi di Simic bambino è quello di una bomba tedesca che durante la Seconda guerra mondiale colpì non la sua casa ma quella vicina, e lo spostamento d‘aria lo buttò giù dal letto. Nel 2013, in un’intervista a “Publishers Weekly”, disse: “I serbi in generale hanno un grande senso di humor. Sentivamo le bombe esplodere da qualche parte, e quello è un rumore che non ti dimentichi, è come un rombo profondo che sale da dentro la terra. Poi qualcuno diceva qualcosa di divertente e tutti ridevano. Questo è humour nero. Credo che sia così che si sopravvive.” 

Ed è anche così che si scrivono poesie. Per esempio, Il mio turno di confessarmi, un’altra delle sue composizioni più conosciute, in cui il narratore è un cane che scrive una poesia per spiegare perché sente il bisogno di abbaiare. Anche qui preferisco offrire una semplice parafrasi, ma che poi non è molto lontana da una traduzione perché, appunto, la poesia di Simic raggiunge il massimo della concentrazione con la massima semplicità, una qualità che nessun traduttore può alterare, nemmeno se traduce in una lingua come l’italiano che sembra sempre richiedere qualche sforzo retorico in più. Queste sono dunque le confessioni del cane poeta: “Su una panchina ho visto una donna anziana che si tagliava i riccioli bianchi con forbici immaginarie, guardandosi in uno specchietto. In quel momento non trovai niente da dire, ma quella stessa notte mi stravaccai sul pavimento, masticando una matita, sospirando un po’ sì e un po’ no, ringhiando anche, a qualcosa là fuori, alla quale non riuscivo a dare un nome”. 

Non dimentichiamo che per Simic l’inglese era una seconda lingua, appresa dopo il serbo-croato, che peraltro la vita in America gli fece in parte disimparare (ma non tanto da non essere in grado di tradurre in inglese i poeti di quella lingua). Imparò l’inglese a sedici anni, il che vuol dire che il fluire della sua poesia è impeccabile, ma non necessariamente stratificato. Non possiede l’inconscio linguistico del parlante nativo, non è una lingua madre. Simic non è Nabokov, che reinventa l’inglese a suo uso e consumo. Simic scrive nell’inglese che ha imparato a scuola e nella vita, un inglese terso e chiarissimo, da professore d’inglese, come lui è stato, che però è tutto ciò che gli serve per metter in scena i suoi enigmi in forma di poesie. Di altro non ha bisogno. Tutta la sua poesia è sulla superficie della lingua, una domanda aperta sul mistero dell’ovvietà, perché è nella superficie che si nasconde la profondità.

Il cane che deve spiegare perché abbaia è il poeta al quale viene chiesto perché mai scriva poesie. Nella conversazione con la PBS del 2007, Simic racconta che mentre teneva un corso di poesia a El Paso, in Texas, uno studente gli chiese a bruciapelo: a che cosa servono le poesie? Sul momento non seppe cosa rispondere, appunto come se fosse stato ridotto alla situazione di un cane a cui venga chiesto a che cosa serve abbaiare. Lo salvò una ragazza che alzò la mano e disse: per ricordare alla gente la propria umanità. Simic fece propria questa perla di saggezza, ma non è mai stato sorpreso a dire che cosa “dovrebbe” fare la poesia o qual è il suo scopo ultimo, incluso quello sociale.

Ogni volta che sentiva una frase che cominciava con “Il poeta deve…” gli venivano in mente le conferenze degli autori sovietici, nelle quali la linea dettata dal Partito portava qualcuno sul palco a dichiarare che il compito del grande poeta sovietico doveva essere… e il resto ce lo possiamo immaginare. No, risponde deciso Simic, il poeta è al suo meglio quando viene lasciato per conto suo. Anche se riveste una posizione ufficiale, come quella di poeta laureato. Potrà appunto dire che la poesia serve a ricordarci della nostra umanità, ma lo stesso concetto si può esprimere in forma ancor meno programmatica. Come disse lui stesso in quella conversazione del 2007, quasi di sfuggita, senza dare peso a quello che diceva, gli esseri umani non conoscono sé stessi molto bene. Non ci vuole molto per completare il non detto del suo pensiero: che la poesia è uno dei modi migliori che hanno escogitato per rimediare a questa loro mancanza.

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