Lav Diaz Leone d'Oro a Venezia / Diario veneziano (parte terza)
Il festival è ormai agli sgoccioli, e si vede. L'aria è quella della smobilitazione generale, con sempre più accreditati che crollano addormentati nel buio della sala, stanchezza diffusa e qualche scatto d'irritazione al momento di occupare i posti al momento della proiezione. I più contenti sembrano i camerieri dei bar del Movie Village. Una di loro mi ha porto con insolito slancio la solita brioche al cioccolato: «È quasi finita!», dice sorridendo.
Il concorso prosegue senza scossoni, ma soprattutto continua a dimostrare una sconfortante mancanza d'identità: oltre all'ultimo italiano in competizione, Questi giorni di Giuseppe Piccioni, è stato davvero impossibile non rimanere imbarazzati davanti all'ultimo Kusturica, On the Milky Road, che ripropone il suo immaginario ormai frusto, stavolta con “l'apporto attoriale” (virgolette d'obbligo) di Monica Bellucci.
Più interessanti, invece, due rievocazioni del passato (a quanto pare, il passato sembra il solo tema portante di questo festival), sia pure con intenzioni ed esiti assai diversi. Da un lato abbiamo Andrej Konchalovsky, alle prese nientemeno che con la Shoah (il titolo, Paradise, intende alludere al “paradiso in terra” che i nazisti intendono creare scatenando l'inferno). Tre personaggi si raccontano davanti a un tribunale (celeste?): il primo è un collaborazionista francese («Io non lavoro per la Gestapo, lavoro per la polizia francese», si giustifica) assassinato dai partigiani; la seconda una principessa russa spedita nei lager per aver nascosto due bambini ebrei; il terzo un ufficiale delle SS aristocratico, colto e cosmopolita deciso più che mai a difendere la Kultur germanica dalle contaminazioni dell’ebraismo internazionale e dal bolscevismo. Le storie dei tre si intrecciano fra loro secondo i moduli del melodramma più che della tragedia, dando vita a un affresco della Seconda Guerra Mondiale, dalle prospettive spesso inedite: a memoria, non mi pare vi siano stati film nei quali si spiegasse con tanta esattezza l’ossessione di Himmler per la creazione di un corpo dell’esercito interamente “ariano” come le SS, né che affrontasse direttamente la scomoda coabitazione, all’interno del medesimo corpo, di «umili bottegai e padri di famiglia» e di aristocratici di antichissimo lignaggio. Tuttavia, a fianco di questi elementi, altri sollevano più di una perplessità, quando non addirittura un certo fastidio. Non si tratta tanto della riproposizione quasi pedissequa, nelle scene del lager, di quasi tutti i luoghi topici dello Shoah movie (una ripassata al recente – e ottimo – Il figlio di Saul non avrebbe guastato), quanto l’ossessiva presenza della redenzione e della salvezza (molto “russa”, forse, ma altrettanto discutibile). A peggiorare ulteriormente le cose, il didascalismo superfluo di certe trovate (il terzo canto dell'Inferno di Dante recitato nel campo), battute che puzzano lontano un miglio di revisionismo, equiparando bolscevichi e nazisti (entrambi sarebbero stati intenti a edificare il paradiso in Terra a scapito dell'umanità stessa) e una messa in scena che vorrebbe essere rigorosissima, con tanto di filologico bianco e nero, e invece finisce per essere soltanto estetizzante. D'altra parte, se esiste un turismo dell'orrore come quello raffigurato in Austerlitz di Sergej Loznitsa, non sorprende più di tanto la mancanza di tatto con cui Konchalovsky si confronta con la maggiore tragedia del XX secolo. L'impressione, d'altra parte, è che il connubio fra l'argomento “importante” e la confezione di estrema eleganza, troveranno facilmente innumerevoli sostenitori in giuria: Paradise potrebbe perfino ambire al premio maggiore.
Su tutt'altro versante abbiamo invece Jackie di Pablo Larraín, prima incursione del regista cileno al di fuori del suo terreno prediletto, il Cile del secondo Novecento. In questo caso ci troviamo infatti negli Stati Uniti, nei giorni cruciali che precedono e seguono l’assassinio di John Fitzgerald Kennedy. Protagonista è ovviamente la First Lady (una Natalie Portman per fortuna lontana da stucchevoli manierismi mimetici) impegnata, attraverso l’organizzazione di un funerale “regale”, ad assicurare al mito kennedyano il giusto posto nella Storia. Come nel precedente Neruda, di cui costituisce una sorta di gemello, Larraín usa (e talvolta abusa) degli strumenti del biopic o del linguaggio dei media per operare una decostruzione autoptica di una figura mitica. Se nel suo ritratto del poeta cileno il regista prendeva in prestito le retroproiezioni dei film hollywoodiani degli anni Cinquanta, qui arriva a “inserire” Portman/Jackie in autentiche riprese televisive dell'epoca, senza peraltro preoccuparsi troppo di nascondere il trucco. Quello della veridicità della testimonianza e della memoria, sia essa scritta o (tele)visiva, è uno dei temi ricorrenti in Jackie: «Non ricordo quasi niente di quel momento, l’ho letto sui giornali», dice la ex First Lady, nella battuta più rivelatrice del film. Larraín ci ricorda che siamo negli anni Sessanta, l'epoca della definitiva mediatizzazione della Storia (e, prima ancora, della realtà stessa), ricreata a tavolino e organizzata secondo una successione di momenti spettacolari, di frasi a effetto, di figure esemplari (Lincoln, Kennedy). Da «La gente ha bisogno della Storia» a «la gente ama le favole»: la favola della Camelot kennediana è di fatto la Storia, sapientemente orchestrata da dietro le quinte da una donna intelligente, colta e, soprattutto, con un grande senso dello spettacolo (e “spettacolo” è proprio la definizione che viene data dei funerali di JFK). La contropartita di tutto questo è, naturalmente, la reificazione degli individui, a cominciare proprio dalla stessa Jackie: quando nel finale del film, vediamo in una vetrina una fila di manichini abbigliati con il suo stesso tailleur (quello, celeberrimo, della disgraziata visita a Dallas), comprendiamo che la metamorfosi si è ormai compiuta. Favola e Storia, Camelot e Washington sono diventate una cosa sola.
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Postilla sui premi, scritta la sera del 10 settembre, a casa.
Butto giù queste poche righe a caldo, poche ore dopo il rientro dal Lido e appena conclusa la cerimonia di premiazione. «Una scelta coraggiosa della giuria», ha detto qualcuno, a proposito del Leone d'Oro assegnato a Lav Diaz per The Woman Who Left. Di sicuro più coraggiosa dei programmatori della Mostra, che hanno dimostrato assai scarso rispetto per uno dei maggiori cineasti viventi, confinandolo in coda al concorso con il rischio, paventato da molti e fortunatamente evitato, di “ammazzare” il film, già di suo lungo (226 minuti) ed estremamente complesso. Quanto ai premi, non fanno che rispecchiare un concorso che, vale la pena ribadirlo ancora una volta, non ha brillato né per coerenza di fondo, né per qualità dei prodotti (ovviamente con le debite eccezioni, come il premio principale dimostra): un incomprensibile Premio Speciale della Giuria al men che mediocre The Bad Batch; un cerchiobottistico premio alla miglior regia assegnato ex aequo allo spericolato Amat Escalante per La region salvaje (per far contenti i cinefili arrembanti) e al “Venerato Maestro” Konchalovsky (per contentare invece i cinefili vecchia scuola - ma almeno ci è stato risparmiato il Leone d'Oro); il Gran Premio della Giuria assegnato a Tom Ford per Nocturnal Animals, talvolta splendido nei singoli frammenti, ma nel complesso un po' debole, e comunque non all'altezza del precedente A single Man, presentato proprio a Venezia sette anni fa. Per il resto, quasi ignorato Larraín (soltanto un premio alla sceneggiatura di Noah Oppenheim) e dimenticato del tutto Une vie di Stephane Brizé: un peccato, perché si trattava con ogni probabilità di uno dei più originali tra i film in concorso.
Al di là delle valutazioni sul palmarès, è proprio la selezione a meritare i giudizi più severi, dimostrandosi più intenzionata ad affastellare nomi di richiamo (per dirne una: c'era davvero bisogno di infilare un regista ormai storicizzato come Malick in concorso, posto che il valore del suo film è fuori discussione?), a conciliare gli ammiccamenti cinefili con le aperture al pubblico mainstream, e magari facendosi anche garante del cinema nostrano (ma due titoli su tre erano indifendibili), invece che a compilare una scelta di film capace di fornire una panoramica delle principali tendenze cinematografiche di quest'anno. Insomma, sebbene la 73ma edizione della Mostra si chiuda con un bilancio nel complesso più positivo rispetto all'anno scorso, i problemi, i compromessi e le goffaggini rimangono davvero ancora troppi. In coda alla premiazione, è stata annunciata la data d'apertura della prossima Mostra del Cinema: si riparte il 30 agosto 2017. Una minaccia o una speranza?